Nord-Sud: la stessa lotta
Anche al Sud, sotto la sferza dell'attacco capitalistico, sono scesi in campo tutti i settori del lavoro dipendente. Operai delle grandi fabbriche, lavoratori delle piccole e medie imprese, dipendenti dei servizi e della pubblica amministrazione, cassintegrati, lavoratori in mobilità, disoccupati, pensionati, studenti. Un immenso serbatoio di energia per la lotta del proletariato di tutto il paese. La classe operaia deve metterlo a frutto stringendo fino in fondo l'unità di classe tra Nord e Sud. Per sconfiggere il tentativo dei padroni e del governo di "melfizzare" il Sud e, dopo di esso, le regioni settentrionali. Per far pesare realmente l'unica arma di cui il proletariato dispone, cioè la propria forza di classe.
La massiccia partecipazione allo sciopero del 14 ottobre e le imponenti manifestazioni che anche al sud si sono date hanno innegabilmente superato le stesse aspettative degli organizzatori. La situazione del recente passato, soprattutto nell'area meridionale, sembrava legittimare più di una perplessità sul tipo di reazione operaia contro il taglio delle pensioni e la manovra finanziaria.
Non si può sottacere infatti che l'esito delle elezioni di marzo e quello delle europee di maggio avevano indotto un clima di sfiducia, e finanche una propensione a "tornare a casa", in tutta una serie di avanguardie delle lotte di fabbrica e sul territorio a causa dell'affermazione del polo della libertà, di cui si era sottovalutata la forza oggettiva, e dello sbandamento che aveva colpito lo stesso vertice del PDS con le dimissioni di Occhetto e la "pasticciata" soluzione per la nomina del suo successore. In altre aree si affermava la linea che vedeva in una ulteriore rincorsa al centro, verso un "patto" con i vari PPI, Segni, Rete, o negli occhieggiamenti alla Lega, l'unica soluzione praticabile, attraverso una opposizione tutta istituzionale, per la difesa degli interessi della classe.
Non minore peso, in senso disfattista, aveva il modo con il quale si era chiusa la trattativa per il contratto nazionale dei metalmeccanici: senza un'ora di sciopero e con un pronunciamento referendario che avallava l'operato dei vertici confederali anche laddove considerazioni sulla esiguità dei risultati conseguiti erano stati arma di battaglia per quanti avevano tentato di indirizzare il voto operaio verso il "NO".
Non solo: negli stabilimenti meridionali della Fiat, si assisteva a fenomeni che gettavano ulteriore scompiglio tra i lavoratori e creavano difficoltà allo stesso sindacato. Da un lato la produttività dello stabilimento di Melfi, alle condizioni sciagurate convenute, sembrava destinata ad imporsi come modello in tutto il settore. Dall'altro la ripresa delle vendite aveva richiamato in fabbrica a Pomigliano non solo un contingente più alto di ex-dipendenti Sevel ma anche operai da anni fuori dal ciclo produttivo, in ciò rafforzando i richiami di chi invitava a lasciar perdere la solidarietà di classe rappresentata dalla "residuale" organizzazione sindacale per affidarsi individualmente nelle mani del padrone.
A tali fattori "depressivi" si accompagnavano poi dubbi sulle reali capacità del governo Berlusconi di mettere in campo una politica conseguentemente antiproletaria, vuoi perché reggeva in molti strati sociali l'illusione che egli avrebbe saputo mantenere la promessa del "milione di posti di lavoro", vuoi perché la conclusione di vicende quali quella del rientro degli esuberi tra i dipendenti del Comune di Napoli sembrava indicare da un lato un governo in grado di avere un'atteggiamento flessibile a fronte di situazioni rilevanti e dall'altro un sindacato capace di essere vincente sulla linea della concertazione che era stata sancita dall'accordo del luglio 1993 e che Berlusconi sembrava voler rispettare.
Le lotte di singole realtà in crisi, dei lavoratori nelle liste di mobilità o dei comitati di disoccupati apparivano in questo contesto del tutto residuali, destinate ad avere una soluzione parziale o, alla peggio, ad estinguersi di morte naturale.
Ma gli attacchi portati avanti dai governi di Amato e Ciampi, pur colpendo alcuni elementi di unità della classe operaia, non erano ancora riusciti a scompaginare definitivamente l'esercito proletario.
Il governo Berlusconi, spinto ad agire dalle improcrastinabili esigenze borghesi, è stato vittima di un grosso errore di valutazione, quando ha ritenuto ormai matura la situazione per arrivare ad un regolamento di conti definitivo con la classe operaia. La speranza era di fare "cappotto" con un colpo solo: sferrare un duro attacco ad uno degli ultimi elementi di unità tra i proletari, e, fidando in una debole reazione operaia, infliggere una batosta politica al movimento operaio. Il corollario di questo ambizioso progetto era quello di cementare e disciplinare intorno al grande capitale quei ceti medi tanto virulenti nel chiedere una politica di rigore antioperaia ma così restii a rinunciare al benché minimo privilegio.
Già la vicenda del decreto Biondi (v. n. 32 del Che fare), che pur non riguardava interessi immediati della classe, aveva mostrato un proletariato che, cogliendo istintivamente il preciso segno di classe del provvedimento, era sceso in campo in modo abbastanza omogeneo anche al sud con scioperi, manifestazioni e prese di posizione molto nette. Era un preciso segnale di quanto fosse difficile far digerire tranquillamente ai lavoratori una politica sfacciatamente classista. Anche se va detto che l'epilogo di tale vicenda, con la repentina retromarcia del governo e con la riluttanza dell'opposizione a dargli il colpo di grazia, ha prodotto tra i lavoratori una sorta di rilassamento: molti si sono convinti che fosse sufficiente mostrare la faccia truce perché i nuovi governanti tornassero sui propri passi e che, visto il tasso di litigiosità nella maggioranza, non fosse necessario prepararsi ad uno scontro vero.
Solo a settembre si è iniziato a capire che i tentativi di attacco del governo non sarebbero stati condotti in maniera così improvvisata e che anzi, nonostante tutto, la sua compattezza di classe piuttosto che incrinarsi andava crescendo.
Così, mentre nella cintura torinese, a Milano e nel Bergamasco cominciavano a fiorire iniziative di lotta spontanee, anche a Napoli e nelle provincie limitrofe si assisteva a ripetuti, significativi momenti di lotta quali quelli che l'Ansaldo e la Whirlpool hanno promosso nella zona orientale della città con il coinvolgimento di comitati locali, pensionati e gente del quartiere. Ad essi si sono affiancati a più riprese, spesso intrecciati con rivendicazioni di carattere aziendalistico miranti a scongiurare e/o bloccare nuovi attacchi all'occupazione, episodi di lotta promossi dalla SOFER e dai CANTIERI NAVALI, oltre a numerose manifestazioni come quelle degli edili o della città di Pomigliano.
Ma la risposta è stata veramente corale da parte di tutti gli insediamenti industriali di una certa dimensione del mezzogiorno: blocchi stradali nel cassinate, scioperi in Abruzzo, fermate con cortei interni al Nuovo Pignone a Bari, iniziative di lotta nell'area siderurgica di Taranto e nell'area crotonese, queste e altre numerose iniziative, anch'esse intrecciate alla onnipresente minaccia di drastici tagli occupazionali, hanno preceduto le massicce manifestazioni del 14 ottobre. Anche se non a tutti era chiara la volontà del governo Berlusconi di arrivare ad una prova per sancire definitivamente nuovi rapporti di forza tra le classi, l'indignazione per una manovra così dichiaratamente classista, che premiava i ricchi e metteva in discussione una delle poche sicurezze ritenute intoccabili, ha spinto ad una mobilitazione diffusa e determinata. In quegli stessi giorni il governo, anticipando il senso della propria vera volontà, aveva risposto con fior di cariche della polizia alla folta manifestazione di cassintegrati e lavoratori in mobilità che si erano recati a Roma per sollecitare il moderatissimo obiettivo dello sblocco dei fondi per avviare corsi di riqualificazione ed occasioni di lavoro "vero".
Che un attacco durissimo e a tutto campo si stava profilando lo hanno constatato anche gli studenti, che si sono trovati di fronte ad aumenti vertiginosi delle tasse universitarie e ai provvedimenti riformatori di D'Onofrio. Così, contemporaneamente all'esplodere della protesta operaia, Napoli ed altre importanti città del Sud sono diventate focolaio di lotta anche nel mondo della scuola: essendo già avvenuta una notevole selezione classista nelle università, la componente più sensibile a mobilitarsi è stata quella degli studenti medi. Si sono avute manifestazioni cittadine come ormai non si vedevano da tanti anni con al centro la denuncia della natura classista dei provvedimenti governativi nei confronti della scuola. Su questa onda era inevitabile che il nascituro movimento degli studenti si incrociasse con quello parallelo delle fabbriche e degli altri posti di lavoro. La necessità di saldare la protesta in un unico movimento ha trovato tra gli studenti molto meno resistenze che in passato ed ha avuto un suo primo sbocco proprio nella loro discreta partecipazione alle manifestazioni in occasione dello sciopero generale del 14. L'altra significativa scadenza è stata la manifestazione nazionale degli studenti per il 22 ottobre, alla quale hanno anche partecipato consistenti delegazioni di operai e di pensionati dando una precisa caratterizzazione alla mobilitazione. Certo, ancora tanti sono i passi da fare nella direzione della ricomposizione di un unitario fronte di lotta e del superamento di posizioni particolaristiche, ma su queste basi ci sarebbero le condizioni per rafforzare tale tendenza. Proprio per questo sono da denunciare gli atteggiamenti di quei gruppi, presunti antagonisti, che, avendo enormi difficoltà a schierare operai veri dietro le proprie bandiere, non esitano a solleticare il qualunquismo ed il pre-politicismo di alcune frange di studenti per dare una parvenza di massa alle proprie farneticazioni: dopo anni che non si vedevano manifestazioni unitarie di operai e studenti è da sconsiderati agire, consapevolmente o meno poco importa, nella direzione della separatezza e della diffidenza, non verso i vertici sindacali, ma verso la massa dei lavoratori in lotta, come hanno fatto varie frange di autorganizzati e di centri sociali.
Anche al Sud la famosa "cena" in casa Agnelli e il varo della finanziaria hanno definitivamente "suonato la sveglia" e disilluso gli stessi vertici sindacali che hanno visto nelle modalità dell'attacco il tentativo del governo di mettere in discussione, nonostante il loro profondo rispetto per le compatibilità del "sistema Italia", la legittimità delle stesse organizzazioni sindacali. Ne sono testimonianza le argomentazioni con le quali i dirigenti sindacali locali si sono prodigati nel chiamare a raccolta i lavoratori di tutti i settori: nelle tante assemblee tenute, si aveva spesso la sensazione che, nonostante la feroce incazzatura dei lavoratori, fossero maggiormente i dirigenti sindacali a richiamare l'attenzione sul significato politico dell'attacco governativo e sulla necessità di una risposta ben organizzata e centralizzata, salvo ovviamente riproporre il ritorno ai bei tempi della concertazione e il riconoscimento dei necessari sacrifici da fare per dare il proprio contributo al comune obiettivo del risanamento nazionale. Non paradossalmente, i più agitati sono sembrati gli esponenti di CISL e UIL: il comportamento del governo, infatti, all'immediato scredita fortemente queste organizzazioni sindacali, che avevano fatto della politica di accondiscendenza verso i passati governi il loro punto di forza, riuscendo a strappare nelle trattative condizioni meno penalizzanti per alcuni settori impiegatizi e le figure professionali alte e medio-alte a danno della totalità dei settori di volta in volta colpiti. CISL e UIL non hanno abbandonato di una virgola la loro linea filo-padronale ed antiunitaria, ma per poter tornare a svolgere il loro ruolo di "guastatori" hanno bisogno di riconquistare il tavolo di trattativa e "dimostrare" alla loro base di aver strappato condizioni meno carognesche. Inoltre la politica di Berlusconi, in continuità con quella dei governi precedenti, ha messo al centro delle proprie attenzioni il settore dei servizi e del pubblico impiego, contribuendo a far crollare così alcune delle sue tradizionali sicurezze. In molti Comuni, Enti Pubblici, Banche, Enel etc. l'attacco all'occupazione, arrivato dopo quello fatto nelle fabbriche, era stato posticipato o ammortizzato con il blocco del turnover o la promessa del ricorso ai prepensionamenti. Il blocco delle pensioni ed il disincentivo a lasciare il posto di lavoro hanno acuito ancora di più le preoccupazioni anche in questi settori dove Cisl e Uil la fanno da padroni. Tutto ciò può far meglio comprendere il dato della massiccia partecipazione dei dipendenti degli Enti Locali e del Pubblico Impiego in genere allo sciopero generale del 14 e le mobilitazioni specifiche che ci sono state prima e dopo tale scadenza: non una presunta generosa solidarietà, bensì la materialissima preoccupazione per il proprio futuro. Per molti di questi settori, scarsamente abituati ad una vera lotta, la massiccia scesa in campo degli operai è stata un forte stimolo all'emulazione ed ha reso immediatamente comprensibile dove stavano le energie per respingere la politica del governo.
La scadenza del 14 è via via diventata il punto di canalizzazione di tutti i malumori che andavano maturando nel mondo del lavoro dipendente e che non riuscivano a trovare il modo per esprimersi. La partecipazione allo sciopero e alle manifestazioni del 14 è un evento destinato a lasciare notevoli tracce anche al sud. Non solo gli spezzoni delle grandi fabbriche erano tutti molto consistenti, diversamente dalle altre scadenze dove, a meno che non si trattasse di vertenze specifiche, si andava poco oltre le decine di rappresentanti. Lo sciopero generale è riuscito a dare coraggio e voglia di scendere in campo alla miriade di piccole e medie aziende fatte di lavoro precario e ricatti continui, dove la presenza stessa del sindacato è quotidianamente messa in discussione.
L'elenco degli striscioni visti a Napoli e nelle altre città del sud offriva una radiografia precisa di quale sia attualmente il tessuto industriale, ma anche delle enormi potenzialità della lotta operaia in queste aree, a condizione che essa sia condotta in maniera organizzata e centralizzata. La rabbia e la combattività espressa da questi settori testimoniano quale serbatoio di risorse abbia a disposizione la classe operaia delle grandi fabbriche, se riesce a svolgere quel ruolo trainante e di avanguardia che le è proprio per la posizione che occupa nella divisione sociale del lavoro. La risposta omogenea di tutto il proletariato italiano agli attacchi governativi è di decisiva importanza per contrastare la tendenza, ribadita da Agnelli a Melfi, di fare del sud un territorio liberato da qualsiasi intralcio sindacale, una nuova frontiera in cui imporre il più selvaggio sfruttamento e le gabbie salariali. Il coinvolgimento, pur se ancora parziale, dello stabilimento Fiat di Melfi nello sciopero generale, il coinvolgimento cioè della fabbrica in cui si pensava di avere definitivamente esorcizzato la lotta di classe, ci dice che anche questi tentativi di divisione e di contrapposizione tra le varie realtà territoriali del proletariato possono essere contrastati, sempre che il proletariato non rinunci all'arma della lotta e all'organizzazione centralizzata del proprio esercito.
Altro che federalismo in versione di sinistra! Il peggioramento delle condizioni del proletariato meridionale, inevitabile risultato di un allentamento della difesa unitaria di classe, non aiuterebbe i lavoratori del nord a difendersi meglio, ma fornirebbe solo ai padroni una ulteriore arma di ricatto nei loro stessi confronti per meglio imporre un generale arretramento. Per questo la strada intrapresa con lo sciopero del 14 va continuata e rafforzata, sapendo che il proletariato nello scontro in atto può contare solo sulla propria forza, e può vincere solo se riesce a metterla interamente in campo.