C'è in giro un crescente, anche se per ora cauto, ottimismo sulla congiuntura economica internazionale. Quand'anche i fatti dovessero confermarlo, la nuova ripresina non promette ai proletari altro che bassi salari, scarsa occupazione, e per giunta precaria, massima intensificazione dello sfruttamento del lavoro, sempre meno garanzie. Come nell'America del progressista Clinton...
Dopo una duplice falsa partenza, l'economia statunitense sembra marciare nel '93-'94 con un passo più sicuro e sostenuto. L'impulso iniziale alla "recovery" lo hanno dato le esportazioni, in particolare le esportazioni di prodotti bellici (e di quelli chimici, elettronici, etc.). Ciò ha consentito agli USA di riconquistare il primo posto nell'ambito del commercio mondiale, con una quota -nel 1993- del 14% (era il 10% nell'85), di contro all'11% della Germania ed all'8,5% del Giappone. Negli ultimi mesi, poi, hanno preso a crescere pure i consumi interni (+4%), sicché già si incomincia a parlare di un circolo virtuoso dell'economia capace di auto-alimentarsi, evitando di esasperare il carattere concorrenziale già tanto spiccato della ripresa in atto. Questa sensazione di un miglioramento della congiuntura e della sua possibile stabilizzazione a un pur modesto tasso di crescita, viene rafforzata dai sintomi di risveglio produttivo del Giappone e dell'Europa, anch'essi, al momento, collegati alle esportazioni, ma domani chissà...
Su "L'Unità" (28 aprile) L. D'Andrea Tyson, consigliera economica dell'amministrazione statunitense, ha sostenuto addirittura che "vi sono tutti gli elementi per prevedere un decennio di crescita economica sostenuta e di bassa inflazione, come avvenuto tra la metà degli anni 50 e la metà degli anni 60". Davvero? E' forse iniziato un secondo boom da ciclo affluente? Sta invertendosi il processo di acutizzazione dell'antagonismo tra borghesia e proletariato avviatosi, con la crisi, alla metà degli anni '70? Si va al rilancio delle riforme sociali e del riformismo? Niente di tutto questo. Ed è quanto intendiamo mettere in chiaro, esaminando un lato della questione, fondamentale sul piano sociale e politico, il tipo di rapporto tra capitale e lavoro su cui si fonda questa ripresa del processo di accumulazione, innanzitutto negli Stati Uniti da cui origina.
La prima caratteristica della ripresa statunitense è la compressione senza precedenti della remunerazione del lavoro. Da "Business week" del 9 maggio: "ciò che rende questa espansione differente (dalle altre del dopoguerra) è la incessante pressione al ribasso sul costo del lavoro proveniente dalla ristrutturazione delle imprese, dalla competizione mondiale e dagli sforzi per incrementare la produttività del lavoro". Il rallentamento della crescita del costo del lavoro (definito negli USA, per i 3/4,dall'andamento dei salari) data almeno dagli anni del reaganismo, se non da prima. Ma c'è una novità: neppure la ripresa della produzione e, in certa misura, della occupazione ha fermato la tendenza discendente. E tutto lascia prevedere che "l'economia (nord-americana) sia ben lontana dal punto in cui la spinta a crescere dei salari possa cominciare a guidare il movimento dei prezzi".
La progressista D'Andrea ne è soddisfatta non meno del conservatore settimanale di Wall Street. Nel '93 il costo del lavoro per unità di prodotto è aumentato -si vanta- solo dell'1%, e nei primi mesi del '94 è perfino diminuito, mentre negli ultimi due anni del governo Bush era cresciuto del 2,5% e dell'1,3%. "Nell'ultimo anno, la dinamica salariale ha fatto registrare una sostanziale stagnazione". Questa stagnazione è destinata a durare, prevede, almeno fino a quando il tasso di disoccupazione sarà sceso intorno al 6% (attualmente è al 6,4%). Ma anche allora, niente paura, la crescita dei salari sarà molto graduale, ben compensata dagli aumenti-record di produttività (nel 1993 un +5% davvero d'altri tempi). Del resto, tra il 1973 ed il 1992 il salario reale medio è già diminuito, negli USA, di circa il 20% (lo calcola L. Thurow) e, se è vero che il buon giorno si vede dal mattino, questa ripresa di sicuro non prepara belle giornate per il salario operaio.
Tutto effetto del "libero gioco" del mercato? Non proprio. In passato, quando agiva più liberamente di oggi, la legge della domanda e dell'offerta assicurava alla classe operaia, se non altro, la possibilità di vendere più cara la propria merce forza-lavoro nei periodi in cui i capitalisti facevano buoni affari. Se anche questo magro, ed illusorio, "premio di consolazione" sta venendo a mancare, lo si deve, in generale, al fatto che stato e rapporti di proprietà diventano con l'incedere del capitalismo "sempre più capitalistici" (R. Luxemburg). Lo si deve, in particolare, alle politiche statal-governative di smantellamento delle "garanzie welfariste". A quell'"anti-statalismo" di cui si ciancia tanto di questi tempi, ed il cui significato autentico è questo: uno stato che interviene sempre più attivamente nel mercato, ed anzitutto nel mercato del lavoro, per accentuare, contro il lavoro, i meccanismi e le leggi del capitalismo concorrenziale.
Secondo aspetto: sarà una ripresa, se ci sarà, con scarsa occupazione aggiuntiva. Ancora da un documento ufficiale, il rapporto 1993 della National Association of Manifacturers (la Confindustria) statunitense: "Una caratteristica di questo ciclo economico è che la crescita occupazionale è minore di quella registrata in altri cicli, e sopratutto inferiore a quanto ci si potrebbe aspettare"; questo è "il riflesso di un cambiamento permanente della struttura della occupazione, che è iniziato negli anni '80". Sotto la sferza della concorrenza internazionale accentuata dalla cd. globalizzazione dei mercati, le imprese stanno operando drastici tagli di personale, sia tra i colletti blu che tra gli stessi colletti bianchi. L'incremento della produzione pare in grado, al più, di rallentare questa tendenza. A crescere sono soltanto i posti di lavoro in alcuni comparti del terziario, come i trasporti, la ristorazione, le vendite al dettaglio (e ad un saggio inferiore a quello delle precedenti riprese), posti che sono in gran parte a tempo parziale, e quasi sempre nei settori a più bassa remunerazione del lavoro.
E la politica economica di Clinton che favoleggiava sulla creazione di molti posti di lavoro ad "alta qualità", che fine ha fatto? "Fino ad ora -si legge su "Chronique Internationale" del marzo '94- la politica economica condotta da Clinton per quel che concerne l'occupazione, si differenzia poco da quella seguita dai suoi predecessori, ed il programma a sostegno della occupazione enunciato nel corso della sua campagna elettorale non ha avuto alcun seguito nei fatti", anche in conseguenza di una politica di bilancio che si prefigge la riduzione del deficit statale.
Stessa musica anti-operaia a senso unico in materia di "garanzie". Anche in questo caso il cambio di inquilino alla Casa Bianca non ha prodotto dei reali cambiamenti rispetto al reaganismo.Se l'attuale ministro del lavoro, R. Reich, si permette di affermare che nell'epoca dell'"economia globale" i sindacati sono "unnecessary", inutili, superflui, è scontato che il suo orientamento rafforza la già forte propensione della "maggior parte delle direzioni aziendali non tanto a ricercare unsindacalismo più collaborativo, quanto a perseguire, anche con il gioco duro, la de-sindacalizzazione della vita aziendale" ("Business week", 9 maggio).
Eccolo un altro elemento integrante della ripresa statunitense: il tasso di sindacalizzazione più depresso degli ultimi 60 anni (il 12% nel settore privato, nel 1945 era il 35,5%). E poi, il livello più basso di conflittualità sindacale degli ultimi 45 anni; la prosecuzione della "concession bargaining" -quella curiosa forma di contrattazione in atto dal 1977, in cui sono i padroni che presentano la propria piattaforma rivendicativa ai sindacati più di quanto non sia vero il contrario-; e quindi la costante minaccia dei capitalisti, cui la imparziale legge borghese lascia naturalmente mano libera, di sostituire i lavoratori in sciopero con altri lavoratori non sindacalizzati, etc. E' questa l'America democratica che sul "New York Times" s'allarma per l'ingresso dei "neo-fascisti" nel governo Berlusconi, e che svergognatamente "il manifesto" e "L'Unità" propongono, insieme all'"Israele democratica" dei bravi "antifascisti" Rabin e Peres, come punto di riferimento della opposizione alla destra qui in Italia...
E' quella stessa America democratica che all'ultimo vertice del G-7 a Detroit s'è fatta carico di spiegare al proletariato occidentale tutto che deve prepararsi a decenni di "mobilità del lavoro a tutto campo". Produttività e flessibilità all'ennesima potenza. Ovvero: riduzione all'osso degli addetti alla industria; massima intensificazione del loro sfruttamento con orari di lavoro sempre più compatti (il nuovo standard a cui puntano le imprese nord-americane è quello nipponico dei 57'' di movimento al minuto -prima erano mediamente 45'') e lunghi (ben oltre le 40 ore settimanali); largo uso del lavoro precario. E, tra tante incertezze, una certezza: il capitale farà sentire sulle carni dei lavoratori "stabili", e di quelli precari, la minaccia di una povertà in espansione e il pungolo di una massa crescente di disoccupati.
Proletari disoccupati del primo e, soprattutto, del Terzo Mondo. Grazie infatti alle sue guerre "umanitarie" ed ai piani di "aggiustamento strutturale" del FMI e della Banca mondiale, il neo-colonialismo finanziario delle multinazionali statunitensi sta annettendosi nazioni come il Messico e l'Argentina, può lanciare un'OPA (la efficace formula è di "Arabies" del maggio '94)su larga parte del mondo arabo al dissesto, nel mentre si protende avido e minaccioso sull'Asia dell'Est che è ancora in febbrile slancio produttivo. Lo scopo è smaccato: sfruttando le diseguaglianze dello sviluppo capitalistico su scala mondiale, mettere in valore per sé, a costi vicini allo zero, una sterminata massa di forza-lavoro alla fame o nella povertà, e far pesare la sua oggettiva concorrenza contro la "poco flessibile" classe operaia della metropoli, sì da piegarla sempre di più alle ragioni del profitto. Comprimere al massimo la remunerazione del lavoro anche nel "centro": è questo il contenuto essenziale del nuovo balzo in avanti del processo di mondializzazione dell'economia internazionale che si accompagna alla ripresa clintoniana.
Ammesso -non è scontato- che la nuova ripresina statunitense si comunichi sensibilmente all'Europa e al Giappone, è forse prevedibile che vi abbia caratteristiche diverse da queste? Dovrebbe escluderlo chiunque non volesse chiudersi gli occhi davanti ad una sequenza di dati di fatto inequivocabili: la Gran Bretagna di Major, che è il paese europeo con la congiuntura economica più dinamica, procede solidamente sulla via di un thatcherismo senza Thatcher; in Francia il governo Balladur fa un primo tentativo, mancato solo per la reazione di massa dei giovani e del movimento sindacale, di decurtare lo stesso salario minimo; in Giappone, siamo alla fine del sistema di "impiego a vita" ed alla introduzione anche nelle grandi imprese dei contratti a tempo determinato; qui in Italia, la prospettiva del ritorno alle gabbie salariali di fatto, la "semplificazione" delle procedure di licenziamento, nuove forme di flessibilità, le pensioni trasformate in assicurazioni, etc.; e all'opposione, poi, le ennesime revisioni programmatiche in senso "liberale" del Labour Party, dell'Spd, del Pds, i portatori di quella "alternativa di sinistra" o di "progresso" che, per candidarsi ad un ruolo di governo sempre più lontano, converge sempre più verso politiche di stampo reaganiano...
Dicevano le tesi di Rifondazione (con mirabile coerenza logica, dopo avere dichiarati esauriti gli spazi di riformismo...): la crisi capitalistica è risolvibile soltanto attraverso una ristrutturazione in chiave keynesiana e democratica del capitalismo, con una "nuova qualità" dello sviluppo, con la "programmazione sociale della produzione" fondata su di un "attenuato dominio della economia e del profitto".
Dice la realtà dei fatti, il solo terreno su cui si possa poggiare una politica di classe: il capitalismo imperialista sta tentando, con qualche momentaneo successo, di riprendersi dalla più seria recessione del dopoguerra, seguendo una via diametralmente opposta: esasperando il "dominio del profitto", accentuando i caratteri anti-sociali della produzione e l'autoritarismo statal-capitalistico, portando un nuovo e più feroce attacco al proletariato. Ed è solo e soltanto a queste condizioni che la nuova "ripresa" può, stentatamente, reggere, acuendo in profondità l'antagonismo tra borghesia e proletariato.
A questo attacco la classe operaia ed i lavoratori debbono rispondere subito, con forza, unitariamente, senza attese di nuovi "miracoli economici", né liberisti né keynesiani, che il corso dello sviluppo e delle contraddizioni del capitalismo ha relegato ad un passato che non può ripetersi.