I padroni della "pubblica opinione" hanno usato i fatti del Ruanda per fare della crassa propaganda neo-colonialista. Vedete, s'è detto, gli africani sono dei barbari inguaribili. Hanno preteso di fare da soli? Ed ecco l'esito: massacri inter-tribali, milioni di profughi, interi paesi distrutti, miseria nera, colera, aids, etc. Anche il TG3 ci ha messo del suo sostenendo che è tempo di rimettere in causa i vecchi "stereotipi anti-imperialisti", e riconoscere che gli africani hanno dimostrato di non sapersi auto-governare. Morale della favola: all'Occidente, fino a ieri accusato, a torto evidentemente, di avere impedito il progresso dell'Africa, si chiede ora di avvertire il dovere -umanitario, per il bene dei neri, cioè- di tornare ad interessarsi direttamente delle sorti di questo sventurato continente alla deriva. Solo un nuovo intervento dell'Occidente -vale a dire un nuovo colonialismo capitalistico- potrebbe salvare l'Africa da sé stessa, dal suo naturale destino di inciviltà e povertà.
E' vero il contrario. Nulla può comprendersi dello stato di devastazione in cui versano il Ruanda e pressocché l'intera Africa, se si prescinde dagli interessi e dall'incessante interventismo, tutto fuorché "umanitario", degli imperialismi che se ne contendono, in una lotta a coltello, il dominio e lo sfruttamento.
Parli, per quel che riguarda il Ruanda, l'evidenza storica. Questo piccolo paese di alteterre fertili e popolose, collocato col gemello Burundi al centro dell'Africa in una posizione strategica, nel cui territorio hanno origine i bacini idrici del Congo e del Nilo, è nel mirino del capitale europeo da un secolo. Fece gola già alla Germania guglielmina, di cui divenne, coll'Urundi (l'odierno Burundi), un protettorato dal 1899 al 1916. Quindi al Belgio che, strappandolo con le armi alla Germania, lo tenne sotto il proprio tallone dal 1916 al 1960 -con la benedizione della Società delle Nazioni, dell'ONU e del pretume che "evangelizzò" il paese-. Ed è oggi apertamente appetito dalle fameliche democrazie europee, con gli Stati Uniti in agguato pronti a profittare dei passi falsi delle ex-potenze coloniali.
Appetito per la sua agricoltura intensiva di piantagione (caffé, thé). Per il suo abbondante bestiame. Per la sua giovane forza-lavoro. Per le sue riserve di metano e di metalli (stagno, tungsteno, wolframio e, sopratutto, berillio e tantalio, metalli rari)(1). Per il fatto che è una porta di accesso allo scrigno magico dello Zaire. Non per nulla negli anni '50 il Ruanda, per l'entità degli investimenti occidentali attirati, si meritò l'appellativo di "Svizzera africana".
Il business delle armi con cui l'Europa ha stipato il Ruanda, gestito dagli stessi governi imperialisti e da banche quali il Crédit Lyonnais, non è, come credono gli ingenui, fine a se stesso. Sotto di esso c'è un altro, e più lucroso business agricolo-minerario. Certo, se si vuole, è nient'altro che un bocconcino nel banchetto imperialista. Ma la Francia, il Belgio, la Germania, gli Stati Uniti, l'Italia, etc., non hanno davvero lesinato sforzi per azzannarlo. Soffiando tutti, per decenni, sul fuoco del conflitto inter-etnico fino a farlo esplodere nelle circostanze più propizie agli intrighi imperialisti. I fatti del Ruanda portano, quindi, l'impronta non del disinteresse, bensì del crescente interventismo imperialista in tutta l'Africa.
Essi si spiegano, d'altro canto, con il blocco del moto rivoluzionario nazional-democratico di cui il Ruanda post-coloniale è figlio, e con l'assenza del proletariato occidentale dal terreno della lotta all'imperialismo.
Il Ruanda diventò stato indipendente nel '62, in seguito a accordi diplomatici. Ma nel suo cammino all'indipendenza l'avvenimento decisivo fu la rivolta contadina del 1959. Una rivolta che, benché formalmente di natura tribale (la maggioranza hutu contro la minoranza tutsi), ebbe di fatto, a differenza dei recenti avvenimenti, un inequivoco connotato anti-coloniale e democratico-popolare. La massa insorta era composta da contadini poveri. Era la parte della popolazione più determinata a farla finita tanto con la rapina e l'occupazione coloniale belga, quanto con quel feudalesimo tribale che, in base al contratto di ubuhake, faceva degli agricoltori hutu i tributari e i servi della nobiltà tutsi. Guidò il cammino al nuovo Ruanda il Partito del Movimento dell'emancipazione hutu. Un partito "etnico", tuttavia capace di formulare un programma nazionale e borghese, che prevedeva la eliminazione di ogni forma di discriminazione "fondata sulla razza, sul sesso o sulla religione", l'abolizione del sistema feudale, la proprietà privata individuale della terra. Ad esso si deve pure un reale sforzo (rivoluzionario, in questo stesso senso) per promuovere su tutto il territorio del paese una partecipazione "popolare" omogenea alla vita politica (fino ad allora "organizzata" su base locale clanico-tribale).
Pur a partire da condizioni sociali estremamente arretrate, iniziava anche in Ruanda un processo di modernizzazione economico-sociale in senso capitalistico. Ma questo processo, che si giovò dell'ascesa generale del moto rivoluzionario afro-asiatico, ha in seguito subìto i riflessi negativi del suo impantanamento.
L'Africa è entrata per ultima nel movimento anti-coloniale. Al momento di entrarvi, il continente nero era fermo ad uno stadio di sviluppo nell'insieme pre-capitalistico, in molte aree perfino pre-feudale. Con un groviglio di forme economiche le più diverse, in cui si confondevano "i residui del comunismo primitivo agrario (proprietà collettiva della terra), della proprietà patriarcale, della piccola proprietà, dell'azienda agraria capitalistica, della industria moderna legata sopratutto all'estrazione dei minerali" (Programma comunista, 1958, nn. 12-13).
L'esistenza di precondizioni economico-sociali e politiche locali della rivoluzione nazional-democratica molto fragili (una fragilità espressa dalla contemporanea estrema debolezza della borghesia e del proletariato) metteva l'ulteriore sviluppo della rivoluzione africana nelle mani del proletariato metropolitano. Se questo avesse sconfitto l'imperialismo nel suo centro motore; se -almeno- gli avesse tagliate le unghie, intralciando il rilancio in nuove forme del saccheggio coloniale, allora sì che il risorgimento dell'Africa sarebbe diventato da sogno realtà. In caso contrario, invece, esso si sarebbe scontrato, com'è avvenuto, con ostacoli sempre più insormontabili.
Lasciato nell'isolamento da un proletariato metropolitano immobilizzato nell'opportunismo, mai mobilitato attivamente in senso sciovinista e però mai capace di un vero sostegno ai propri fratelli di classe neri, il moto indipendentista-democratico si è bloccato e rattrappito, anche per l'inconsistenza della prospettiva pan-africanista e la pavidità della gran parte delle dirigenze nazionaliste. E così non solo gli obiettivi più ambiziosi dei programmi nazionalisti (riforma agraria, nazionalizzazione delle proprietà coloniali, i piani di industrializzazione globale, la integrazione pan-africana) sono rimasti sulla carta o fermi ai primi passi. Spesso non è stato possibile mettersi dietro le spalle neppure il traguardo "minimo" del definitivo superamento del tribalismo. E ben si vede in Ruanda, Burundi e molti altri luoghi.
Al provvisorio esaurimento della spinta propulsiva della rivoluzione africana ha corrisposto il sempre più aggressivo rilancio della reazione imperialista in Africa, che ha potuto far leva sulla persistente trama di rapporti sociali feudal-tribali. La cui rianimazione, a misura che divide e acceca le masse sfruttate, sgretola i deboli stati nazionali e ri-balcanizza al modo bosniaco l'Africa, fa magnificamente il gioco della dominazione imperialista.
Nella vicenda intrecciata di Ruanda e Burundi i passaggi più importanti in questa catastrofica direzione sono stati i seguenti:
*1972: scoppia in Burundi una grande rivolta contadina hutu (che sono, come in Ruanda, l'85% della popolazione) contro l'oligarchia tutsi monopolizzatrice del potere, omologa a quella avvenuta nel 1959 in Ruanda. In pochi giorni l'esercito burundese, al 98% tutsi e largamente dominato dal clan bahima, massacra 200.000 hutu. Totale complicità imperialista con i massacratori.
*1973: questi avvenimenti provocano in Ruanda la fine del tentativo del Parmehutu di Kayibanda di procedere nella direzione di uno stato realmente nazionale ed unitario. Tra gli hutu ruandesi prendono il sopravvento i clan del nord facenti capo ad Habyarimana, più restii al superamento delle strutture tribali e più dei precedenti governanti "aperti" all'intromissione imperialista.
*Inizia da questo momento (1972-1973) nei due paesi un processo di clanizzazione del potere "statale", che esaspererà nel tempo le contraddizioni etniche e sociali, e li riconsegnerà via via nelle mani dei benefattori euro-statunitensi, attivissimi nell'area, ed in quelle dei loro gendarmi finanziari, FMI e Banca mondiale (che stilano varie note di plauso al governo di Kigali).
*Il "naturale" prolungamento militare di questo corso si ha con la riorganizzazione, sotto regia imperialista -per la precisione: statunitense, britannica, belga e italiana- dei tutsi (l'etnia verso la quale l'imperialismo ha sempre avuto un occhio di riguardo) fuoriusciti dal Ruanda. Nel 1990 il FPR tutsi inizia le operazioni belliche dall'Uganda. La guerra pare arrestarsi nell'agosto del '93 con gli accordi di Arusha, sottoscritti dalle due parti in presenza di "paesi osservatori" quali Germania, Belgio, Stati Uniti, Francia.
*Ma la vittoria elettorale, in Burundi, del candidato gradito alla massa povera degli hutu scatena una selvaggia reazione dell'esercito "burundese". Dall'ottobre '93 al febbraio '94 si sono avuti circa 300.000 morti, nel più totale silenzio dei mass media occidentali. Saltano gli accordi "di pace" in Ruanda. Vi si scatena di nuovo lo scontro "inter-tribale". Dalla parte hutu, esso è combattuto più dalla guardia presidenziale Akazu e dalle milizie addestrate e inquadrate dai parà francesi, che dalla massa dei contadini che preferisce fuggire. Nell'attuale scontro, a differenza che nel '59, tra le masse più oppresse del Ruanda -in prevalenza hutu, ma anche tutsi, dacché oggi i confini di classe si sovrappongono meno di ieri a quelli tribali- non è percepibile la mozione anti-imperialista. Sono invece presentissimi, e spadroneggiano, nell'uno come nell'altro campo, i massimi briganti imperialisti. Che, dopo aver provocato la devastazione del Ruanda e del Burundi, riescono perfino a farsi passare, qui ma spesso anche lì, per i salvatori dei "poveri negri"...
E' la rivincita imperialista, che appare al momento completa, sulla sconfitta patita trent'anni fa. Un brutto passo indietro verso il passato, ma non finisce qui. Da qui, anzi, necessariamente si riparte, non solo in Ruanda, nella battaglia contro l'oppressione imperialista e contro le arcaiche strutture pre-capitaliste, che non può svolgersi sotto la tutela di sotto-borghesie compromesse a fondo con l'una e le altre.
Il mostruoso abisso di sofferenze in cui versa l'Africa sotto il tallone dell'imperialismo evoca potentemente la necessità che la rivoluzione africana riprenda la sua marcia. A questa ripresa della rivoluzione in Africa, che avrà il suo baricentro spostato verso le masse sfruttate sopratutto là dove un minimo di impiantamento dell'industria si è comunque dato, sarà più decisivo che mai l'apporto della lotta di classe del proletariato metropolitano.
Nel suo stesso interesse, questo non può continuare a consentire passivamente che gli stati imperialisti flagellino le popolazioni africane peggio che ai tempi dello schiavismo e del primo colonialismo. Deve tornare in campo con la propria parola d'ordine classista: imperialisti, giù gli artigli dal Ruanda, dall'Africa, dal Sud del mondo! Con qualunque veste vi presentiate: col volto delle armi, alla Valsella o alla Previti, che chiede un "nuovo modello di difesa" per l'Italia anche per "affrontare le turbolenze del continente africano"; col volto dei procacciatori d'affari "civili" o delle fetide missioni religiose; con quello di megere alla Maria Pia Fanfani, trafficanti di bambini e di "buoni sentimenti"; o perfino con quello, se potesse esistere, dell'"aiuto umanitario autentico" caro a Rifondazione. Perché in tutti i casi c'è sotto la stessa sostanza di rapina e di oppressione.
Dire alt all'interventismo imperialista, non significa affatto lasciare che gli africani si scannino a piacimento, se così "vogliono". Al contrario, per i proletari più coscienti e per i comunisti si tratta, in situazioni come quelle del Ruanda e del centro-Africa, di scrutare, sostenere e guidare ogni sforzo delle masse nere volto a superare le retrograde contrapposizioni tribali (neppure nei recenti avvenimenti sono mancati segnali di questo tipo che -a stare a quel pò che filtra, v. Avvenire, 11 giugno '94- si sono verificati di prevalenza tra i lavoratori). E di appoggiare senza riserve la inesausta resistenza che le masse oppresse del continente nero -si pensi soltanto ai grandi scioperi operai in Nigeria- oppongono allo sfruttamento spietato da parte del "nostro" Occidente e del capitalismo tutto. Tanto più schifoso quando s'ammanta, come in Ruanda, di panni umanitari.
Nel nome di CristoMerita ricordare che Ruanda e Burundi sono tra i paesi (se non i paesi) più cristianizzati dell'Africa. In Burundi si dice cristiana il 66% (cattolica il 59,9%) e nel Ruanda il 55% (cattolica il 44,3%) della popolazione (v. l'Annuarium Statisticum Ecclesiae del 1991, p. 60). Ai Padri Bianchi il Belgio affidò, dal 1929, il monopolio assoluto della istruzione in entrambi i paesi. Questi bravi missionari, al pari dei bravi colonialisti loro sodali, cristianamente teorizzarono la "evidente superiorità" dei tutsi sugli hutu, comprovata, oltre che dalla loro "naturale capacità di governo", anche da alcuni attributi fisici (colore della pelle, altezza, forma del cranio, etc.) che li avvicinerebbero alle razze camitiche. Altrettanto cristianamente essi introdussero nelle loro scuole l'apartheid (tutsi da una parte, hutu dall'altra), come gradito all'amministrazione coloniale belga. In seguito in Ruanda, dovendo venire a patti, dopo l'indipendenza, con un potere politico detenuto dagli hutu, la Chiesa ha virato in direzione non della etnìa hutu in genere, né tanto meno della massa povera degli hutu, bensì della parte della élite hutu più vessatrice nei confronti di questa massa e più ostile alla integrazione tra le etnie. Ne ha ottenuto come giusta mercede l'incremento delle proprie "immense proprietà fondiarie", divenendo così "potente da risultare uno Stato nello Stato" (La Stampa, 10 giugno 1994). Ora che a Kigali il potere è nelle mani del FPR tutsi, è lecito attendersi nuovi cambiamenti di campo all'insegna dell' "esclusiva missione spirituale"...di fratellanza e di unità di tutti gli uomini in Cristo che, si sa, è la sola cosa che stia a cuore al papato e alle sue truppe...come dimostrano le accuse che si sono tirate addosso da entrambre le parti di attiva partecipazione ai massacri in Ruanda... |
(1) Il berillio è un metallo "inspiegabilmente
raro" (costituente lo 0,003% della crosta terrestre), leggero, duttile, chimicamente
simile all'alluminio. E' assai utile in particolare per l'industria nucleare e nelle
strutture dei veicoli spaziali, in quanto presenta un punto di fusione molto alto ed è in
grado di aumentare la durezza, la resistenza meccanica e l'insensibilità alla temperatura
dei metalli con cui viene fuso. Il suo valore di mercato è proporzionale alla sua
scarsità. Oltre che in Ruanda, i maggiori giacimenti di berillio si trovano negli USA, in
Russia (Urali e Siberia) ed in Brasile (Minas Gerais).
Anche il tantalio "è poco diffuso e molto scarso sulla crosta terrestre. (...) La
maggior parte del tantalio metallico viene usata nella fabbricazione dei condensatori. E'
stato anche studiato come recipiente per la lega fusa uranio-bismuto nel reattore nucleare
a combustibile liquido" (Enciclopedia della Scienza e della Tecnica,
Mondadori, 1970).
Si deve tener conto, poi, che il "gemello" Burundi ha nel suo sottosuolo
abbondante metano, notevoli giacimenti di nichel e metalli rari (vanadio, etc.), e che
rappresenta il crocevia del commercio internazionale dell'oro proveniente dal vicino
Zaire.