Finora abbiamo parlato di "movimento di lotta contro la finanziaria". E, in realtà, i sindacati e i "progressisti" fanno di tutto per circoscrivere la lotta entro l'orizzonte di "modifiche" alla finanziaria, di cui apprezzano, peraltro, l'obiettivo di contenere il deficit pubblico e la quantità di "contenimento". Ma può questo grande movimento di lotta ridursi a tale striminzito obiettivo? I milioni di operai e lavoratori che hanno riempito le piazze non hanno forse mostrato una ben più radicale volontà di farla finita col governo Berlusconi e tutta la sua politica?
Queste domande non sono poste solo da chi, come noi, sa che in ogni scontro sociale si manifesta la contraddizione fondamentale capitalismo/comunismo, e la lotta per il potere tra le due classi che rappresentano i due sistemi sociali; sono poste all'ordine del giorno dallo svolgimento stesso degli avvenimenti.
La politica di Berlusconi non mira semplicemente a qualche sforbiciata sulle pensioni, ma punta diritta al cuore dell'organizzazione operaia per smantellarla onde procedere innanzi sulla via di un crescente soggiogamento e sfruttamento della classe operaia. Del pari, gli operai sono scesi in lotta non solo contro le sforbiciate, ma per difendere la propria organizzazione e unità, armi fondamentali per tener testa agli attacchi attuali e futuri dell'avversario. Il loro movimento di lotta è, quindi, contro tutta la politica del governo e contro il governo stesso.
La "sinistra" nel suo insieme è impegnata a occultare questo dato. Se l'ammettesse, dovrebbe assumere il compito di puntare a licenziare subito Berlusconi. Ma farlo sull'onda di una mobilitazione di piazza vorrebbe dire disporsi a un governo costretto a rispondere direttamente alla classe operaia. Per quanto disponibile questa sia a sacrificarsi per il capitalismo nazionale, ben difficilmente potrebbe tollerare che un governo generato dalla sua forza possa favorire classi e ceti sociali sfruttatori. Si aprirebbe, dunque, uno scontro di classe ancor più profondo e radicale che metterebbe duramente in difficoltà l'andamento dell'economia nazionale, e lo stesso capitalismo. E l'una e l'altro sono alla sommità delle preoccupazioni dei "progressisti".
Così questi, invece, di raccogliere la spinta del movimento alla cacciata del governo, inseguono incontri parlamentari per concordare emendamenti alla finanziaria, rimandando la rivendicazione del governo al momento in cui saranno riusciti a coalizzare uno schieramento "ampio", con dentro "popolari" e Lega fondato su programmi il più possibile "neutri" rispetto alla classe operaia, come il "governo delle regole" proposto da D'Alema.
La ricerca di accordo con quei potenziali alleati comporta l'affievolimento dell'appoggio alla classe operaia. E' quanto sta accadendo al Pds: nessuna iniziativa pubblica di sostegno, assenza dai cortei, un vertice che si spende in polemiche su tutto (RAI, "mani pulite", "conflitto di interessi" di Berlusconi) tranne che in una costante battaglia contro la politica "sociale" del governo. E' come se il Pds avesse fastidio a confrontarsi con questo movimento. E, di sicuro, questo movimento gli crea un grande fastidio, perchè arriva nel momento in cui esso fa il massimo sforzo per sciogliere definitivamente la sua identità -ancora troppo "classista" per i veltroniani e per gli antiveltroniani alla D'Alema!- in un "partitone democratico".
Rifondazione si rivolge al movimento di lotta con un atteggiamento più combattivo del Pds. Alcuni suoi leaders han parlato persino di "cacciata del governo" stabilendo arditi paralleli con la cacciata del governo Tambroni. Ma anche essa condiziona ogni ulteriore passaggio all'unità delle forze "progressiste" e alla ricerca di un fertile rapporto con i "popolari" (v. Bertinotti su Liberazione del 24.10.94). Né Rifondazione insegue il fratello maggiore solo sulla questione del Ppi. Purtroppo cominciano a emergere segnali di dialettizzazione col federalismo e con la Lega, come dimostra l'accordo tra parlamentari lombardi di Pds, Prc, Ad e Lega per un impegno comune a emendare la finanziaria su pensioni e...federalismo.
Che le "sinistre" si rifiutino di assumere fino in fondo il mandato del movimento di lotta, costituisce per Berlusconi un grande punto di vantaggio e per il movimento un pericoloso elemento di debolezza. Se ci fosse -ha detto Berlusconi a Mosca- qualcuno intenzionato a sfruttare lo sciopero per mettere in crisi il governo e sostituirlo con un altro, allora lo sciopero non sarebbe inutile. Con questa dichiarazione Berlusconi ha ben messo a fuoco che la "sinistra" non ha alcuna intenzione di governare sulla spinta del movimento, che dall'opposizione non emerge alcun programma realmente alternativo al suo. Quest'ultimo è problema che non riguarda solo i "progressisti" ma riguarda direttamente anche la classe operaia.
I programmi dei "progressisti" in verità non si distanziano molto da quelli del governo: contenimento del debito pubblico, sacrifici per tutti i ceti sociali, rilancio della competitività delle imprese italiane sul mercato mondiale. Quanto all'attuazione pratica, i "progressiti" promettono minor pressione sulla classe operaia, ma anche ad essa riservano tagli e rinunce. Sulle stesse pensioni la loro non è una difesa dell'attuale sistema, ma una proposta di "riforma seria", che eviterebbe drastici tagli immediati per diluirli nel tempo.
L'assenza di una impostazione minimamente alternativa e ancorata a una prospettiva di classe, conduce la "sinistra" a ricercare soluzioni che salvino insieme capitalismo e forza-lavoro, economia nazionale e classe operaia, imprese e lavoratori. Tali soluzioni sono sembrate, per lunghi anni, realizzabili. Il sopraggiungere della crisi generale del capitalismo ha completamente mutato le condizioni precedenti. Alla convivenza e al compromesso si va sostituendo una contrapposizione sempre più aperta ed evidente degli interessi di classe.
Il passaggio alla nuova realtà ha trovato, e trova, resistenze in entrambe le classi fondamentali della società, borghesia e proletariato. Ambedue sono rivolte con la testa all'indietro, preferirebbero continuare a convivere senza dover ricorrere a scontri campali. Ma per la borghesia questo desiderio cozza contro le urgenze che le vengono poste dalla crisi generale del capitalismo, che inasprisce in sommo grado la concorrenza tra imprese e tra Stati per appropriarsi di quote di mercato, dei sovrapprofitti estorti ai paesi "arretrati", e, in ultima istanza, di pezzi di pianeta da sottoporre al proprio dominio. In conseguenza di questa spinta "oggettiva" la borghesia, seppur riluttante, ha dovuto iniziare a infrangere il vecchio "compromesso sociale" per estorcere al proletariato ulteriori quote di profitto da impiegare nella sua lotta di sopravvivenza sul mercato-mondo.
Le prime picconate al "compromesso sociale" si sono rivelate insufficienti rispetto alle urgenze oggettive, e la borghesia ha dovuto farne seguire altre, e più ancora dovrà farne seguire in futuro. Le organizzazioni riformiste non hanno risposto a questi colpi proponendo al proletariato una conseguente dislocazione sul terreno dei propri interessi di classe, con un percorso simile a quello dell'avversario (centralizzazione delle proprie forze) e diametralmente opposto quanto a contenuti (programma autonomo di classe). Al contrario, hanno invocato la permanenza del vecchio assetto compromissorio, nel terrore che la sua scomparsa apra le porte a una definitiva decomposizione della società, ossia ad uno scontro sempre più aperto tra le classi, prospettiva che renderebbe problematica l'esistenza stessa di forze riformiste.
Anche Rifondazione che, in certa misura, comprende come la borghesia metta ormai in questione l'esistenza dei precedenti "spazi riformistici", non fa altro che proporre riedizioni del riformismo con ricette tipo riduzione dell'orario di lavoro o "lavori socialmente utili". Il primo ha senso come obiettivo di difesa classista (il secondo è puro chiacchiericcio), ma lo perde del tutto nell'impostazione che ne dà il Prc di ricetta buona a salvare capre (produttività delle imprese ed economia nazionale) e cavoli (condizioni della classe operaia).
La mancanza di una prospettiva appena alternativa al capitalismo nella "sinistra" e la mancanza, persino, di volontà di un compito immediato di governo, interagiscono sul movimento di massa determinandone una condizione di debolezza politica.
Questo movimento potrebbe anche vincere all'immediato, cioè impedire al governo di attuare le sue intenzioni sulle pensioni, ma si troverebbe, subito dopo, a fare i conti con la mancanza di prospettive e l'impotenza a delineare un'alternativa reale di governo, rischiando di disperdere le proprie stesse forze, alla stregua di un esercito che, vinta una battaglia e superate le trincee avversarie, trova innanzi a sé una prateria sconfinata, ma, non avendo né bussola né sicuri punti di riferimento, finisce con lo sparpagliarsi in essa, frammentandosi in mille rivoli.
Si aprirebbero, a quel punto, due prospettive: la prima sarebbe quella di consentire alla borghesia di tornare, nel volgere di poco tempo, alla carica con gli attuali e più appesantiti obiettivi di scompaginamento di un avversario sfiduciato nelle sue stesse forze; la seconda sarebbe quella di approfondire lo scivolamento verso soluzioni federaliste, passando ad alleanze di governo sinistra-Lega. Berlusconi spera, in estrema ipotesi, di poter contare sulla prima, Bossi si prepara a beneficiare della seconda: sconfitta del governo, movimento operaio incapace di una posizione autonoma e che si consegna nelle braccia del "democratico" federalismo contrapposto all'antidemocratica e centralizzatrice destra berlusconian-finiana, come il condannato a morte cui è consentito di...scegliere il patibolo.
Una sinistra come l'attuale tanto impregnata di capitalismo, tanto intrisa di patriottismo per le sorti dell'economia nazionale, e perciò impossibilitata a collocarsi su un terreno aperto di scontro di classe, prepara al movimento operaio -che, pure, sta mostrando in queste settimane la sua imponente forza- le peggiori soluzioni.
Ma elementi di debolezza appaiono, purtroppo, anche nello stessa classe operaia. Al suo interno prevalgono ancora posizioni che ritengono riproponibile il vecchio "patto sociale". In una certa misura le stesse mobilitazioni contro la finanziaria contengono in sé l'obiettivo di difendere prima ancora che i propri interessi di classe, quel patto e, quindi, la disponibilità ad ammettere ulteriori tagli purché compensati dall'incremento del contributo delle altre classi al risanamento.
La stessa difficoltà a estendere una forma di lotta come il blocco degli straordinari dimostra come gli operai siano riluttanti a reagire all'attacco subìto scatenando una risposta che colpisca tutto lo schieramento avverso e preferiscano, invece, credere che sia ancora possibile separare la posizione delle imprese, con le quali conservare una sostanziale tregua, da quella del governo. Non sono state sufficienti le quotidiane dichiarazioni di Confindustria e di singoli padroni a favore della manovra, per convincere gli operai sulla completa unità del fronte avverso, per lo meno sul piano anti-operaio. Nella ritrosia a estendere il blocco degli straordinari pesa anche la preoccupazione di non creare difficoltà alle imprese in un momento in cui potrebbero beneficiare della ripresa produttiva in atto. Così i padroni scatenano, assieme al governo, un duro attacco al "patto sociale", e gli operai rispondono lottando contro il governo, ma senza inasprire la lotta contro i padroni, nella speranza, magari, che questi premano sul governo per rinnovare il "patto"...
L'inclinazione a non vedere quello avversario come un vero e proprio fronte di classe si estende anche all'orizzonte internazionale. Anche su quel versante la classe operaia stenta a riconoscere il nemico e, di conseguenza, stenta a individuare i propri alleati (la classe operaia dei paesi imperialisti, le masse oppresse dei paesi sottomessi all'imperialismo). I "progressisti" fanno anche di peggio e continuano a scambiare per propri amici quei nemici di Berlusconi che stanno nei centri finanziari e politici internazionali che, quand'anche lo criticano, lo fanno o perchè non è sufficientemente anti-operaio o, semplicemente, per buttare benzina sul fuoco della crisi di un paese loro diretto concorrente imperialista.
Anche nella classe operaia, insomma, continua a prevalere la convinzione che si possano praticare soluzioni che salvino contemporaneamente le sorti del capitale e quelle proprie.
Ciò di cui rileviamo la mancanza non è solo, né tanto, di una coscienza compiutamente rivoluzionaria e comunista, per la quale sappiamo mancare al momento i presupposti, ma di qualcosa anche di meno compiuto e radicale, che si ponga come "altra" soluzione, come "altra" prospettiva. L'assenza, oggi, di qualcosa di simile espone il movimento operaio alla ricerca di compromessi sempre più bassi, alla rinuncia preventiva persino a difendere seccamente e puramente le sue condizioni: se non c'è altra società possibile che quella capitalista, non si può fare a meno di accollarsi gli oneri per sostenerla e rilanciarla...
Sulle stesse pensioni, per esempio, la maggioranza degli operai si dispone a una modifica in peggio del sistema attuale, ovviamente preoccupandosi che non sia troppo peggiorativa. Delinea anche alcuni possibili contenuti della riforma come la separazione tra assistenza e previdenza. Non si tratterebbe di una separazione puramente contabile; e gli operai l'accettano anche se dopo diverrebbe più difficile conservare l'alleanza con gli strati sociali più deboli (altra cosa dai miracolati dal clientelismo democristiano), e anche conservare gli "ammortizzatori sociali" che, se pure hanno portato regali alle aziende, hanno, in pari tempo, consentito agli operai di attutire gli effetti dirompenti che un diffondersi incontrollato della disoccupazione avrebbe scaricato anche sulla tenuta sindacale e politica della classe operaia occupata.
Lo scontro con il governo Berlusconi sta mettendo in luce come sia urgente per il proletariato dotarsi di un proprio autonomo programma di classe, separando le sue prospettive da quelle dell'economia nazionale e delle imprese. Questo è ormai urgente anche sul solo piano di difesa delle proprie condizioni di vita, lavoro e organizzazione. Senza di esso c'è la sconfitta secca o il progressivo, anche se diluito, arretramento su tutti i fronti. Il movimento ha dimostrato che la forza operaia è tuttora in grado di esprimersi in tutta la sua estensione, ma ha anche dimostrato che si trascina dietro pregiudizi in grado di condizionarne pesantemente le sorti.
E' necessario che almeno una avanguardia operaia riconosca l'assoluta irrinunciabilità di iniziare a porre in questione tutti i vecchi presupposti politici e a orientarsi su un terreno di autonomia di classe. Il manifestarsi, nel proletariato, anche solo di una tendenza minoritaria disposta a muoversi in tal senso, rafforzerebbe la lotta di tutta la massa, consentendole di rifiutare la logica dei compromessi "a perdere", elevare argini di reale difesa dagli attacchi capitalistici e accelerare la sua completa dislocazione su un terreno coerentemente classista.
La lotta contro Berlusconi ha anche fatto emergere significativi barlumi di autonomia di classe.
Il primo di questi è, senz'altro, quella posizione, piuttosto diffusa, a dire un no secco e senza mediazioni ai tagli sulle pensioni. Più che in altre occasioni si sono manifestate posizioni di "semplice" difesa delle proprie condizioni, che, detto altrimenti, vuol dire pensiamo ai casi nostri -della nostra classe- senza subordinarli a un bene che, a questo punto, comincia ad apparire anche a molti operai come scarsamente "comune". Gli stessi sindacati sono stati costretti a riconoscere questa spinta, anche se solo assumendo obiettivi più "rigidi" (difesa dei 35 anni e del 2% di rendimento annuo) di quelli concordati tra loro. Questa "semplice" difesa delle proprie condizioni è la strada che porta inevitabilmente a difendersi come classe, a prescindere da e in contrapposizione con l'economia nazionale.
Un secondo significativo segnale di autonomia è la difesa del sindacato. Quel che la borghesia attacca non è solo l'attuale sindacato, CGIL-CISL-UIL, ma la possibilità stessa che gli operai agiscano sul mercato del lavoro e nello scontro sociale dotati di un'organizzazione. Quel che gli operai difendono non è tanto l'attuale sindacato, ma la possibilità di conservare un proprio autonomo elemento di organizzazione, senza il quale sarebbero semplici individui in balìa di mercato, padroni e governo. Tanto è vero questo che nelle piazze si è evitata ogni contestazione aperta a qualunque oratore sindacale (tutti ascoltati con attenzione e rispetto), ma non si è persa occasione di far capire ai sindacati, nei modi adeguati a non concedere spazi all'avversario, che, questa volta, non c'è disponibilità ad accettare soluzione pesantemente "a perdere".
La critica alle rivendicazioni dei sindacati e il modo in cui è esercitata (vero e proprio controllo di massa su di essi, altro che "formazione democratica delle scelte" per via di interminabili consultazioni di RSU, consigli, ecc.!) è un altro segnale di autonomia di classe: vogliamo un'organizzazione nostra, e vogliamo che si batta per le nostre rivendicazioni.
Che la difesa di CGIL-CISL-UIL possa essere considerata una manifestazione di autonomia di classe suonerà ostico a quegli iper-"sinistri" che pensano di risolvere i problemi della classe invitandola ad abbandonare i sindacati ufficiali per costituirne di quarti o di quinti, più "rossi", "veramente alternativi", ecc. o di non costituirne proprio e confluire in organizzazioni solamente politiche. Per i comunisti, invece, la difesa che la classe operaia fa delle attuali organizzazioni sindacali è un indice preciso di difesa della possibilità di una propria organizzazione, che è premessa fondamentale per poterla, a determinate condizioni, superare politicamente e organizzativamente, centralizzandosi in un proprio partito e sindacato e attorno a un autonomo programma.
I germi dell'autonomia di classe sono del tutto visibili anche nel movimento anti-Berlusconi. I comunisti e l'avanguardia di classe hanno il compito di coglierli e di coltivarli per permetterne lo sviluppo, per consentire a questo movimento di resistere agli attacchi esterni e alle debolezze interne, per preparare il proletariato agli inevitabili scontri a venire e alla conclusione che preparano: la lotta tra capitalismo e comunismo, tra potere della borghesia e potere proletario.