Da dove nasce l'offensiva capitalista contro i lavoratori? E' fatto solo italiano o mondiale? E' destinata a spegnersi o ad accentuarsi? L'internazionalizzazione della nostra lotta e della nostra organizzazione è la sola risposta vincente ad essa.
E' convinzione diffusa, anche tra i lavoratori più attivi, che i guai dell'economia italiana abbiano un'origine interna (da sprechi, corruzione, evasione fiscale, mafia, etc.), e che possano trovare una soluzione utile per tutti entro le mura di "casa nostra" (con le opportune misure correttive su quei mali ritenuti specificamente italiani). Pur condividendo a pieno l'odio proletario contro i tangentocrati e gli evasori, i boss mafiosi e la ancor più mafiosa genìa dei politici borghesi della prima e della seconda repubblica che li protegge; pur essendo senza riserve al loro fianco nella lotta contro di essi; non possiamo nascondere che questa convinzione è, francamente, erronea e ci impaccia non poco nella lotta contro padronato e governo.
Lo scontro classe operaia-capitalisti che sta svolgendosi in questi mesi in Italia e che continuerà con crescente asprezza negli anni a venire è, in realtà, tutt'altro che un "affare interno". Esso ha origine su un terreno internazionale, quello della crisi del capitalismo, e può trovare una soluzione effettiva e non meramente provvisoria solo nella risposta unitaria di classe a scala mondiale all'attacco della classe capitalistica. Vediamo perché non si tratta di formule di rito "ideologiche", ma di inconfutabili -pur se finora dimenticati- dati di fatto.
Tesi n.1: i guai della "nostra" economia nazionale nascono non a Roma o a Palermo bensì nel mercato mondiale (e la stessa cosa può dirsi per tutte le altre economie "nazionali"). Nascono dalla crisi strutturale del capitalismo come sistema sociale, che ha preso avvio a metà degli anni '70. Questo nesso si spiega con l'essere il capitalismo un sistema sociale sempre più internazionale, una economia mondiale unitaria, molto disomogenea e concorrenziale tra le sue parti, ma che lega ad un medesimo "destino" (o corso) tutte le sue parti costitutive.
I non più giovanissimi ricorderanno (ed i giovanissimi apprendano) che non da sempre si parla di sacrifici, tagli, risanamento di conti statali, etc. Negli anni '60 la scena pubblica era assai diversa da quella attuale: vi dominava la promessa capitalistica di una crescita economica illimitata. Illimitata nel tempo e nello spazio (geografico e sociale), in quanto capace di progressivamente comunicarsi dalle "società del benessere" per eccellenza, quelle occidentali, ai paesi e continenti ancora "in via di sviluppo", e dagli strati sociali abbienti all'insieme delle classi lavoratrici. Il paradiso terrestre della prosperità e della pace pareva a portata di mano. Se ne faceva garante, dall'alto dei cieli del potere temporale e spirituale, la paciosa trimurti Kennedy-Kruscev-Giovanni XXIII.
Tutto ciò che il marxismo rivoluzionario ritiene impossibile per la natura insopprimibilmente antagonistica e anarchica del capitalismo, pareva sul punto di avverarsi. Invecchiando -quale smentita per Lenin e per noi suoi cocciuti seguaci!- il capitalismo imperialista si rendeva capace di auto-riforma. "All'interno" divenendo più equo, "all'esterno" rinunciando addirittura al colonialismo. Le classi sociali fino a quel momento contrapposte convergevano. I partiti operai s'avvicinavano, sia pur con gradualità, alle stanze dei bottoni. Capitalismo e "socialismo" imparavano a coesistere pacificamente facendo begli affari, a Montecitorio e nel mondo intero.
A dio-capitale piacendo, il trentennio da incubi 1914-1945 (con due infami carneficine ed il '29) era dietro le spalle per sempre. E con esso il nazi-fascismo, la miseria di massa, etc. etc. Allegria!, allegria!, gridava dai teleschermi l'uomo-comune-simbolo Mike Bongiorno...
E dopo...?
Dopo venne, inaspettata (salvo che dal catastrofismo marxista), la crisi del capitalismo. Crisi generalizzata, comune, a tutti i paesi del mondo, sia quelli ricchi (imperialisti) sia quelli poveri (dominati o controllati dall'imperialismo). Ed a partire dal 1973-'74 questa presenza così ingombrante per i borghesi non ci ha più lasciato, neppure nei momenti di (drogata) euforia, e nonostante un'infinità di ricette anti-crisi.
La crisi non poteva non venire (il capitalismo è regolato, infatti, da leggi non modificabili dalla volontà politica di chicchessia), perché con la ricostruzione post-bellica si era venuta accumulando una gran quantità di produzione (di capitali, di merci, di forza-lavoro) che eccedeva le possibilità di assorbimento del mercato. Questa contraddizione di fondo, che è un portato del contrasto tra produzione socializzata e appropriazione privata proprio del capitalismo, ha via via ridotto i margini di profitto della classe capitalistica. Poiché il sistema capitalistico vive solo ed esclusivamente per il profitto, sua unica molla ed unico scopo, l'insieme del meccanismo si è "improvvisamente" inceppato. Ed in tanto in seguito ha potuto -sempre più a fatica e stentamente- avere dei momenti di ripresa, in quanto è riuscito a scaricare le proprie difficoltà sulla classe che del profitto è la fonte: il proletariato mondiale.
Con la crisi sono venute a bloccarsi ed invertirsi tutte le tendenze "virtuose" del ciclo post-bellico. Alla faccia delle promesse di pacifica cooperazione universale, si è scatenata una universale competizione senza esclusione di colpi tra aziende e stati. Si è inasprito il confronto tra Occidente e i paesi del (falsissimo) "socialismo". Si sono acuiti i contrasti tra Nord e Sud del mondo. E, sopratutto, è diventata sempre più forte la polarizzazione sociale tra proletariato e borghesia, anche dentro quelle metropoli in cui si giurava fosse in via di superamento.
I capitalisti, non solo in Italia ma in ogni parte del mondo (insistiamo nel sottolinearlo perché è l'elemento di analisi decisivo che troppo spesso salta) hanno avviato, dal '74, una serie ininterrotta di attacchi contro la classe operaia. E lo hanno fatto non, come piace dire a Bertinotti, per una sete di "vendetta sociale", una sorta di malattia morale magari curabile con accorate prediche keynesiane e pontificie. Bensì per una ragione che considerano, giustamente dal loro punto di vista di sfruttatori del lavoro ed accumulatori di capitale, di vita o di morte: il recupero della profittabilità delle imprese.
Da qui l'intensificazione dello sfruttamento, i processi di ristrutturazione con riduzione degli addetti, la mobilità e la flessibilità del lavoro, il sempre più esteso ricorso al lavoro precario e nero, il taglio delle "garanzie sociali", la aggressione ai meccanismi automatici di tutela del potere d'acquisto dei salari, ecc.. Misure che, con qualche sfasatura di mesi o -al più- di anni e con qualche differenza di sfumature, troviamo applicate nei due decenni trascorsi in tutti i paesi capitalistici. E contro cui dovunque la classe operaia è stata costretta a scendere in campo.
Da qui l'avvento di politiche capitalistiche quali il reaganismo ed il thatcherismo, che hanno dato espressione e fiato alla necessità capitalistica di attaccare il fronte proletario nel suo complesso, decurtarne drasticamente il potere di condizionamento, intaccarne e, in prospettiva, demolirne la organizzazione sindacale e politica. Politiche capitalistiche che, nate nei paesi più duramente colpiti dalla crisi (USA e Gran Bretagna), sono andate poi generalizzandosi agli altri paesi occidentali, nei quali ha preso sempre più piede il vento di destra (i vari Kohl, Balladur, Berlusconi, etc.).
Da qui, infine, una impressionante sequenza di revisioni programmatiche, di compromessi a perdere, di smantellamento di postazioni di difesa della classe, operati in tutto l'Occidente dalle direzioni riformiste dei partiti e dei sindacati operai, nel vano tentativo di conciliare l'accettazione sempre più piena delle compatibilità aziendali e nazionali del capitalismo in crisi con la difesa, anche fortemente conflittuale, dei "durevoli vantaggi reali" acquisiti dalla classe operaia nel primo trentennio del dopoguerra. Un tentativo di conciliazione che cade sempre più nel vuoto perché la borghesia, a differenza di quel che accadeva ai tempi del "miracolo economico", è crescentemente indisponibile ad assorbire anche le più timide rivendicazioni immediate del "riformismo".
Il fatto è che essa è da vent'anni impegnata -a New York, a Tokio, a Bonn prima ancora che a Roma- a superare la propria crisi, con esiti sempre più insoddisfacenti.
Risultati non soddisfacenti, non risolutivi, tanto per cominciare, ha dato lo scaricamento della crisi capitalistica sul Sud del mondo. Qui -altro che rinuncia al colonialismo!- s'è determinato, per effetto dell'azione usuraia del sistema bancario internazionale e dell'opera di saccheggio degli stati imperialisti, e continua ad aggravarsi, un vero e proprio cataclisma economico-sociale. Non solo singoli paesi, due interi continenti, l'America Latina e l'Africa, più tutta l'area medio-orientale e l'Asia occidentale, sono stati precipitati in un marasma inenarrabile. Che per quei capitalismi significa la distruzione di ogni velleità di indipendenza dal capitale metropolitano vampiro. E per quelle masse di colore significa uno sfruttamento a sangue con orari fino a 16-18 ore il giorno, salari che non arrivano quasi mai alle 100.000 lire mensili, la morte per fame di decine di milioni l'anno, una miseria degradante negli squallidi ghetti urbani e nelle campagne dove ancora impera la frusta dei proprietari terrieri, ogni razza di malattie, una vita che è non è vita.
Ma nonostante una forza lavoro costretta a vendersi a prezzi inferiori ai costi di sopravvivenza, nonostante il petrolio e le altre materie prime a costo zero, nonostante gli immensi proventi dei prestiti usurai, l'Occidente imperialista non si è tratto stabilmente fuori dal pantano della crisi economica. Ed anzi è costretto a fronteggiare sempre più direttamente e con le armi la rivolta anti-imperialista degli indomiti sfruttati del Terzo Mondo.
Per questo ha dovuto continuare a martellare contemporaneamente sulla classe operaia "di qui". L'attacco s'è sviluppato per gradi, in profondità, alle condizioni di lavoro (per aumentare la produttività del lavoro), al salario (per ridurre la remunerazione del lavoro), e quindi a tutto ciò che può consentire alla classe operaia di agire come forza organizzata. Ed ha proceduto a spirale discendente verso il peggio, combinando tra loro gli assalti sui tre fronti. E, ciò che costituisce una novità su cui i proletari più attenti debbono riflettere, l'attacco capitalistico non si è fermato neppure nelle fasi di contenuta ripresa della produzione che ci son state dopo il '74.
Queste riprese molto asmatiche, ad onta della grancassa sull'89 e degli utili affluiti alle casse occidentali dalla fine dell'URSS e dal crollo dell'Est, si sono caratterizzate per l'essere accentuatamente concorrenziali (nei rapporti tra capitali e Stati) e ulteriormente polarizzanti (sul piano sociale). Basterebbe guardare dentro l'attuale ripresa, proprio là dove essa ha preso le mosse, negli USA. Incessante pressione al ribasso sul costo del lavoro, dopo che tra il 1973 ed il 1992 il salario medio operaio era già diminuito di circa il 20%. Scarsissima occupazione aggiuntiva, e quella nuova quasi tutta precaria. Continua pressione del padronato, ma anche del governo "progressista" (progresso de che? de chi?, se è lecito chiedere) Clinton, a "de-sindacalizzare" la vita aziendale. Altri tagli al welfare state (con bocciatura della riformetta sanitaria targata Hillary). Saturazione dei tempi di lavoro alla giapponese. Botte pure ai "colletti bianchi", resi superflui dalle tecnologie informatiche labour saving, sorte che essi si cullavano fosse riservata ai soli "colletti blu". Insomma: una ripresa -parziale e molto condizionata- del capitale, senza ricadute positive per il lavoro salariato, foss'anche di un pò di briciole a tempo.
Del resto, non succede forse che il governo Berlusconi vanti da un lato la "impetuosa crescita" dell'economia nazionale (un 2-3% che negli anni '60 avrebbe fatto gridare alla crisi imminente) e delle esportazioni, e scateni dall'altro un attacco senza precedenti al sistema pensionistico conquistato dai lavoratori? E non è forse vero che gli altri governi europei, Wall Street ed il FMI solidarizzano a pieno con Berlusconi, sostenendone l'affondo, per potere, sull'onda di una eventuale sua vittoria, estenderlo subito ai propri paesi?
Non è questa una evidentissima internazionalizzazione dello scontro in corso? Lo è, ma purtroppo solo a metà, poiché dalla nostra parte ancora ci si attarda su una visione dei processi economici e sociali angusta e insufficiente. Si è visto finalmente, in qualche iniziativa sindacale, prendere la parola rappresentanti della CES, la confederazione sindacale europea, o di sindacati esteri. Ma, rispetto alla consapevolezza dei propri interessi ed alla unità propagandistica ed operativa che il fronte padronale dimostra a livello internazionale, è poco, troppo poco. Per l'oggi e, più ancora, per quel che ci attende, ovunque, come proletariato.
La crisi generale del capitalismo non solo non è terminata, ma sta approfondendosi, avvicinandosi sempre più al centro del sistema, al cuore del proletariato mondiale, la classe operaia dell'Occidente. E per questo è sogno, nient'altro che sogno, credere che si possa tornare ai "bei tempi" della pace sociale e della "concertazione", o pensare che, fallite le ricette anti-crisi del reaganismo, i capitalisti svoltino a sinistra verso un capitalismo "più equo", più "popolare", più "equilibrato", più "pacifico". Avverrà, invece, sta già avvenendo, apriamo bene gli occhi!, un inasprimento dell'attacco del capitale al lavoro. Già Amato parlava di "economia di guerra", e la locuzione andrebbe presa più sul serio da parte operaia.
E' un conflitto di classe, una guerra di classe a tutto campo quella che è iniziata sotto l'impulso della crisi capitalistica. Una guerra che ha per arena il mondo intero e che ha per posta ultima l'alternativa tra capitalismo e socialismo. Per vincerla dovremo, come e più che in passato, unire le nostre forze a scala nazionale ed internazionale, unire i proletari della metropoli con gli sfruttati del Terzo Mondo, perché il nemico che ci aggredisce, come quello che aggredì i minatori inglesi o gli operai dell'Est, non è un singolo padrone, non è neppure soltanto un singolo padronato nazionale o un singolo governo di destra, è la classe dei capitalisti nel suo complesso.
Per questo l'internazionalismo è una vitale necessità di battaglia della classe proletaria.
Tesi n. 2: alla crescente internazionalizzazione del capitalismo e dell'attacco capitalistico, il proletariato può rispondere efficacemente in un solo modo: internazionalizzando la propria lotta e la propria organizzazione.
A questa conclusione il movimento comunista era già pervenuto nel 1848 con la consegna "Proletari di tutto il mondo unitevi". Per il tortuoso procedere dello scontro di classe, quella prospettiva sembra essere stata completamente smarrita. E tuttavia è l'oggettività stessa dello scontro di classe a riproporla come una materiale ineludibile necessità.
In questo primo ventennio di crisi capitalistica, la classe operaia ne ha fatto esperienza più in negativo -se vogliamo- che in positivo. Ma la questione si ripresenta di continuo al "movimento spontaneo" della classe (è avvenuto così da ultimo, sia pur embrionalmente, anche nel movimento di lotta contro il governo Berlusconi). Ed è a partire da questo che noi comunisti richiamiamo l'attenzione della parte più combattiva della classe, dicendo ad essa: "non possiamo continuare a combattere un avversario di classe che agisce in campo internazionale, che si giova di un sostegno internazionale, rinunciando a contrastare la sua azione al di fuori dei confini "di casa", rinunciando a collegarci con la classe operaia di altri paesi occidentali che è alle prese con i nostri stessi problemi, o con gli sfruttati dei paesi del Terzo Mondo che sono alle prese con i nostri stessi padroni. Questa duplice rinuncia è tra i più gravi handicap della nostra lotta, e dobbiamo ad ogni costo superarla". Nello stesso tempo scrutiamo con attenzione tutti i segnali che ci vengono dalle lotte che indichino una qualche disponibilità della classe a muoversi in questa direzione, sì da raccoglierli e ritrasmetterli potenziati e più chiari alla lotta stessa.
Non a caso abbiamo dedicato a suo tempo (n. 1 di Che fare, marzo '85) un approfondito bilancio allo sciopero dei minatori inglesi contro la Thatcher ed il drastico piano di chiusura delle miniere (marzo '84- febbraio '85), evidenziando il significato generale di quella stupenda lotta e la prospettiva nella quale essa andava ad iscriversi.
"Polonia 1980 - Inghilterra 1984/85". Queste poderose lotte operaie, sviluppatesi fin dentro il cuore della metropoli imperialista, annunciavano - a chi aveva orecchie per intendere, e al di là del dato secondario della loro sconfitta immediata- che l'offensiva capitalistica provocata dalla crisi impattava con una classe operaia sorpresa sì dalla durezza dell'attacco, ma disposta a battersi.
Le lotte dei primi anni '80 non erano affatto lo stanco epilogo del ciclo degli anni '60 e '70, il canto del cigno di una classe operaia che incassava le sue ultime sconfitte, prima di abbandonare definitivamente la scena. Tutt'al contrario, erano l'inizio di una nuova fase di duri e ben diversamente decisivi scontri. Venivano meno le condizioni storiche che negli anni della "affluenza" avevano consentito alla classe operaia delle metropoli di condurre con successo lotte per la conquista di margini reali di redistribuzione della ricchezza e di scampoli di potere nella società del capitale. Iniziava una nuova fase -tuttora in corso- in cui la classe operaia è chiamata a difendere le postazioni precedentemente acquisite.
Fiat 1980, minatori inglesi, lotte in difesa della scala mobile, sciopero dei ferrovieri francesi (Natale 1986)... Sia pure nel contesto di rapporti di forza ad esso complessivamente sfavorevoli, il proletariato è stato sospinto ovunque dalle ripetute ondate dell'offensiva del capitale a tornare in forze sul campo. Non solo. La ripresa della lotta operaia nel cuore dell'Europa ha posto le premesse oggettive perchè si dessero i primissimi passaggi di collegamento e di potenziale unificazione delle lotte oltre i ristretti confini nazionali. A partire appunto dalla importante proiezione europea dei British miners, che seppero chiedere con vigore il sostegno internazionale alla propria lotta, fino ad arrivare in giorni più vicini alla proclamazione del primo sciopero europeo del 2 aprile 1993, indetto dalla Confederazione Europea dei Sindacati (CES) per la riduzione dell'orario di lavoro ed a difesa dell'occupazione, che ha visto i lavoratori manifestare contemporaneamente e per gli stessi obbiettivi in centocinquanta città d'Europa. E da allora i lavoratori hanno continuato a lottare in Spagna, Germania, Belgio, Svizzera, Francia, Romania, Italia, con -se non altro- una viva attenzione gli uni alle lotte degli altri.
Nessuno più di noi è consapevole degli arretramenti subiti (si pensi alla divisione del proletariato jugoslavo con la perdita dei livelli di organizzazione unitaria precedentemente conquistati), come anche delle complicazioni di percorso (e relative linee di deriva) che non conoscono, di per sé, automatico superamento in forza del solo - indispensabile - dato quantitativo della lotta.
Ma proprio per questo i comunisti vi intervengono, con il compito di favorire ogni utile e necessaria dislocazione in avanti del proprio fronte, internazionale, di classe, e chiamano la parte più avanzata dei lavoratori a non disertare questo decisivo livello della lotta.
L'offensiva che negli anni '80 ha iniziato ad investire direttamente anche il proletariato europeo si evidenzia sempre più come questione non circoscritta, né circoscrivibile, entro dinamiche puramente nazionali. Il capitale attacca spendendo le argomentazioni "logiche" di un padronato che gioca a tutto campo: "questa produzione è ormai fuori mercato"; "o accettate di peggiorare le vostre condizioni di lavoro o sarà più profittevole per noi spostare altrove la produzione"; "o rinunciate alla vostra organizzazione di difesa e di lotta o troveremo più comodo andare a lavorare (?!) dove una debole organizzazione della classe operaia ci lascia fare quello che vogliamo" etc. (Per fare un solo esempio, la Mercedes-Benz ha accettato di produrre il nuovo furgone e la vettura mini in Germania e non all'estero solo in cambio di sostanziose concessioni in tema di orario e di salario).
Oggi, non solo nell'Estremo Oriente o nel Nord-Africa, ma anche nel vicino Est, l'imperialismo -che peraltro non trascura di giocare a proprio vantaggio i differenziali esistenti tra i paesi dell'Europa occidentale- può attingere a piene mani ad una forza-lavoro sottopagata (beninteso non senza il rischio - nella prospettiva - di bruciarsele per sempre). Nell'Est europeo la forza-lavoro spesso costa meno del 10% rispetto a quella tedesca. In Ungheria i salari minimi non superano le 210 mila lire mensili, in Romania le 150 mila. Ai lavoratori della ex-Jugoslavia la "libera autodeterminazione dei popoli" ha "regalato" il tracollo delle precedenti condizioni di vita, ed oggi i salari medi si attestano a 600 mila lire mensili in Slovenia, 150 mila - da un milione circa del 1990 - in Croazia, dalle 100 alle 70 mila in Serbia.
In questo contesto, la ripresa della lotta di classe in Europa (finanche in paesi che - come la Svizzera - non se la ricordavano da tempo) si accompagna ai primi passaggi di coordinamento delle organizzazioni sindacali dei lavoratori e alle prime forme di lotta sovranazionali. Essi si danno sotto l'impulso e la direzione dei vertici dei sindacati riformisti, ma non per questo è minore il loro significato in quanto sintomo e risultato di una pressione oggettiva e della necessità anche per il proletariato di cominciare a guardare oltre i confini nazionali.
Tra le 1200 aziende multinazionali che operano in Europa si sono già costituiti una trentina di Comitati d'Azienda Europei (ricordiamo quelli della Volkswagen e della Renault, ma anche della Marzotto, della Plasmon, etc.). Mentre, nell'ambito CES, già esistono una ventina di organizzazioni transfrontaliere. Al riguardo è utile riferire degli ulteriori sviluppi della Conferenza di Alpe Adria sindacale, che raggruppa rappresentanti sindacali di varie regioni del Nord-Italia, austriache, tedesche (la Baviera), ex-Jugoslave (Slovenia e Croazia) e -da ultimo- ungheresi. Questi ambiti di discussione, creati dai sindacati riformisti sostanzialmente al seguito delle manovre dell'imperialismo di penetrazione nell'area, hanno dovuto man mano farsi carico della necessità di una "intesa" tra le varie organizzazioni sindacali per evitare che "le disuguaglianze sociali ed economiche facilitino il trasferimento dei fattori produttivi, siano essi lavoro o capitale ... creando tensioni nei paesi di origine e in quelli di destinazione".
Non a caso, e con linguaggio ben più schietto, l'IGM-Metall germanica - già alle prese con il decisivo processo di riunificazione del proletariato tedesco - ha recentemente assunto iniziative concrete per concertare una linea d'azione comune con i lavoratori dell'Est e Sud-Est europeo, offrendo aiuti (tecnici e finanziari) per rilanciare ivi una decisa lotta salariale. Spinto da preoccupazioni non propriamente internazionaliste, il riformismo è costretto -suo malgrado- a mettere in moto una lotta di classe fuori dei propri confini nazionali. Riuscirà domani a tenere fermi per il proletariato i paletti nazionalistici e social-sciovinisti che nondimeno (anzi di più) pretende di piantare invalicabili?
Ma qual' è la logica che sottende l' "internazionalismo" dei sindacati riformisti?
La prima richiesta rivolta dalla CES ai legislatori della CEE è quella di omogeneizzare le condizioni economiche e normative di impiego della forza-lavoro in Europa, un obbiettivo ritenuto di comune interesse tra lavoratori e padroni europei. Ma, nella realtà, a nessuno è dato di poter "regolare" l'anarchia del mercato del lavoro e, prima ancora, del capitale ... se non ponendo fine - via rivoluzione proletaria - al capitalismo stesso. Men che meno si sognano di farlo i padroni, che viceversa sfruttano le condizioni di differenziazione e divisione del proletariato nazionale ed internazionale, per lucrare un costo il più basso possibile della forza-lavoro. Questo o quel padrone, in difficoltà nella competizione sul mercato internazionale, potrà trovar comodo usare occasionalmente argomenti contro la "concorrenza sleale" dei suoi simili di altre nazioni, ma non rinuncerà mai egli stesso a farla, avendone la possibilità...
Sicché petizioni "internazionaliste" di questo genere lasciano il tempo che trovano, e non alterano di una virgola la reale vocazione sciovinista di ciascun sindacato nazionale, e cioè il fatto che ciascun sindacato sciaguratamente tiri per la "propria" nazione contro le altre. Ciò risulta ancor più chiaro nelle prese di posizione che si confrontano con le spinose problematiche poste dalla "globalizzazione dei mercati".
La Conferenza della federazione europea dei metalmeccanici (maggio '94, Bruxelles) ha affermato unanime che "per migliorare lo stato di salute dell'industria europea, si deve migliorare la sua capacità di competere sul mercato internazionale". Il messaggio illusorio e suicida che si lancia al proletariato europeo è che operai e padroni potranno difendersi insieme, conservando gli uni "gli standards di vita raggiunti" e gli altri gli agognati profitti.
E quali sono le richieste che il sindacato internazionale del settore tessile (Itlw), di cui è vicepresidente il segretario della Filtea-Cgil Megale, ha posto a base della giornata di mobilitazione mondiale del 6 dicembre '93? Vediamole: 1)lotta al "dumping sociale", contro la "concorrenza sleale" dei paesi che sfruttano forza-lavoro a basso costo (salari da 1 dollaro al giorno in America Latina ed Asia, lavoro minorile, produzione dei "detenuti politici"(?) in Cina); 2)controllo della esportazione dei semilavorati nei paesi poveri fatta per poi reimportare nei paesi industrializzati i prodotti finiti; 3)libertà di esportazione delle proprie merci, attraverso l'abolizione del protezionismo (degli altri n.n.) e la "reciprocità degli scambi". Di fronte a tali richieste, ricalcate sulle esigenze della produzione europea (italiana in particolare) e "responsabilmente" rivolte alle istituzioni internazionali (il GATT), non c'è da meravigliarsi se la Federtessile dichiari di "condividere le preoccupazioni del sindacato" e gli obbiettivi di tutela della produzione nazionale. Padroni ed operai sempre più in conflitto sul fronte interno, ma uniti -contro chi? anche e soprattutto contro altri nostri compagni di classe!- sul fronte esterno: non è la più contro-natura di tutte le "alleanze"?
La Confederazione Europea dei Sindacati raccoglie dunque, malgrado se stessa, la spinta oggettiva alla lotta e alla unificazione del proletariato europeo. Ma, in linea con i propri caratteri costitutivi, ci mette del suo per deviare questa spinta, nel migliore dei casi, nelle secche di un "internazionalismo" fasullo. I sindacati riformisti non si discostano mai dal sostegno alla "propria economia", sul presupposto completamente privo di fondamento che in questo modo gli operai difendono sé stessi. E le rivendicazioni "internazionaliste" vengono assunte e rilanciate solo previa traduzione in richieste funzionali alle esigenze di competizione del capitale nazionale. Cos'altro significa contestare a livello internazionale "la rincorsa del più basso costo del lavoro e delle condizioni meno tutelate" , essendo invece favorevoli in casa propria al contenimento del costo del lavoro e alla liberalizzazione del mercato della manodopera? Del tutto coerentemente essi non esitano, poi, a sostenere le imprese dell'imperialismo come la guerra del Golfo e l'intervento in Jugoslavia, dove la linea di adesione agli interessi nazionali li porta infine a sostenere -il che costituisce un vero e proprio crimine contro la classe operaia- la guerra aperta tra proletari di diverse nazioni in nome dei profitti dei padroni.
Ben altra è la prospettiva dell'internazionalismo di classe autentico. Si tratta, per noi, di far leva sui passaggi di un percorso oggettivamente dato, per incoraggiare l'unità sindacale e politica internazionale del proletariato su propri e distinti interessi di classe.
La conquista di condizioni egualitarie di lavoro non è una richiesta da rivolgere alle istituzioni sovranazionali del capitale, né tanto meno un obbiettivo di comune interesse con i padroni. Può essere, invece, solo il risultato dell'unificazione delle lotte del proletariato internazionale contro il padronato e le sue istituzioni; e comporta, necessariamente, la difesa dei livelli di unità politica e materiale della classe già conquistati (dunque: contro la divisione del proletariato jugoslavo e contro tutte le versioni del federalismo).
Va combattuta con forza l'illusione che sia possibile difendere i posti di lavoro accettando un maggiore sfruttamento in nome dell'innalzamento della competitività della " propria azienda", o facendo proprie, al carro del padrone, parole d'ordine di tutela della produzione nazionale. Dando ascolto alle sirene dello sciovinismo si potranno forse contenere i danni all'immediato, ma, alla distanza, la classe operaia concorrerebbe in questo modo ad acuire ancor più la concorrenza sul mercato mondiale, fino a vedersi schiacciata poi sotto il suo peso, costretta, in Italia come negli altri paesi, a sacrifici ancor maggiori per poterla sostenere. E così i posti di lavoro, lungi dall'essere tutelati, ne verrebbero messi ad ancor più forte rischio.
L'unica via di salvezza per il proletariato è nel rifiuto dei ricatti del padronato e nella difesa intransigente di ogni propria postazione attaccata; è nella difesa con le unghie e con i denti della propria organizzazione unitaria di classe e nell'integrazione in essa dei lavoratori immigrati, avamposto nelle metropoli di sterminate masse di oppressi in tutto il mondo e formidabili alleati dell'oggi e soprattutto del domani; è nel collegamento e nell'unificazione della propria lotta con quella che stanno conducendo i proletari di tutti gli altri paesi, che non sono concorrenti da battere sul mercato, ma compagni di una stessa lotta; è nel dare forza alle sezioni più deboli del proletariato internazionale perchè possano diventare forti ed organizzate, non consentendo al padronato di utilizzare la loro debolezza come arma di ricatto contro altri lavoratori; è nella costruzione di un fronte internazionale che punti ad unificare le lotte del proletariato delle metropoli con quelle dei proletari e degli sfruttati di tutto il mondo che si ribellano ogni giorno all'imperialismo; è nella lotta aperta contro tutti gli strumenti e le aggressioni che l'imperialismo mette in campo per torchiare ancor di più i lavoratori dei paesi poveri.
I comunisti mancherebbero ad un proprio decisivo compito se non portassero in ogni lotta del proletariato la forza viva di questa grande prospettiva di riscatto.