Il movimento di lotta dell'autunno ha rafforzato l'unità del
proletariato sotto più aspetti, rinsaldando tra l'altro -dato di grandissima importanza-
l'unità tra i proletari del nord e quelli del sud. Ma i fattori e le forze che operano
nel senso della disunione del movimento proletario non sono sbaragliati. Anzi: attendono
solo il riflusso delle lotte in corso per portare ancor più in profondità la loro azione
disorganizzatrice.
Tra di essi segnaliamo ancora una volta, perché nella avanguardia della classe si
prendano le indispensabili contromisure, il virus del federalismo. Che purtroppo continua
a riprodursi pressoché indisturbato nel corpo della classe operaia, corrodendone il
tessuto unitario.
Il federalismo che è oggi all'ordine del giorno non è nato nel campo operaio, bensì in quello borghese.
All'inizio degli anni '90 è stato il piccolo-medio padronato padano a farne la propria insegna, insieme con il liberismo (un particolare che a sinistra spesso si dimentica). I sciur Brambilla vi sono stati spinti dalla percezione che, nell'acuirsi della crisi, l'Italia perdeva velocemente competitività in Europa e nel mondo. Come mettere al riparo le proprie aziende da questo processo? Presto detto. Primo: accentuando l'autonomia (fiscale, amministrativa, etc.) del Nord avanzato dalla parte arretrata e "assistita" del paese, per agganciarsi alle aree più dinamiche dell'Europa, grande Germania riunificata in testa. Secondo: liberando le imprese dai vincoli generali contrattuali e normativi -definiti "centralisti" perché riconosciuti e sanciti dallo stato- strappati dalla classe operaia a tutela della propria organizzazione unitaria, in particolare delle proprie parti più esposte. In soldoni: tagliare trasferimenti ed investimenti pubblici al sud, tagliare il salario e l'organizzazione operaia (al nord, al centro e al sud).
Federalismo e liberismo: il binomio che ha fatto le fortune della Lega. Due facce d'una politica a tutto tondo anti-operaia in quanto attacca, a pro del capitale, meccanismi serviti, in una certa misura, a proteggere e unificare su scala nazionale il proletariato.
Per un certo tratto di tempo è stato anche il grande capitale a gonfiare le vele del leghismo, sebbene senza identificarsi mai a pieno col federalismo leghista.
Alla grande impresa va bene sfruttare le diseguaglianze di sviluppo tra nord e sud secondo il "modello Melfi" o il "modello Nereto" (gabbie salariali di fatto, fabbrica alla giapponese, e senza il disturbo di un sindacato aziendale). Le va bene anche accentrare maggiormente nelle aree più ricche le risorse disponibili per investimenti e consumi. Ciò migliorerebbe la concorrenzialità dell'azienda-Italia e aiuterebbe a conservare una certa pace sociale nelle regioni strategicamente decisive. Non vede di buon occhio, invece, tutto ciò che può condurre alla disgregazione dello stato unitario. Ma, per quanto soft, il federalismo della grande impresa dà un contributo non secondario alla diffusione generale del federalismo.
L'attuale ondata federalista, insomma, è nata e si è gonfiata su un terreno piccolo e grande-borghese, extra e anti-proletario, ma ha sciaguratamente trasbordato, e quanto!, nel movimento operaio. Ed è da credere che la veemente campagna aperta da Bossi, in nome del federalismo, contro la destra "fascista, centralista, autoritaria, clientelare" e così via, -è la stessa destra, peraltro, con cui la Lega di Bossi ha stretto un patto di governo ed ha varato la finanziaria '95!-, contribuirà a diffondere ancor più la convinzione che la prospettiva federalista sia "di sinistra", quindi in qualche modo favorevole alla classe operaia. Niente di più falso!
Come non è la prima volta che questa meschina Italietta si riscopre "nazione di cento torri e cento campanili", così non è la prima volta che l'infezione del localismo si diffonde nel movimento operaio. La tesi liberal-anarchica per cui ogni forma di potere centrale e centralizzatore (di stato o di partito) è un male, laddove invece ogni sorta di "autonomia" locale, comunale, individuale sarebbe naturalmente positiva, è vecchia come il cucco.
Da sempre il marxismo combatte strenuamente questa tesi fasulla e traditrice degli interessi di emancipazione della classe operaia, e la bolla come un'espressione della rabbia impotente dei piccoli produttori. I quali, non potendo materialmente sottrarsi alle spire strangolatrici del grande capitale, cercano di sfuggirvi almeno idealmente, prospettando alla società un impossibile, anti-storico, ritorno all'indietro: ai mini-circuiti della piccola produzione "indipendente" e dei "liberi comuni" che la nascita del mercato mondiale e la formazione degli stati nazionali hanno definitivamente abolito.
Benché anacronistico e reazionario, però, l'autonomismo-federalismo impazza proprio nelle fila... progressiste, a cominciare dal Pds, con una corsa che pare irrefrenabile a chi spara la balla federalista più grossa. In testa a questa hit parade è per ora la "Convenzione dei sindaci democratici" che, per bocca del sindaco pidiessino di Bologna, Vitali, pone il "riassetto federalista dello stato" addirittura come il punto centrale del programma di governo del costituendo partito democratico, anch'esso per principio (che noia!) federalista. Questo nascente "partito" del cretinismo municipalistico promette quanto segue:
1)di rompere il "centralismo burocratico" dello stato nazionale, ridimensionando i costi del rispettivo apparato (e preservandone comunque l'unità);
2)di assicurare a tutti gli "enti locali" maggiori entrate e maggiore autonomia di spesa dal "centro";
3)di incentivare la partecipazione dei cittadini al governo della cosa pubblica.
Non ci vuol tanto a vedere che si tratta di promesse senza alcun fondamento, e comunque senza alcun reale beneficio per la classe proletaria.
E' davvero difficile comprendere come possano ottenersi un governo e uno stato globalmente più a buon mercato per i lavoratori, con il moltiplicare i livelli di decisione, gli apparati burocratici ed il personale politico-professionale mantenuto dalla società. Forse che l'introduzione delle regioni ha ridotto i costi dell'amministrazione pubblica? Forse che l'arraffa-arraffa tangentistico proprio di ogni sana gestione capitalistica è stato prerogativa dei soli governanti centrali Craxi e Gava, e non anche delle loro immancabili clonazioni locali, i Pillitteri, i Cirillo, etc.? Esiste forse una qualche dimostrazione che gli stati federali siano meno dispendiosi di quelli "centralisti", o non è vero che tutti gli stati borghesi sono crescentemente in deficit, qualunque sia la loro architettura costituzionale, e che tutti sono intollerabilmente onerosi per il proletariato?
In realtà, il solo "stato" a basso costo possibile è proprio quello che si pretende sia stato espulso dalla storia, lo stato proletario sovietico. A basso costo innanzitutto perché dovrà opprimere la minoranza sfruttatrice, e non -come gli stati borghesi- la maggioranza lavoratrice; perché potrà disboscare davvero la burocrazia attuale e pagarla (in gran parte) con salari operai; perché abolirà gli "enti locali" intermedi inutili tra le comuni e la Comune; perché potrà contare su quella auto-attivizzazione delle masse lavoratrici e dei singoli lavoratori per il raggiungimento degli scopi sociali unitari che oggi viene sistematicamente mortificata; etc. etc. Ma non andate a parlarne ai grandi capi progressisti e democratici: per loro la storia del futuro è anticaglia, mentre è novità fresca di giornata il comunalismo medievale...
Altrettanto difficile è capire cosa possa avere di positivo, per la classe operaia, la maggiore autonomia di spesa di regioni e comuni. Anzitutto: non è da escludere, anzi, che ad essa debba corrispondere la introduzione di nuove tasse. A carico di chi? di banchieri, industriali, evasori fiscali, palazzinari o usurai? Poi: sulla base di quali criteri di bilancio spenderanno regioni e comuni? E' credibile che mentre lo stato italiano, dopotutto il quinto-sesto per potenza industriale al mondo, è tenuto a sottoporsi agli "accurati controlli" contabili di FMI, Banca mondiale, UE etc., il comune di Milano o di Napoli (non Busto Arsizio o Brusciano) se ne potranno bellamente fregare? E se le autonomie locali violassero la regola della parità di bilancio, su chi ricadranno i nuovi debiti "locali"? I bot comunali cari a Formentini saranno forse, a differenza di quelli statali, a favore dei senzacasa e dei disoccupati, e a carico di Pirelli e Berlusca? Ancora: se l'esempio da imitare (lo si sente dire tra i democratici) sono le città americane, come si fa a dimenticare lo spettacolo di desolazione, emarginazione, abbandono scolastico, mortalità infantile, diffusione della droga, criminalità e di violenza la più abominevole che queste città sempre più reaganianamente polarizzate e sempre più sparagnine in fatto di spesa sociale, danno di sé, a cominciare dalla "splendida" New York?
Difficile, credere, infine, che una maggior attribuzione di potere a regioni e comuni possa significare maggior attribuzione di potere ai "cittadini" comuni, e -men che meno- ai lavoratori. Non a caso il sindaco di Venezia Cacciari, uno dei maggiori alfieri dell'ipotesi federalista, abbina il federalismo democratico alla disarticolazione (proprio così!) dei partiti e delle organizzazioni "di massa". Ed, ancora, alla alleanza sociale e politica dei democratici non solo con il centro "laico e cattolico", ma anche con i conservatori moderati. Due cosette che, se non andiamo errati, sono totalmente incompatibili con un maggior protagonismo di classe.
Ma, già sentiamo la domanda, non potrebbe il federalismo compensare -per lo meno al Nord- le perdite che la classe operaia ha subìto in questi anni su scala nazionale, in fatto di scala mobile, pensioni, sanità, etc.? E' esattamente quello che i Pagliarini leghisti, ed i loro omologhi progressisti tosco-emiliani, lasciano intendere.
Quand'anche cadesse in pezzi il sistema pensionistico pubblico-statale, dicono i primi, nella ricca ed efficiente Padanìa si potrebbe metter su un sistema pensionistico regionale di tutto rispetto. Perché far tanto casino nelle piazze, a solo vantaggio dei fannulloni del meridione, che s'ingrassano sulle pensioni d'invalidità sborsate dalle casse lumbard?
Noi, dicono i secondi, non vogliamo essere egoisti; bisogna dare solidarietà alle regioni meridionali; ma se invece di Roma saranno Bologna o Firenze a gestire i fondi per il Sud, allora potremo investirli più razionalmente e i vantaggi per tutti, a differenza di oggi, non mancheranno.
Le une e le altre sono promesse ingannatrici: è evidente, infatti, che le compatibilità capitalistiche a cui le entità sub-nazionali in questione sarebbero soggette, sarebbero più stringenti e iugulatorie di quelle cui deve attenersi l'Italia "centralista" d'oggi. E dunque nessun recupero di quanto si è sin qui perduto sarebbe possibile per questa via (anche ammettendo la maggior correttezza di gestione delle regioni progressiste; correttezza sì, ma secondo criteri e priorità non certo operai).
Il mercato mondiale funziona in questo modo cannibalesco: i capitali più accentrati raspano o rapinano, a seconda dei casi, quote di profitto a quelli di rango inferiore. Le tre repubblichette dei leghisti, le dodici macro-regioni della Fondazione Agnelli o le cento città federate del più fesso di tutti i progetti federalisti, quello progressista-democratico, sarebbero meno tributarie verso Roma, forse; ma più tributarie che mai ai "mercati internazionali", a Wall Street, alla Borsa di Londra, alla Deutsche Bank, al Pentagono, ossia a poteri ben più forti, ben più centralizzatori, e di certo non meno "burocratici" e soffocanti di Palazzo Chigi o Bankitalia.
Non ci stancheremo di ripeterlo: si guardi al disastro jugoslavo! Anche lì gli "autonomisti", gli "indipendentisti" sloveni e croati presentarono ai lavoratori la secessione dalla Jugoslavia come una occasione per migliorare le loro condizioni. L'equazione era identica a quella leghista: diamo meno soldi al Sud parassitario ed alla "sfruttatrice" Serbia, e qui al Nord, produttivo e tartassato, staremo tutti meglio. E' andata così, o tutto all'incontrario? La Lombardia o la Padanìa avrebbero, verso l'Europa e gli Stati Uniti, maggior forza contrattuale di Slovenia e Croazia, e sarebbero perciò in grado di limitare i danni, d'accordo. Ma come potrebbe verificarsi una dinamica sostanzialmente diversa da quella innescata dalle "auto-determinazioni" di Lubiana e Zagabria? Delle ipoteche imperialiste "esterne" abbiamo detto. Quanto a quelle interne, non si vede già oggi quante e quali avide mascelle di pescecani, piranha e roditori padani son pronti ad addentare quel pò di polpa che sarebbe sottratta al sud?
Per questo è molto grave che, nel mezzo dei grandi scioperi dell'autunno, CGIL-CISL-UIL della Lombardia indichino ai lavoratori, a braccetto con la "alleata" (?!) leghista giunta lombarda, la necessità di battersi per una più accentuata "autonomia finanziaria" delle regioni, per un più accentuato federalismo. La classe operaia lumbard (e padana) potrebbe essere tentata di abbandonare al suo destino il proletariato del meridione, nella speranza di poter conseguire, nella ridotta regionale, di concerto con le "proprie" istituzioni leghizzate, quanto non è riuscita a conseguire con il movimento generale di lotta. Ma questo sarebbe per lei un pericolosissimo boomerang. Infatti, più si accentua il dualismo nord-sud, più si diffondono a sud i "modelli" Melfi e Nereto, più questi "modelli" risalgono lo stivale, contagiando anche quelle aree che se ne credono al riparo.
No, compagni proletari, non è questa la via per uscire dalle difficoltà che la nostra lotta incontra per l'aggressività del fronte capitalista. Non è questa la via non diciamo per la conquista del potere politico, ma anche solo per accrescere la nostra capacità di condizionare il potere politico a noi avverso. Il federalismo non è affatto un tonificante, un ricostituente delle nostre forze. E neppure un provvidenziale paracadute aprendo il quale potremmo attutire, in caso di sconfitta sulla finanziaria, la nostra caduta.
Al contrario, quella che può sembrare la linea di resistenza più realistica, è la più impraticabile, quella che massimizzerebbe i danni di un eventuale insuccesso del movimento anti-governativo. Perché, spezzettando innaturalmente per regioni, province, comuni le forze che abbiamo con gran fatica riunificato, e accentuando gli elementi di concorrenza tra proletari (e non soltanto tra nord e sud, ma anche all'interno del nord stesso e delle singole regioni di esso!), ci fa andare più divisi, e perciò più deboli, all'inevitabile prosieguo della battaglia contro il governo e il padronato (come a quella contro i singoli padroni).
Il federalismo, tanto più se applicato alla vita di partito (sul genere di quello che sta affermandosi in Rifondazione per iniziativa della federazione toscana, e che è già indiscussa prassi nel Pds), è un virus che sfibra il tessuto connettivo che unisce le nostre forze. Un virus che va combattuto, con decisione e subito.
Gli strepiti di Bossi e le sirene federal-progressiste non ci incantino.
Alla lotta contro la destra o le destre capitalistiche, quella leghista-federalista inclusa, dobbiamo andarci sempre più saldamente incardinati ad una politica di classe.
Altro che federalismo padano, alleanza delle cento città, o "patti territoriali" per la salvezza delle singole regioni del sud! Non possiamo recedere in nessun caso dai livelli di unità e di organizzazione raggiunti nella lotta e con la lotta; dobbiamo anzi consolidarli e spingerli ulteriormente in avanti.
Rafforziamo ed estendiamo il grande movimento unitario d'autunno! Lavoriamo a ridurre le distanze tra nord e sud, memori delle grandi lotte per l'abolizione delle gabbie salariali! Concentriamo al massimo le nostre forze intorno al programma di classe, per la organizzazione sindacale e politica di classe!