Il Comitato politico nazionale di RC del 16-17 luglio ha offerto "al meglio" l'immagine dello stato comatoso in cui si trova il partito.
Non ce ne rallegriamo, ma, come al solito, registriamo e chiariamo le cause di un dato di fatto per allertare i compagni che riusciamo a toccare di questa formazione perché evitino di disperdersi nel corso obbligato cui RC è destinata e riescano perciò a mettersi in controcorrente rispetto alla deriva, o al naufragio, incombente.
Non c'è dubbio che, nell'attuale panorama politico, RC rappresenta una petizione -ai vertici ed alla base- incomparabilmente "più a sinistra" rispetto a tutte le altre forze del "fronte delle opposizioni", a cominciare dalla stessa costola separata del PDS. Tanto basta a richiamare attorno al partito l'adesione attiva o la simpatia di una certa, non trascurabile, massa di lavoratori. Non saremo noi né a negare né a trascurare questo innegabile elemento, che anche (o essenzialmente) per noi rappresenta una base d'appoggio in vista della battaglia anticapitalista.
Ma, altrettanto nettamente, noi diciamo che sarebbe il più micidiale degli errori considerare tutto questo come un dato di riferimento in qualche modo stabile o suscettibile di sola progressione in avanti da "preservare" ed a cui appoggiarsi "così come sta", senza troppo disturbare il macchinista manovratore. Al contrario, si tratta per noi di un potenziale che, per non esaurirsi nel nulla, va esattamente liberato dagli indirizzi teorico-programmatici (chiamiamoli pure così!) e dalle maglie organizzative di questo partito, non suscettibile di cambiamenti ulteriori se non in precipitosa discesa.
RC ha pochissimi anni di vita, eppure ha già bell'e compiuta una notevole parabola discendente nel corso di essi (non parliamo dei numeri -elettorali soprattutto- di cui può ancora fregiarsi, ma della sua sostanza politica).
Nata come "orgogliosa riaffermazione" di un "comunismo" tutto da riaffermare, e "reinventare" insieme, essa si è ben presto trincerata entro le mura di un "vero riformismo" (ad onta delle reiterate affermazioni di Bertinotti sull'"esaurimento degli spazi riformistici" nell'attuale fase del capitalismo imperialista), aggrappandosi alle ombre dei Togliatti e dei Berlinguer, cioè dei padri legittimi del corso che ha portato il vecchio PCI, di aggiornamento in aggiornamento, ai disastrosi sbocchi attuali.
Successivamente è stato sufficiente l'aprirsi della "battaglia elettorale" in presenza di un blocco di centro-destra per piegare RC all'esigenza di mettersi alla coda del contro-blocco "progressista" sulla trincea dell'unità d'azione elettoralesca anti-berlusconiana per evitare il peggio, anche dal punto di vista del mantenimento di una propria quota di rappresentanza parlamentare. Il tutto condito dalle rituali dichiarazioni d'intenti di voler con ciò costituire il lievito di una "complessiva rigenerazione" di quella "sinistra" cui si portava in dote un 6% di voti. Con qualche rampogna verso il PDS compensata da altrettante strizzatine d'occhio a verdi, retini ed "alternativi" consimili.
Oggi, dopo il fallimento dell'ipotesi di un "governo delle sinistre" (sui cui contenuti "anticapitalistici" od anche solo "riformistici" è bene sorvolare), si compie un altro pezzo di strada in discesa: occorrerà costruire un più largo, e scipito, "blocco delle opposizioni" che si estenda, magari, alle "forze sane" del PPI (in attesa, magari, di imbarcarvi la Lega o pezzi "sani" di essa) per preservare i "residui spazi democratici", "costituzionali", contro le ondate del costituendo "regime neo-autoritario" berlusconiano. Il tutto, come sempre, a suon di numeri elettorali, parlamentari, mettendo la sordina financo alle mobilitazioni di massa in proprio per non cadere, come s'è apertamente detto al CPN, nel "massimalismo minoritario". E se, per strada, si incontreranno difficoltà a trovare accordi con un Buttiglione, poniamo il caso, niente paura: Bertinotti giura di poter, in sua vece, dialogare direttamente con Wojtyla, rappresentante notoriamente più "progressista" dei cattolici!
"La dinamica inerziale della Seconda Repubblica -ha bene detto al CPN Marco Ferrando-, lavora già a rafforzare, anche all'interno del PRC, il realistico buon senso dell'omologazione riformista", e forse anche di qualcosa più in giù. Giustissimo: solo che questa "dinamica inerziale" non è esclusivamente un'ipoteca che agisca dall'esterno, da fenomeni oggettivi (in questo caso difficilmente esorcizzabili), ma un'ipoteca interna a RC, alla sua natura d'origine, al suo essere soggettivo. E su questo non sono immaginabili correzioni sostanziali di rotta. Ciò che Ferrando chiama col suo nome non è un fatto accidentale e reversibile, ma si trova inscritto nel DNA sotto-riformista di RC ed in quello del vecchio PCI da cui deriva -rinculando-. Se sospettassimo il Ferrando di simpatie trotzkiste, potremmo citargli qualcosa in tema di "crisi della direzione" e dei percorsi necessari per il cambio di essa. Non ci pare il caso...
La posizione maggioritaria nel partito, espressa da Bertinotti, non si presenta in modo così sciocco e scoperto da nascondersi i dati degenerativi della situazione politica attuale.
Il PDS corre verso il centro, si dice, ambendo ad un ruolo di "liberismo moderato" e in nome di un "compromesso sociale" per il quale, si aggiunge, mancano i presupposti. In questo non vi è molto di diverso da quanto afferma la risicata opposizione interna. Ma questa è solo una "tendenza", spiega subito Bertinotti, non definita di per sè, ebbensì "processuale", in un senso o nell'altro. Un "confronto critico" col PDS, accompagnato da una continua ricerca "processuale" di unità d'azione nell'opposizione a Berlusconi e di unità dal basso nei conflitti sociali o "civili" che dir si voglia, può approdare al "cambiamento". Se D'Alema vira decisamente al centro ciò non era scritto a priori in Occhetto; se Occhetto ha decretato la fine del PCI ciò non era scritto a priori nella "svolta della Bolognina"; se... etc. etc. Insomma: dipende da noi, dal nostro realismo, dalla nostra duttilità anche, far sì che la discesa si converta in risalita. Pateticamente, si invoca a dimostrazione di ciò la costituzione... a Strasburgo di una izquierda parlamentare quasi unida come un formidabile punto di ripartenza, il cui modello andrebbe qui localmente riproposto.
L'opposizione interna può ben denunziare lo stato di cose attuale della "sinistra" e dimostrare che non c'è molta strada unitaria da fare col resto dei "progressisti" su questa base, ma evita di rispondere alla controreplica preventiva del segretario sui contenuti ed i modi di una possibile reinversione di marcia. Cos'è che non quadra nell'ipotesi "real-riformista" di Bertinotti? Esattamente un'analisi dei percorsi obbligati e non accidentali del riformismo in quanto espressione, fin dentro la classe operaia, delle esigenze del capitale o, per la precisione, oggi, del capitale imperialista. Ma chiarire ciò in riferimento al PDS significherebbe necessariamente estendere il discorso al PRC e dalla sua matrice PCI quale forza viziata ab origine dell'opportunismo, organicamente incapace anche solo di prospettarsi (come il vecchio Togliatti poteva prendersi demagogicamente il lusso di fare in un'altra fase) un programma di alternativa comunista quale orizzonte di riferimento, e perciò strutturalmente costretto a inseguire di continuo, al ribasso, slavati "obiettivi immediati" di "resistenza" ad un nemico per parte sua sempre più aggressivo, adattandosi al "meno peggio" da preservare.
Vecchia storia. I comunisti autentici non è che neghino che tra varie soluzioni politiche esistano un peggio e un meno peggio, né ci permetteremmo noi di omologare ad esempio il PDS ad AN (soprattutto in quanto nel primo persiste una tangibile base proletaria di riferimento: particolare al quale, ci pare, i "sinistri" di RC non prestano sempre la dovuta attenzione). Ciò che distingue i comunisti sta nella soluzione che essi danno del problema. Nessun "meno peggio", cioè: nessun risultato positivo parziale, è conseguibile da parte del movimento di classe se non previa l'esistenza di un programma e di un'organizzazione autonomi sul terreno di un effettivo scontro sociale. E' da queste basi che può dipartirsi un'azione fronteunitaria rispetto alla classe, all'insieme della classe e cioè, di regola, a quegli ampi settori di essa che si trovano imprigionati nella rete del "riformismo" e giù di lì; rete che va svuotata e spezzata.
Indubbiamente, la messa in atto di un tale programma, di una tale organizzazione non comporterebbe, oggi, risultati immediatamente clamorosi, proprio perché la forza concentrata della borghesia e l'incarognirsi di una quasi settantennale "tradizione" opportunista, che alla prima ha aperto la strada, impone in qualche modo una "ripartenza da zero". Ma delle due l'una: o si ammette che il capitalismo ha ormai stravinto, sin quasi a cancellare un'identità antagonista di classe, o si vede che quest'ultima contiene in sè caratteristiche e potenzialità sempre più esplosive cui manca "solo" una voce, una direzione, dal momento che per davvero, caro Bertinotti!, non esistono più "margini riformisti" possibili.
Ebbene. Mentre magari si ripete quest'ultima espressione sino alla nausea, si va a riscoprire un "riformismo" residuale in "lotte per le regole" democratiche e "garanzie" da "stato sociale" in obiettivi immediati da cui non solo il proletariato scompare come asse centrale, per non dire di più, ma ad esso subentrano i "cittadini" o i "lavoratori" in genere (mettendoci dentro la microimprenditorialità, gli artigiani, i commercianti etc. -purchè "onesti"- e sinanco, Togliatti insegna!, la "borghesia produttiva") e non si ha vergogna di imbarcare nella stiva i Montanelli (su cui addiritttura un componente del CP rimprovera al partito una sottovalutazione nel non aver capito "il significato di quella contraddizione apertasi nella destra, anzi proprio nella borghesia italiana, nelle sue stesse logiche confindustriali"). La ricerca del "meno peggio" opportunista a tanto conduce.
Al CPN varie voci critiche si sono levate a contrastare fenomeni che non vanno. "Noi rischiamo di pagare duramente la scarsa attenzione che il nostro Congresso (tutto concentrato sui problemi elettorali) ha dedicato al Partito, ai suoi problemi, ad una verifica del suo radicamento sociale di massa" ha detto uno. Ma sarà poi un puro "accidente"?
Ed un altro, denunciando l'"incapacità di sviluppare pienamente la nostra forza di partito per la costruzione di una diversa dimensione politica, di un forte movimento di classe, per la costruzione di un'alternativa": "Il caso più emblematico sembra essere la vicenda del comune di Napoli in cui, a fronte di un largo convincimento nel partito napoletano (!) di contrastare le gravi scelte classiste dell'amministrazione comunale, non si riesce a costruire uno schieramento sociale di opposizione in quanto prigionieri del ruolo istituzionale di sostegno alla giunta progressista". Stessa domanda di cui sopra.
Ma contemporaneamente si sono sentite ben altre voci. Come quella di chi chiede "l'apertura di un nuovo confronto (coi "progressisti", n.) per definire l'identità ed il programma anche minimo dei progressisti a partire dal quale aprire una nuova fase che veda coinvolti tutti i sinceri democratici" sulla base di "una proposta programmatica realistica: centralità delle idee della riconversione ecologica dell'economia (!) e del piano di Legambiente, adeguamento dell'analisi delle nuove forme dello sfruttamento e (cioè..., n.) costruzione di una politica verso il lavoro autonomo, gli artigiani, i contadini...", proletari felicemente esclusi.
Od altri: l'unità con "tutti quelli che ci stanno" va rilanciata "come unità pluralista di identità politiche e organizzative diverse che potrebbe, dovrebbe, assumere i caratteri di un processo confederativo... Di fronte al governo delle destre e al pericolo autoritario occorre la più vasta mobilitazione e alleanza di tutte le forze democratiche sociali culturali e politiche... Una alleanza tra le sinistre e il filone del cattolicesimo democratico (leggi pure: PPI, n.) è possibile e noi la ricerchiamo" in vista di una "trasformazione radicale dell'esistente" ma "non comunista" (e ti credo!).
Questo è il nodo che va spezzato: l'attuale congiuntura (politica?) deve farci mettere tra parentesi proletariato, lotta di classe e comunismo ed obbligarci alle più larghe intese "minimali", oppure l'attuale fase del capitalismo prospetta come unica via d'uscita alla crisi il rilancio di un'azione e di un programma di classe proletari incompatibili con lo stesso orizzonte "riformista", per non parlare dei Buttiglione e Montanelli?
C'è chi ci spiegherà che l'una cosa non sta in contrasto con l'altra, ma la prepara "a partire dalla realtà concreta", da noi "settariamente" ignorata.
Calma, calma... Allorché noi gettiamo sul piatto il comunismo non diciamo affatto che si possa o debba proclamare la rivoluzione tutta e subito (che non si tratti di un budino istantaneo crediamo di saperlo da tempo); diciamo "solo" che anche ogni "minima" battaglia può essere affrontata in termini consoni a questa prospettiva o antitetici ad essa.
Prendiamo proprio, ad esempio, la vicenda della lotta al decreto-Biondi.
L'opposizione spontaneamente manifestatasi ad esso nelle piazze non era espressione puramente e direttamente proletaria, ma di "popolo", di "gente onesta" scarsamente propensa a perdonare i colpevoli della "corruzione" ed a vederseli reimmessi, in vecchi o nuovi panni, nella "seconda repubblica". Ma sicuramente proletaria era e rimane la sola possibilità di dar conseguenza ad un simile sentimento ed ingaggiare su di esso battaglia attorno ad un programma di attacco di classe contro le forze sociali e politiche intrinsecamente legate alla cosidetta pratica della "corruzione" (che è poi la norma del sistema di sfruttamento capitalistico). Dietro questo programma, e facendo leva sul dato obiettivo di una mobilitazione di piazza già in atto, si poteva proporre l'obiettivo del licenziamento del governo Berlusconi per via extraparlamentare. Su questa strada andava anche impostato il problema non dell'"alleanza" interclassista tra ceti sociali diversi e divergenti, ma del trascinamento anche di altri ceti dietro le bandiere del proletariato.
Rifondazione si è ben guardata dall'anche solo abbozzare un tale obiettivo. La "prova di forza" doveva, al contrario, servire unicamente a riannodare i fili istituzionali spezzatisi all"interno della sinistra". Se poi alla "sinistra" si aggiungevano in piazza anche le "forze sane" della Lega, niente di meglio: con esse pure potrà aprirsi un dialogo! (Che bel percorso si è compiuto dal "glorioso" ultimo 25 aprile di contestazione a Bossi!). La cacciata di Berlusconi ed il "governo progressista" a dopo, una volta conseguito questo risultato.
In concreto, questo ha significato soffocare in fasce il movimento per riconsegnarlo alle pratiche più bassamente istituzionali. Con che risultato? Che sulla base di un tale soffocamento hanno ripreso forzatamente corpo nella società le tendenze ad un ulteriore isolamento del proletariato mentre a livello istituzionale, di partiti, si è rafforzata, a cominciare dal PDS, la linea della costruzione di alleanze "con chi ci sta" per un'opposizione seria, responsabile, borghese sino al buco del culo (per dirla con Zucchero Fornaciari), in vista di una successiva "alternanza" da cui sia programmaticamente esclusa a priori proprio Rifondazione.
In un articolo di poco successivo al CPN, Cossutta ha "brillantemente" ammonito che la ricostituzione di un'unità "vera" della sinistra deve passare attraverso il dispiegamento di un movimento sociale, rispetto al quale il PRC deve compiere intero il suo dovere, e non viceversa.
Una versione, sembrerebbe, abbastanza vicina ai criteri del "fronte unico" proposto dal marxismo (e di cui il PCd'I "bordighista" diede a suo tempo uno splendido esempio). Senonché lo stesso Cossutta si contraddice subito dopo ritornando a puntare tutte le sue carte sulla possibilità di un fronte unico di vertice tra partiti per ipotetici e miserabili accordi di opposizione "in comune" su cui ricostruire la trama perduta del tessuto "unitario". E, d'altronde, non è stato proprio lui il campione, ieri, di un'"azione a tutto campo" assieme a PDS, Verdi e retini, consolandosi magari con le "disponibilità al dialogo" di questi ultimi due soggetti delle remore del maggiore fratello?
Su questa strada ben si può immaginare quali saranno i passi ulteriori.
Di fronte agli ulteriori e decisivi "slittamenti" del PDS, Rifondazione mostra di non volersi proporre neppure come un autonomo ed alternativo punto di riferimento per la massa di militanti proletari tuttora inquadrati o comunque al traino di questo partito. Si limita a riproporre stancamente a questo partito, inseguendolo nella sua discesa obbligata, accordi e patti sempre più al ribasso per ricucire con esso (col "liberalismo moderato", giusta Bertinotti) una sempre più onerosa e difficile "unità".
Svuotare le organizzazioni riformiste attraverso una reale politica di fronteunitarismo dal basso? Chi se ne ricorda più?! E quando il PDS cerca di andare a nozze col PPI -in ragione di una sua ferrea logica programmatica- che cosa resta, pateticamente, a Rifondazione se non stupirsi e protestare ridicolmente (testuale!): "Il PDS coccola il PPI. Perché non coccola Rifondazione?".
E che dunque? I "comunisti" possono sperare nelle coccole del "liberalismo moderato" (anche ammesso che una simile espressione abbia un qualche senso)? Il fatto è che questi "comunisti" sono intimamente convinti che di comunismo vero non è neppure il caso di parlare più, che l'unico obiettivo conseguibile è, al massimo, un liberalismo estremamente moderato da costruire istituzionalmente assieme alle "altre forze progressiste"... clintoniane; che un movimento sociale di rottura col presente sistema non è più proponibile, che il "vecchio" soggetto di esso -il proletariato- si è definitivamente impoverito e deteriorato con l'emergere di "nuovi soggetti sociali" cui render diligentemente conto pronta cassa.
Tutto ciò non solo va in controsenso rispetto ad una autentica politica comunista, ma non basterà neppure a preservare a Rifondazione gli attuali suoi margini istituzionali di rappresentanza formale di opposizione. Di quest'ultima cosa essa pare rendersi in effetto conto, ma, come al solito, alla rovescia. Di fronte al pericolo di una riforma istituzionale in senso maggioritario secco, Rifondazione già annuncia: "Per noi sarebbe la fine", ed è il segno evidente di come e quanto essa non sappia vedere per sé altro ruolo al di fuori di quello (bell'ormai pensionabile) di una certa quota di parlamentari eletti in proporzione alla "libera opinione" dei "cittadini" sulla cui base "proporre" un correttivo al 6% del liberalismo, moderato o meno, delle altre forze istituzionali in campo. Un'operazione di bassa ragioneria riformista che già era andata in tilt ai tempi del buon Turati e che è pura follia riproporre oggi, nella fase storica del più feroce accentramento capitalistico (che si dà anche sul piano istituzionale dopo che esso si è già compiuto altrove) e che può essere spezzato solo aggredendone le radici strutturali.
Ma chi può farlo? Solo dei comunisti veri, per i quali sia ben chiaro che quest'accentramento non elimina, ma comprime, esaltandoli oltre ogni limite, i conflitti sociali antagonisti di fondo; che questa forza antagonista compressa va liberata facendo saltare il coperchio della pentola a pressione che la tiene prigioniera; che il comunismo è oggi più che mai attuale e ad esso manca "solo" la forza levatrice dell'elemento soggettivo, del partito.
Ai suoi esordi Rifondazione ha potuto dare ad una massa di sinceri militanti l'impressione che il vecchio cammino, togliattian-berlingueriano, fosse comunque ripercorribile "ricominciando da tre". E' venuto il momento che bisogna ricominciare da zero (ma che formidabile zero è, per noi, il marxismo!). Purtroppo, da ora in poi, per Rifondazione comincia invece la serie dei numeri negativi...