A proposito di elezioni: cosa sta cambiando all'Est
I successi elettorali dei raggruppamenti di "sinistra" in alcuni paesi dell'Est Europa hanno risollevato gli animi di alcuni "comunisti" nostrani, che vi hanno visto una possibilità di rivincita, alla distanza, del "comunismo" sconfitto nell'89, e un refolo di venticello che alimenta la speranza di contrastare elettoralisticamente il vento di destra che soffia forte in Italia. Lungi dall'essere l'una o l'altra cosa, quei tests elettorali dimostrano soltanto, nel modo debolissimo in cui ogni elezione può farlo, che le contraddizioni di classe, sopite dal "socialismo reale", negate dal liberismo che l'ha seguito, cominciano a ripresentarsi sulla scena. Il proletariato di quei paesi riaffida alla "sinistra" le aspettative di difesa delle proprie condizioni. Ne riceverà solo delusioni. Ciò che veramente conta è che cominci a muoversi basandosi sulle proprie forze e ricostruendo, nel fuoco della battaglia che si prepara, i propri strumenti di lotta, gli unici che possono consentirgli una reale difesa dei suoi interessi immediati e rimetterlo sulla strada di risolvere quelli storici, una strada abbandonata non cinque anni fa ma da quando data la degenerazione stalinista dell'Internazionale Comunista.
Le recenti consultazioni elettorali ungheresi hanno attribuito il primato dei consensi al Partito Socialista (MSZP) "ex-comunista" di Gyula Horn. Una "novità inattesa", in realtà da tempo anticipata. E che fa seguito ad altre interessanti "novità inattese", dalla Lituania alla Polonia alla Slovacchia, confermate a loro volta dai risultati elettorali rumeni, serbo-montenegrini, bulgari e, in un certo senso, anche russi.
Il fenomeno merita di essere analizzato, in quanto contraddice i pronostici e le attese di parte borghese di un trionfo elettorale, dopo quello sociale, del "liberismo", possibilmente in versione thatcheriana, ad Est. Naturalmente, c'è chi, qui da noi, sul versante "più a sinistra" del fronte demoprogressista esulta per la cosa, traendone, nientemeno!, l'auspicio di un ritorno di fiamma del "comunismo" (quello doc, come da immagini del Baffone sulle bottiglie di lambrusco chiamate a finanziare i comunisti in Italia). E' il caso, l'avrete capito subito, di Rifondazione, la quale, dopo aver cavalcato Gorbacev (il "rinnovatore del socialismo") non teme ora di salire in groppa, all'occorrenza, di Zirinovskij, che, forse, compagno proprio non è, ma "compagno di strada" sicuramente sì. Poveracci!, chi si contenta gode... Potremmo capirli se si trattasse di un ritorno in forze del classico stalinismo all'ombra del quale, sul solco del classico togliattismo, poter far marciare una "via nazionale" italiana, patriottica, di "democrazia progressiva", salvando -agli occhi dei militanti- la prospettiva dell'addà venì Baffone. Purtroppo, per loro, non di questo si tratta.
Gli "ex-comunisti" riciclati sono tutti, indistintamente, dei "riformatori" in senso borghese, aperti al libero mercato ed all'Occidente, e quest'ultimo Gyula non fa eccezione se lo stesso "Indipendente", dopo aver terroristicamente titolato "L'Ungheria ritorna al passato", riconosce che il nostro personaggio è "un economista di scuola marxista, ma un riformatore convinto; un professionista della politica che ha aperto all'Occidente quando in Ungheria sventolavano ancora le bandiere rosse". E nessun connotato diverso presentano gli altri suoi compari dell'Est. E, tuttavia, la vittoria di costoro è certamente indice di umori sociali non collimanti, ed anzi apertamente stridenti, con quelli delle forze classicamente borghesi più care all'Occidente.
Di che si tratta? Detto in sintesi, i "liberal" di quest'area sono quelli che con più determinazione spingevano, e spingono, verso una completa deregulation di mercato, nella convinzione di poter impunemente lasciar sul terreno milioni di proletari pur di potersi mettere al passo con l'Occidente, fidando, per questo, sul "generoso aiuto" del fratello maggiore occidentale. Questa prospettiva sta andando pressoché ovunque in fumo, sia per la difficoltà di passare in maniera indolore alla "ristrutturazione" capitalistica sia perché i cordoni delle borse occidentali si sono mostrate eccezionalmente avare (vuoi per il venir meno del primo fattore, vuoi, soprattutto, per la difficoltà di tirar fuori sufficienti capitali ad hoc per investimenti a lungo termine). Rispetto ad essi, gli "ex-comunisti" si presentano come i garanti di una transizione più morbida, che prende atto dell'impossibilità di smantellare d'un colpo le posizioni acquisite dal proprio proletariato e della necessità di passare alle "riforme" preservando ed ampliando il mercato nazionale (compreso quello dei capitali) in luogo di svendere il proprio potenziale produttivo agli avvoltoi occidentali in cambio di un prevedibile pugno di mosche. Si tratta poi, come abbiamo documentato per la Russia, di una linea di tendenza che si sta imponendo anche ai riformatori inizialmente più spinti, come nel caso della squadra di El'tzin (sulla quale, non a caso, si sono scaricati di recente i fulmini del FMI). Nulla di anche lontanamente "comunista" in tutto ciò, tant'è che questa è, in Russia, la posizione anche di un Zirinovskij (con l'aggiunta dei suoi deliri) e, come abbiamo altra volta anticipato, si potrebbe un domani assistere a qualcosa di analogo sin da parte dell'HDZ , o di settori dell'HDZ, croata.
In poche parole, ad Est si stanno verificando alcune cose. Primo: il totale ed irreversibile affondamento del "modello stalinista" od anche post-stalinista del locale "comunismo". Secondo: l'impossibilità da parte dell'Occidente di rimpiazzare quel modello in forze ed in maniera un tantino equilibrata. Terzo (e come conseguenza): il ripiegamento delle locali borghesie su un tentativo di transizione semi-morbida e semi-autarchica del tipo -Mao insegna-"far affidamento sulle proprie forze".In pratica, un tentativo di sfuggire, restando fissi all'orizzonte borghese, alle leggi imperialiste di uno sviluppo sempre più combinato e diseguale. Una quadratura del cerchio, ovviamente. Perlomeno finché si resta entro l'orizzonte di cui sopra. E, nondimeno -perciò la cosa c'interessa-, un segnale del crescere di contraddizioni insormontabili nell'ambito del presente sistema internazionale.
Il voto, talora in massa, del proletariato a questi messeri non indica affatto, dunque, che esista nei secondi un referente "socialista" al quale i primi possano utilmente ancorarsi per difendere i loro interessi di classe. Al contrario, si è visto perfettamente in Polonia come gli "ex-comunisti" ritornati al potere si siano trovati stretti tra le loro espresse esigenze "riformatrici" borghesi e le domande operaie, col risultato di trovarsi impacciati sul primo versanti e costretti comunque a colpire sodo i proletari. Risultato (doppiamente deficitario): ulteriore accumulazione di ritardi sul fronte economico-sociale capitalistico, scollamento pressoché immediato nei confronti delle masse lavoratrici, costrette rapidissimamente a disilludersi ed a riprendere in mano le proprie armi di azione. (Annotiamo maliziosamente che dei recenti scioperi a valanga in Polonia non s'è quasi parlato sul "Manifesto" per non dire del pudico silenzio di "Liberazione"; buon per noi, "la rivoluzione non russa").
Si tratta, in sostanza, di un voto di attesa (mal riposta) in nome di esigenze reali della classe; ma, proprio per questo, di una posizione d'attesa transitoria che potrà (se lo potrà) concretamente sciogliersi solo col ritorno offensivo della classe sulle proprie postazioni di battaglia, per il socialismo di oggi, domani e sempre. Queste esigenze, infatti, significano: battersi contro le conseguenze in loco delle leggi capitalistiche avanzanti, ovvero: contro le locali classi borghesi e quelle dell'Occidente che su di esse premono nel quadro del mercato capitalistico internazionale. L'esatto opposto di ogni via autarchica ad un "capitalismo dal volto umano"; l'esatto contrario di una possibile delega affidata a ciò a dirigenze politico-sociali inequivocabilmente e totalmente borghesi, per quanto grande possa essere la demagogia "sociale" d'accompagnamento.
Due attese sono andate, in questo periodo, deluse. La prima, quella ingenua, che si prospettava, col tonfo dello stalinismo, un immediato passaggio offensivo della classe operaia dell'Est sulle trincee del "vero socialismo", reso trasparente dalla fine della menzogna stalinista. Ma, appunto, era ingenuità credere che la classe fosse transitata attraverso quell'esperienza indenne, e avrebbe dovuto insegnare qualcosa il fatto che la svolta si fosse compiuta in forza delle contraddizioni insite nel sistema precedente e per iniziativa di forze borghesi aperte e non di un assalto di classe alle vecchie strutture del potere. La seconda, che consideriamo semplicemente carognesca, consisteva nell'ipotesi di un'opposizione al "nuovo corso" da parte del proletariato sulla base di una "difesa delle conquiste rivoluzionarie", delle "acquisizioni" del post-capitalismo (se non proprio del socialismo tout court). C'è di che riflettere in merito.
Il dramma dell'Est, per noi, è che ad un regime meno capitalisticamente oppressivo nei confronti del proletariato (in forza dei precedenti storici di formazione e del ritardo di quei capitalismi) si è accompagnato un lungo e solido lavoro di annichilimento dei contorni di classe del proletariato (ciò che -ripetiamo quanto detto parecchie altre volte- consideriamo il maggior crimine dello stalinismo). Questa devitalizzazione classista ha prodotto in un primo tempo la subalternità del proletariato dell'Est rispetto alla demagogia del rinnovamento liberista, accolta come promessa appetitosa di una via d'uscita plausibile e conveniente alla crisi reale in cui il vecchio sistema era venuto a trovarsi. Oggi -secondo tempo- produce un accodamento (provvisorio) a chi promette linee di trapasso più morbide verso il "nuovo" con la conservazione delle antiche garanzie.
Il fatto è che, liberisti estremi o "riformatori" al potere, è ormai venuta a mancare completamente sotto i piedi del proletariato (così come della borghesia) la possibilità di vivere come prima e con essa, grazie a dio!, di quella stagnazione nei rapporti sociali che fin qui ci ha appestato, ad Est e internazionalmente. Di qui la certezza che le vicende dei "flussi elettorali" sono tutt'altro che definitive e per nient'affatto la cosa più significativa. L'essenziale, in questa fase di transizione, è che, al di là dei provvisori posizionamenti elettorali (in cui, tra l'altro, l'elettorato proletario si presenta in maniera assolutamente passiva, non dando segno alcuno di una propria attivizzazione "per sé" su questo terreno), la classe cominci a muoversi come tale ritessendo i propri strumenti di battaglia sindacale, politica, teorica, in direzione (attenti!, parliamo di un processo, lungo, difficile, contraddittorio anche, e non di qualcosa che possiamo burocraticamente chiedere si realizzi linearmente e subito sin da oggi) del proprio partito.
Questo cammino è quel che noi cerchiamo costantemente di spiare, ben sapendo che esso entra in relazione con le vicende elettorali-parlamentari, ma non dipende da esse e men che mai ad esse può essere demandato. Sotto questa luce ci può far piacere che l'elettorato proletario dell'Est viri a sinistra: in quanto indica il crescere di un sentimento di ostilità nei confronti dell'offensiva borghese estrema (locale e, più, occidentale) e le difficoltà in cui vengono a trovarsi -prima e fuori dalle cabine elettorali- i nostri più agguerriti avversari; ma anche e in primo luogo perché indica l'avvicinarsi della resa dei conti con la stessa "sinistra" e sollecita tempi e modi della riorganizzazione proletaria di classe. Chi, di fronte ad un problema che è di scontro tra socialismo e capitalismo a scala mondiale, plaude al riformismo sotto-borghese degli "ex-comunisti" e demanda ad esso la soluzione locale dei problemi attuali, avrà poco di che gioire in futuro dei trend elettorali. E si è, intanto, prenotata da parte nostra la gogna!