Lungi dall'essere un "regolamento di conti" all'interno della "classe dirigente" estraneo al conflitto capitale-lavoro, il decreto Biondi chiamava direttamente in causa il proletariato. Il proletariato, con splendido istinto, ha risposto immediatamente: attraverso scioperi, manifestazioni e indignate prese di posizione la massa dei lavoratori ha protestato contro il provvedimento e ha cercato, insieme a ciò, di lanciare un avvertimento al governo nel caso in cui esso avesse voluto portare a segno, come il colpo di spugna lasciava intravvedere, altri attacchi contro gli operai e gli sfruttati tutti.
Come organizzazione abbiamo appoggiato la sacrosanta reazione dei lavoratori e partecipato alle varie iniziative di lotta, cercando di indicare come il proletariato potesse portare avanti la battaglia contro il decreto per i suoi autonomi interessi, rafforzando il suo fronte e predisponendosi da posizioni più avanzate agli inevitabili attacchi futuri. Dopo questo scontro, infatti, niente sarebbe rimasto come prima: i rapporti di forza sarebbero cambiati o in un senso o nell'altro, a seconda di chi l'avrebbe avuta vinta, con conseguenze tutt'altro che indifferenti sulle battaglie dell'autunno, a cominciare da quella sulle pensioni e la spesa sociale. Il proletariato giungeva a questa prova con sulle spalle un carico di difficoltà e di illusioni: il conflitto di interessi che si era innescato (e che è ben lontano dall'essersi chiuso) lo costringeva però ad aprirsi la strada verso una propria posizione di classe.
E' in questa prospettiva che siamo intervenuti nella lotta contro il decreto, convinti che questa dislocazione in avanti potesse avvenire solo con il concorso di un'azione comunista, che facesse valere, sulla questione su cui si erano aperte le "ostilità", il punto di vista e i metodi di classe. E' in questa prospettiva che facciamo il bilancio di questa esperienza, la quale, pur se si è risolta in modo non certamente favorevole al proletariato, è gravida di insegnamenti che la massa dei lavoratori non potrà non fare propri. Per meglio intendere le nostre posizioni, cominciamo con il rispondere ad una domanda preliminare: qual'è la posta in gioco che si cela dietro la chiusura dell'"emergenza Tangentopoli"?
Garantismo contro giustizialismo. I complici di "corruttori e corrotti" contro gli alfieri della "pulizia morale". Così è stato dipinto lo scontro che è esploso sul decreto Biondi. Niente di più falso e deviante.
Quale fosse il vero obiettivo del decreto "salva-tangentisti" lo ha spiegato lo stesso Di Pietro, quando a settembre, a Cernobbio, ha lanciato la nuova versione del colpo di spugna: passare dalla fase della "repressione" a quella della "collaborazione" ed evitare di far fare all'Italia la "fine di Sagunto". La "repressione" di chi da parte di chi? Della vecchia "classe dirigente" da parte della magistratura. E non perché avesse difeso costantemente l'ordine borghese, ma perché, dopo aver svolto alla perfezione questo compito per decenni, era divenuta incapace di adempiervi nella nuova epoca in cui è entrato il sistema capitalistico mondiale, l'epoca delle "incertezze". Ne abbiamo abbondantemente discusso nei numeri precedenti del nostro giornale.
Questa fase "repressiva" non poteva durare in eterno: le stesse esigenze capitalistiche che avevano spinto per fare "pulizia" hanno ad un certo punto richiesto di passare ad una fase di "ricostruzione", di collaborazione tra i vari "pezzi" e "apparati" della classe dominante, in modo da far lavorare in pace la nuova "classe politica" entrata in pista e soprattutto la razza padrona che l'ha sospinta sul proscenio.
Non un ritorno alla prima repubblica, quindi, ma un passo spedito verso la seconda, verso la strutturazione di un più efficiente apparato di dominio sul proletariato e di compressione delle stesse organizzazioni della "sinistra". Ecco dove andava a parare il decreto Biondi. Su questa sostanza si trovavano e si trovano d'accordo tutte le frazioni della classe dominante: se i ceti medi e i loro referenti politici, Lega in primis, si sono opposti al provvedimento è stato solo perchè la soluzione che esso dava al problema tornava a riaffermare una posizione privilegiata del grande capitale rispetto alle piccole e medie imprese nel rapporto con lo stato e la spesa pubblica.
La pronta e vivace reazione dei lavoratori (e "popolare") al decreto Biondi poteva essere la base per sbarrare la strada a questo ulteriore passo della ristrutturazione delle istituzioni borghesi, per mettere in discussione le aspettative verso il "polo delle libertà" nutrite in alcuni settori del proletariato e rilanciare la battaglia di classe contro il governo e il padronato. Di più: se ben diretta, la mobilitazione dei lavoratori avrebbe potuto approfittare dello "sconcerto" che si era creato nelle fila della maggioranza e farla cadere. Per fare questo, però, il proletariato avrebbe avuto bisogno di una linea di condotta ben diversa da quella che hanno portato avanti le direzioni progressiste.
Queste ultime hanno inviato ai lavoratori un messaggio di questo tipo: "Il governo Berlusconi sta dimostrando di non saper governare l'Italia, la sta privando di una guida salda e rigorosa; se continua così, porterà il paese alla dilacerazione e allo sbando, con grave danno per tutti, compresi noi lavoratori; per questo non dobbiamo cogliere quest'occasione per una vendetta di classe, ma dobbiamo sforzarci di utilizzarla per dare, dall'opposizione, una guida sicura al paese". Le direzioni progressiste, Rifondazione compresa, hanno quindi spostato il luogo della contesa dalla "piazza" al Parlamento. E qui si sono preoccupate di indicare come uscire in modo "ragionevole" ed "equo" dall'"emergenza Tangentopoli", così da spingere la maggioranza ad acquisire una "consapevole cultura di governo" e preparare, per un lontano avvenire, l'alternativa "progressista". In vista di questo obiettivo la mobilitazione dei lavoratori è apparsa meno efficace delle "lusinghe" e degli "abbracci" con quelle forze, la Lega e la magistratura prima di tutto, che non erano state d'accordo con la "rozza" soluzione che il decreto Biondi aveva dato al problema "giuridico" sul tappeto.
"Non siamo il partito delle manette facili". Questa frase di D'Alema ben simboleggia l'opposizione all'inglese, "costruttiva" e "responsabile", che la sinistra ha portato avanti durante la crisi sul decreto Biondi. Con quali conseguenze è sotto gli occhi di tutti.
Anziché sbaraccare la maggioranza, la sinistra ha contribuito a sbaraccare l'unica arma che aveva messo alle corde il governo Berlusconi; anzichè di vibrargli un colpo profondo, gli ha dato la possibilità di superare il momento di "sconforto", di riprendere fiato, di realizzare un pronto recupero di credibilità, che sta avvenendo anche attraverso la proposta del figliuol prodigo Di Pietro.
Da settembre infatti, ammaestrato dai "consigli" dei portavoce del grande capitale e del governo, il giudice milanese sta cercando di far valere, anche contro il proprio precedente "particolarismo", il "principio" che aveva ispirato l'azione del Cavaliere: tutte le classi, tutti i "poteri" dello stato devono subordinarsi, costi quel che costi, alla priorità della salvaguardia dell'interesse nazionale. Proprio per questo la proposta Di Pietro, benchè accolta dalla compagine governativa con una ridda di reazioni contrastanti, ne ha al fondo rafforzato la credibilità e su strati anche più ampi del proprio originario elettorato. Proletariato compreso.
Pur se il disgusto delle masse verso "corruttori e corrotti" non è meno forte di ieri, si sta, infatti, facendo strada tra i proletari una certa stanchezza per la delega verso la magistratura, la cui azione di per se stessa mostra di non condurre da nessuna parte e, in più, minaccia di essere un ostacolo all'agognata ripresa del sistema produttivo. Lasciati sempre più "disarmati" dalla politica delle direzioni riformiste, educati da esse al "produttivismo" e all'identificazione dei propri interessi con quelli del capitalismo nazionale, i proletari cominciano ad accettare di "lasciar lavorare" un governo che, per quanto "ripugnante", sembra offrire l'unica prospettiva al momento realistica, con la conseguenza di un indebolimento della base di massa delle stesse organizzazioni riformiste.
Così, il giudice che la sinistra aveva innalzato a suo giustiziere, sta cooperando a "giustiziarla". Essa incitava Di Pietro ad andare avanti, a non fermarsi. Di Pietro non si è fermato, è andato avanti sulla sua strada e questa strada lo ha fatto arrivare là dove non poteva non arrivare...a Cernobbio.
Se l'epilogo dell'operazione "mani pulite" è questo, come mai le opposizioni di sinistra, anziché opporvisi, lo hanno favorito? Una svista? Nient'affatto. La linea che esse hanno seguito nella vicenda discende logicamente dalla loro assunzione programmatica di poter difendere gli interessi del proletariato solo all'interno del quadro capitalistico e attraverso il rafforzamento di esso. Poiché le esigenze del capitale nazionale richiedono oggi una maggiore centralizzazione delle istituzioni statali, la quale, a sua volta, passa attraverso il superamento dell'"emergenza Tangentopoli", anche la sinistra deve rendersi garante del passaggio alla fase della "collaborazione", pur se essa, a differenza della destra, vorrebbe realizzarlo in un clima di concordia sociale e senza suscitare "pericolose" spaccature nel paese.
Una sinistra che parte da un'impostazione di questo tipo, in una situazione come quella di luglio, non poteva intervenire che come è intervenuta. Da un lato non poteva accettare la chiusura dell'"emergenza Tangentopoli" data dal governo Berlusconi, perchè essa avrebbe sbattuto in faccia ai lavoratori i privilegi di classe su cui si basa la seconda repubblica, con il rischio, alla distanza, di accelerare la maturazione di una vera opposizione proletaria. Dall'altro lato, però, non poteva organizzare una reale battaglia contro il governo delle destre, in quanto ciò l'avrebbe catapultata nella cabina di comando e messa nella condizione di dover applicare, in un clima sociale di relativa freddezza, la politica di rigore economico che gli "interessi del paese" richiedono, con il rischio, alla distanza, di lasciare socchiuse le porte per "fughe" proletarie a destra e a sinistra.
La risultante di queste opposte esigenze poteva essere una sola: un'opposizione che si priva della capacità di fare l'opposizione, essa che accusa il governo di non saper governare; un'opposizione che rinuncia a fare l'opposizione per paura di arrivare a governare; un'opposizione che spiana la strada al governo cui dice di opporsi. Ci sarebbe di che ridere, se non fosse che questa impotenza e questo rinculo delle direzioni riformiste producono un rinculo e un disarmo della classe operaia, i quali, a loro volta, si ritrasmettono sulle proprie organizzazioni in una spirale al ribasso senza fine. Una prova ulteriore, se mai ce ne fosse stato bisogno, delle nefaste conseguenze cui conduce una politica operaia che identica gli interessi dei lavoratori con quelli del paese e dell'economia nazionale.
Per trarre da questo scontro tutte le potenzialità che erano insite nella spinta proletaria era necessario condurre la lotta contro il decreto Biondi sulle proprie gambe e per i propri interessi di classe. Ciò significava non delegare a nessuno la battaglia contro il provvedimento e sconfiggere l'illusione coltivata tra i lavoratori di poter trovare una "sponda" in forze, come la Lega, la magistratura e i loro referenti sociali, che si sono trovate a confliggere con Berlusconi non sulla sostanza delle cose ma solo sulle modalità con cui effettuare il passaggio alla cosidetta fase della "collaborazione". Il proletariato non avrebbe dovuto affidarsi a nessuno di questi "oppositori", ma investire con la sua mobilitazione nei posti di lavoro e nelle piazze tutte le "varianti" del processo di ristrutturazione autoritaria dello stato borghese e tutti gli aspetti dell'offensiva capitalistica, da quelli "istituzional-giuridici" a quelli economico-sociali, senza alcun cedimento alle superiori esigenze del paese e alle "preoccupazioni garantiste" sotto cui esse sono state in parte "travestite" in questo episodio.
Una politica di questo tipo avrebbe permesso alla classe operaia di mutare i rapporti di forza generali, e, in conseguenza di ciò, di approfittare delle divisioni che si erano create nel fronte avverso, diventando, anzichè bersaglio inerte della mobilitazione delle mezze classi, punto di riferimento per i settori proletarizzati di essi e per quegli sfruttati "sedotti" dalla demagogia del "polo delle libertà".
Inutili recriminazioni sul "passato"? Tutt'altro. Solidi binari su cui il proletariato sarà costretto a portarsi sotto l'impulso di uno scontro di classe sempre più duro. Pur se divisa ed esitante, la borghesia, infatti, non può e non potrà arrestare la sua offensiva. Su tutti i terreni, compreso quello della riorganizzazione reazionaria dello stato. Potrà il proletariato contrastarla e risalire la china senza svincolarsi, nella sua azione, da una politica di difesa fallimentare che fa dipendere lo stato di salute della classe dallo stato di salute del paese e che smantella la forza operaia nella "rete" di un pestifero interclassismo?