Il dissolversi, nel vortice di "tangentopoli", dei partiti che s'erano, a giusto titolo, conquistato l'odio operaio, aveva suscitato a "sinistra", e con essa in gran parte della classe operaia, la speranza che le liste "progressiste" potessero, nell'agone elettorale di marzo, raccogliere dalla maggioranza dei "cittadini", la delega a governare, come già a dicembre nelle elezioni dei sindaci. Ha vinto, invece, lo schieramento opposto, quell'inedito connubio di vecchia destra missina, neonato centro-destra berlusconiano e Lega Nord, la cui natura di destra s'è "svelata" a molti "progressisti" solo dopo l'alleanza elettorale con Forza Italia.
La "sinistra" ha reagito, di conseguenza, con sorpresa alla "scoppola" elettorale, e l'ha attribuita per intero alla scesa in campo di un "manipolatore televisivo di coscienze", paventando il rischio di un nuovo mostruoso "regime" che avrebbe fatto della "democrazia" un sol boccone. Una lettura vagamente (e vanamente) auto-consolatoria, ma anche del tutto falsa, e, quel che è peggio, che rischia di porre su un terreno deviato la necessaria e totale opposizione al nuovo governo che sanno di dover condurre quanti avvertono nella sua costituzione la premessa di un ulteriore e più spietato attacco alle condizioni di vita e ai "diritti" di chi nulla possiede se non la propria forza-lavoro, la premessa di più marcate redistribuzioni della ricchezza sociale a favore delle classi possidenti.
Le elezioni si sono limitate a sancire, rivelare anche sul terreno della conta delle schede, uno spostamento a destra già realizzatosi in ampi settori sociali sul campo extra-parlamentare dei rapporti di classe. Negli ultimi anni sempre più a destra sono andati padronato e governi, ma anche i ceti medi, schiacciati dalla crisi, hanno preso a considerare "eccessive" le "protezioni" concesse ai lavoratori salariati, i "gravami" sindacali, lo "statalismo oppressore" della "sinistra", troppo, ai loro occhi, interprete del proletariato, cioè dell'inesauribile fonte di spremitura alla quale sognano di attingere.
La vittoria elettorale delle destre e il loro governo non sono, dunque, un'improvvisa novità, ma rappresentano un ulteriore passo innanzi dell'attacco capitalistico al proletariato, un passo a cui il movimento di lotta dei lavoratori è chiamato a rispondere senza indugi sullo stesso terreno su cui l'avversario punterà a colpirlo, il terreno dei complessivi rapporti di forza tra le classi. Nessuna autolimitazione della combattività operaia potrà mai resuscitare il rapporto "positivo" coi ceti medi, al contrario favorirebbe l'ulteriore elevamento delle pretese contro la classe operaia tanto da parte della borghesia che di tutte le mezze classi. Solo un proletariato unito nella lotta, e presente con tutta la sua forza, può presentarsi ai ceti medi pauperizzati come reale alternativa (non elettorale, ma radicale, rivoluzionaria, di sistema) da guardare senza ostilità e anche con simpatia e partecipazione.
A questo compito politico, sempre più oggettivamente all'ordine del giorno, il proletariato non può arrivarci senza un crudo bilancio delle politiche fin qui seguite e delle organizzazioni cui ha affidato la sua rappresentanza. Per avviarlo è necessario ragionare sugli ultimi avvenimenti politici e sulle loro cause, considerarli nel loro giusto valore e in quel che preparano, e individuare le condizioni necessarie alla classe operaia per uscire dall'attuale situazione di debolezza e di sbandamento.
Il risultato elettorale si inquadra nel nuovo corso che la borghesia ha "dovuto" imprimere ai suoi rapporti col proletariato, e non solo dal famigerato '89, o dagli anni 80, ma fin da quando, nella prima metà degli anni '70, il vorticoso e "pacifico" sviluppo post-bellico ha iniziato a cedere il passo a un nuovo periodo di convulsioni economiche, sociali e politiche, destinate a sfociare nella classica soluzione "catastrofica": o guerra mondiale e nuova, più violenta, affermazione del dominio del capitale, o rivoluzione comunista.
Ne abbiamo scritto più volte riferendoci alla "specifica" situazione italiana, ma, non essendo questa astraibile da tutto il corso mondiale del capitalismo, è a tutta la nostra produzione che invitiamo a far riferimento, in stretto collegamento e in diretta linea di filiazione con tutta quella di Marx, di Lenin, e della poderosa opera di ribadimento fatta da Bordiga.
Per procedere nell'analisi degli ultimi fatti, ne ricordiamo brevemente i capisaldi.
L'irrompere, il dilatarsi e l'incancrenersi della crisi generale del capitalismo (il cui corso nessuna "ripresa", più o meno gonfiata, più o meno -sempre meno- duratura, può invertire) sospinge la borghesia, ineluttabilmente, a una aggressività sempre maggiore, tanto nei confronti del "proprio" proletariato, quanto nei confronti dell'esterno, sotto veste di aree di conquista (mercantile, politica e/o militare) o di "concorrenti".
Per entrambi gli scopi è indispensabile per il capitale dotarsi di uno stato forte, più efficiente, più concentrato, più centralizzato, macchina perfetta per affermare, dentro e fuori i confini, l'"interesse nazionale". Lo "stato nato dalla resistenza", la "prima repubblica", era assolutamente inadeguato a ciò, essendosi, complice il boom post-bellico, "troppo" esposto al condizionamento proletario. Bisognava, e bisogna, smantellare quella impalcatura borghese e sostituirla con un'altra, "libera", cioè sciolta dall'obbligo della mediazione sempre e comunque col proletariato, sia pur questi affatto rivoluzionario, ma attestato, con tutta la sua direzione, su una semplice postazione di difesa di sé in quanto classe del capitale. Questo il "consociativismo" da espungere, la palla al piede di cui liberarsi, ridimensionando, di conseguenza, lo stesso riformismo e la sua attitudine (ormai poca, ma, per il capitale, sempre eccessiva) a rappresentare e sostenere le esigenze conflittuali del proletariato. Da un lato si "aiuta" il Pds e la Cgil a trasformarsi in responsabili appendici dello stato, dall'altro gli si interdicono gli spazi istituzionali di "ricatto" fin qui goduti.
La rigenerazione dello stato, in uno con la necessità di più duri attacchi alla classe operaia sul piano economico, postula, però, anche una nuova rappresentanza politica di parte borghese: un nuovo partito, unitario, militante, coeso nel sostenere l'opera di aggressione interna ed esterna, per transitare dall'amministrazione dello "sviluppo" a quella della crisi e prepararsi ad affrontare lo svolto conclusivo che la crisi annuncia, quello di un generale conflitto mondiale. Il grande capitale ha bisogno, insomma, di disciplinare il proletariato, ma -anche per far questo- gli è indispensabile ridurre a unità e disciplina le mille corporazioni e conventicole abituate finora a una "redistribuzione" non più proponibile, e a un rapporto molle col proletariato.
Le due necessità (stato e partito più aggressivi) sono emerse da anni sulla scena politica, trovando interpreti più o meno coscienti e coerenti (Cossiga il "picconatore", il Craxi delle "riforme istituzionali", Pannella, Segni, e così via), ma solo negli ultimi due anni hanno assunto una "drammaticità" che non consentiva più rinvii. Il liquefarsi di DC e PSI, il successo elettorale della Lega Nord (adunata militante anti-sinistra dei ceti medi del Nord, ma anche pericolo di minare l'unità nazionale, supremo bene per il capitale, in quanto garanzia di mercato sicuro, protetto o proteggibile), l'eventualità, dopo il successo dei sindaci "progressisti", della "sinistra" al governo, hanno sospinto non tanto né solo Berlusconi, quanto un intero schieramento di classe a compiere un primo passo per tentare di darsi una rappresentanza politica adeguata alle necessità del momento, utilizzando quegli strumenti, il maggioritario, intanto predisposti.
Nel frattempo la borghesia non è stata immobile, ma, prima, ha assestato, con il governo Amato, duri colpi al proletariato, con una vera e propria prefigurazione della 2a repubblica, poi lo ha tenuto, con Ciampi, in ammollo (non nuovi pesanti attacchi, ma neanche "restituzioni") per sterilizzarne ancor più le potenzialità di lotta. Entrambi gli ultimi presidenti del consiglio, pur con politiche diverse, possono vantare di aver svolto il miglior servizio alla nazione, nel guadagnare tempo affinchè emergesse una nuova rappresentanza politica borghese.
Richiamate queste premesse c'è, ora, da chiedersi a che punto è la realizzazione dei compiti borghesi. Detta altrimenti: hanno le recenti elezioni sancito il completamento della "svolta"?
Il fatto che stiano maturando tutte le condizioni che rendono attuale la costituzione di un forte e aggressivo partito (e stato) borghese non significa affatto, di per sé, che al problema che si pone ci sia per la borghesia una risposta bell'e pronta. Questa risposta non può essere la Lega per la sua riottosità a identificare gli interessi del capitale a scala nazionale e la preferenza a inseguirne una frammentazione macro e perfino micro-regionale. Ma questa risposta non è data neanche dall'attuale berlusconismo, che pur costituendo un passo innanzi più significativo lungo la via obbligata che s'è detto, rimane ancora al di qua della soluzione di cui il capitale necessita. La neo-destra vincente al voto di marzo è sicuramente più dura e esplicita quanto a contenuto anti-operaio, ma può a pieno titolo fregiarsi della qualifica di democratica, moderata, molto poco, diciamo noi, aggressiva, e molto poco in grado, quindi, di assolvere i compiti borghesi all'ordine del giorno. C'è al suo interno una forte componente del centrismo DC anni cinquanta, spostato a destra e scelbista, ma non ancora (né con questi attrezzi umani) disposto a una decisa resa dei conti con la classe operaia, e, in ciò, socialmente -almeno- "consociativista".
Certamente i punti conseguiti nella partita in corso, grazie anche alla viltà e allo smarrimento delle "sinistre", approssimano la fase successiva, ma il gridare "al lupo!, al lupo!" lasciando intravvedere che siamo già a un'ultima spiagga, con tanto di fascismi e pre-fascismi, torna buono unicamente ai "progressisti" capaci solo di guardare all'indietro, presentando la situazione attuale come il "peggio" rispetto a un "meglio" che sarebbe costituito dall' "unità nazionale" di berlingueriana memoria! (Bertinotti, per esempio, su Liberazione del 20.5, argomenta la diversità tra "consociativismo" e "compromesso", per dimostrare quanto negativo sia il primo e quanto lui aneli a veder tornare in auge il secondo...).
Il vero guaio, nei confronti della masse, non è tanto l'esagerare, con una truculenza fuori misura, i connotati dell'avversario, quanto il predisporsi a "combatterlo" ritirandosi in trincee arretrate e mettendo in campo in quella che -stando ai capi- dovrebbe essere una battaglia nucleare, frecce e archi da trogloditi, come quelli agitati il 25 aprile, e di cui parliamo in altro articolo. Non siamo ancora all'ultima spiaggia, ma con tali strumenti rischiamo di arrivarci in fretta e nel peggior modo.
C'è, dunque, tra necessità oggettive e disposizioni soggettive delle forze borghesi un deciso scarto. Come mai? La risposta non può, giocoforza, ridursi a poche battute, né si può ritrovare solo negli sviluppi recenti. Bisogna risalire alle origini stesse del capitalismo italico e dello stato nazionale per vedere come quello scarto si configuri -sino al fascismo- come una vera e propria tradizione storica, affondando le sue radici materiali nella base economico-sociale del paese. Nel "dossier" pubblicato nel n. 29 del che fare ricordavamo il ritardo storico del capitalismo italiano nel fornirsi del suo stato nazionale (leva insostituibile dell'accumulazione capitalistica), e come questo sia potuto nascere solo grazie al duplice compromesso con le potenze straniere e con le classi proprietarie del centro-sud e la Chiesa, disposte a mettersi sotto padrone "indigeno" in cambio di un ritorno in termini di rendita e altri condizionamenti alla velocità di trasformazione capitalistica dell'economia e della società. Causa quel ritardo, e quei condizionamenti alla nascita, il capitalismo nazionale non è riuscito mai a elevarsi dalla dimensione di quello che Bordiga chiamava "imperialismo a scartamento ridotto", allenato ab origine alla singolare attitudine di intuire in tempo da che parte era il più forte per allearvisici con spericolate giravolte.
Il fascismo costituì l'unico vero tentativo del capitalismo italiano di colmare lo scarto con le sue necessità. La tendenza della borghesia a dare al suo dominio il carattere della dittatura centralizzata era andata crescendo già da tempo, ma la sua realizzazione fu resa possibile solo dall'inevitabilità e dall'urgenza di reagire, affasciandosi come un sol uomo, alla minaccia costituita dall'insorgere proletario del "biennio rosso". Il fascismo si affermò, quindi, innanzitutto come arma distruttrice di tutte le forme autonome di organizzazione del proletariato, favorito allo scopo dall'intera forza organizzata dello stato liberale e dal gioco infame e disfattista dell'opportunismo socialdemocratico e legalitario, e si propose, in forza di ciò, come partito unitario borghese che sostituiva l'insieme parolaio dei partiti borghesi preesistenti.
La stessa risposta del fascismo si concretizzò, comunque, solo faticosamente in lunghi anni di travaglio, e, soprattutto, non arrivò mai a una pienezza e purezza realmente centralistica e centralizzatrice. D'altra parte il suo improvviso liquefarsi all'indomani -o prima?- del 25 luglio dimostra che la strada del partito-stato è, nei momenti decisivi, estremamente friabile sempre e sotto tutte le latitudini (v. per altri versi il destino del PCUS) quando cessano le condizioni per essere accompagnato e sorretto da un partito-movimento che renda l'interesse unitario della borghesia realmente "popolare", requisito imprescindibile sia per l'assalto al proletariato che per garantire la stabilità necessaria al potere borghese dittatoriale verso l'interno e nell'urto all'esterno con i concorrenti e con i "colorati" da sottomettere.
La sconfitta nella guerra mondiale -e sola essa- indusse la borghesia ad abbandonare il fascismo storico. Con essa si rispolverò anche l'antica ricerca del protettore esterno -la Germania per la RSI al Nord, gli anglo-americani o i russi per i ciellenisti- che si risolse con un nuovo salto sul carro del vincente, sia pur fuori tempo massimo e grazie, comunque, all'opera -svolta nell'interesse della controrivoluzione mondiale- di contenimento e di incanalamento delle istanze proletarie nell'alveo di pura "liberazione" anti-tedesca e "democratica", opera immensamente facilitata dall'ormai compiuto rinnegamento della rivoluzione socialista da parte dell'Internazionale stalinista e dei partiti suoi affiliati. Col che era data la garanzia, ai "protettori" dell'ovest e dell'est, del mantenimento dell'anello-Italia nel sistema capitalista.
Le rappresentanze politiche post-43 della classe dominante non disdegnarono di ereditare dal fascismo tutto quanto esso aveva contribuito a portare al capitalismo. Le forme di gestione politica ritornarono, però, a essere quelle del pre-fascismo, riproponendo, così, la questione che Mussolini aveva, nel ventennio, risolta col partito unico e lo stato forte. E la stessa questione ritorna a riproporsi oggi, aggravata dall'acuto rischio di declino dell'intero capitalismo imperialista italiano e dall'atmosfera -mefitica più che all'inizio secolo- di contrapposizione tra contenuto capitalistico sempre più dittatoriale (giustamente erede dell'opera del fascismo) e formalismo democratico. Nella contraddizione si dibattono, in modo diverso, tutte le forze sulla scena, sino al paradosso di un ex-MSI che sinceramente, con convinzione, risponde al compito "più dittatura" del capitale con un "più democrazia" formale.
Tutte le forze politiche in campo risentono, quindi, tuttora della configurazione che è venuto assumendo il "sistema politico" in Italia nel secondo dopoguerra: da un lato un movimento operaio forte abbastanza da rintuzzare offensive estreme dell'avversario e del tutto paralizzato, invece, sul fronte di una propria, ipotetica, offensiva rivoluzionaria (quand'anche fossero emersi "altri capi" a ciò predisposti per "coscienza e volontà"); dall'altro una borghesia abbastanza forte da poter gestire i frutti della ricostruzione, rilanciando il meccanismo dell'accumulazione all'interno e occupando all'esterno spazi significativi finché il mercato si espandeva "per tutti", ma non in grado né di centralizzarsi a sufficienza, superando i singoli appetiti ed egoismi parcellari, né -di conseguenza- di disciplinare "fino in fondo" l'avversario di classe, con cui ha preferito (lucrosamente) "convivere", pagando ben volentieri i debiti prezzi. Il lungo periodo di boom ha quasi istituzionalizzato quella situazione trasformandola in una sorta di consolidato modo di vivere, e consegnandoci come risultato uno smidollamento sul terreno politico tanto del proletariato che della borghesia.
Sulle possibilità di uscita da questa palude, pesa una differenza non di poco conto: la borghesia poggia, alla fin fine, su solide basi strutturali di potere economico-sociale, per cui il gap tra "realtà e rappresentazione", tra spinte oggettive e desiderio di proseguire innanzi con una sostanziale pace concordata o una limitata guerra di posizione, la richiama insistentemente a cercare una soluzione, la tira per i capelli verso la necessità di auto-disciplinarsi per meglio disciplinare il suo antagonista. Più tormentata è, invece, la strada nostra, quella di un ritorno del proletariato all'assunzione del suo compito storico rivoluzionario, dovendo abbandonare trincee e modalità di difesa predisposte in una lunga fase in cui è apparso credibile, con sforzo minimo, condizionare il capitale nel suo sviluppo fin tanto da non vederlo più come il nemico contro cui porsi a tutto campo e a ranghi serrati e centralizzati.
La controprova dell'analisi anzidetta è fornita dalla conflittualità interna al blocco vincitore delle ultime elezioni. Che non siano semplici questioni di potere personale non c'è bisogno su queste pagine di ribadirlo. Semplici questione di potere personale non erano nemmeno quelle del peggior CAF. Ogni forza politica interpreta a suo modo le necessità generali del capitale e nell'interpretarle risente della base sociale il cui consenso raccoglie, o, meglio, risente del particolare modo con cui i soggetti sociali di riferimento sono indotti ad affermare i propri bisogni piegando a essi quelli "generali".
La Lega rappresenta, in particolare, la piccola borghesia e i ceti medi del Nord Italia, che per primi hanno avvertito l'insufficienza del "sistema Italia" difronte alla crisi avanzante. La sua (loro) ricetta prescrive un liberismo totale in tema di mercato del lavoro, con la cancellazione del potere di condizionamento esterno e interno alle aziende da parte della classe operaia, e un "anti-statalismo" il cui fulcro non è la diminuzione del potere statale, ma uno spostamento di risorse dal lavoro (salario, assistenza, previdenza, Mezzogiorno, ecc.) al capitale, con un conseguente affrancamento dello stato dalle "pretese" proletarie e un suo completo assoggettamento alle necessità del capitale. Fin qui tutto collima con i programmi berlusconiani.
Gli attriti iniziano sul federalismo, di cui la Lega fornisce una versione a rischio di rottura dell'unità nazionale, non accettabile per il Cavaliere, e sulla questione del "grande capitale", della "grande industria", che la Lega colloca tra gli "assistiti" cui negare definitivamente aiuti e risorse. Il grande capitale italiano ha perso molte posizioni nel mercato mondiale, o le difende con notevoli difficoltà. Buona parte della piccola borghesia del Nord, che pure ha prosperato (e spesso vi deve persino la sua esistenza) sulla ricaduta del giro d'affari provocato dalla grande industria, rifiuta, oggi, di sottoporsi al contributo per rilanciarla, con la speranza di poter, magari, andare a beneficiare delle ricadute di "altri" grandi capitali.
Una sorta di resa preventiva, un ritrarsi dal tentativo di difendere gli interessi complessivi del capitale nazionale che, certo, non può piacere, né piace, a Berlusconi, al grande capitale e a quella parte degli stessi ceti medi che, infatti, votando Forza Italia ha inteso non decampare da quel ruolo nazionale.
L'entrata nel governo e la fuoriuscita di Miglio potranno contribuire a ridurre l'aspetto "secessionista" della Lega, ma favoriscono, per altro verso, il consolidarsi del suo ruolo a difesa dei "piccoli produttori" contro gli "interessi monopolistici" del grande capitale raccolto intorno a Berlusconi.
Alleanza Nazionale si colloca, quanto a questo specifico aspetto, sulla stessa scia di Forza Italia, ma non collima con i due alleati sul liberismo, accettato dagli esponenti non missini, ma rifiutato, più o meno decisiamente, dall'MSI. L'ostilità al liberismo e all'anti-statalismo traggono origine in due diverse motivazioni: l'una è diretta conseguenza del progetto -di origine mussoliniana- di "unità nazionale di tutte le classi" intorno a uno stato dai caratteri "sociali", con la significativa differenza che il duce la offrì alla classe operaia dopo averne distrutto ogni autonoma rappresentanza, i suoi moderni, più ambigui e inconseguenti, epigoni la propongono alla classe così com'è, con tutte le sue attuali forme di rappresentanza (pur mirando, comunque, a ridimensionarle, magari anche via referendum sull'art. 19 dello Statuto dei lavoratori...), che, certo, non sono paragonabili a quelle rivoluzionarie -e neanche alle riformiste!- degli anni '20, ma, nondimeno, sono tuttora -dal punto di vista del capitale- troppo suscettibili di raccogliere le spinte "autonome" di classe (er pecora ha dichiarato a l'Unità che il vero interlocutore della "sinistra" nel governo è AN, non Bossi!). L'altra, più particolaristica e corporativa motivazione è nel tipo di base sociale raccoltasi in AN soprattutto al Sud: quel ceto medio abituato a parassitare, talvolta anche arricchendosi, grazie al particolare uso dei trasferimenti statali operati dal regime democristiano e che, dinanzi al crollo della DC e all'emergere al Nord di una forza politica che metteva duramente in questione quell'andazzo, si è riversato in buona misura (l'altra, minore, ha scelto, con identica causale, i "progressisti") sul partito che sembrava meglio garantire, col suo statalismo, il rinnovarsi, foss'anche più dimesso, di quel meccanismo.
Identico ritardo le forze governative manifestano anche sull'altro aspetto che il fascismo, invece, risolse: quello di un partito non solo unitario, ma anche "di massa" e militante che affianchi l'azione anti-proletaria dello stato e che, in determinati momenti, la anticipi o sopperisca a essa.
L'appello berlusconiano a coalizzare uno schieramento votato a sostenere senza indugi gli interessi del capitale nazionale nello svolto che la crisi prepara, coll'annesso tentativo di superare la "vacuità" della "vecchia" politica borghese e il suo eccessivo indugiare a tendere la mano all'avversario di classe, raccoglie la voce profonda dell'oggettività borghese, ma non riesce, finora, a tramutarsi in partito militante e in azione "di massa", soprattutto perchè gli stessi soggetti sociali cui si riferisce si crogiolano, tuttora, nella melassa dei tempi andati: danno una delega più netta ai propri rinnovati capi, ma danno pur sempre una delega, evitandosi un più diretto e deciso ingresso nell'arena dello scontro, aspirando, perlopiù, a poter risolvere il tutto senza neanche ricorrervi, o senza che esso debordi dai limiti fin qui conosciuti negli anni del "consociativismo".
La Lega offre una risposta migliore sul versante della strutturazione militante, con un'organizzazione che aspira a essere partito pesante, univocamente e centralmente diretto, rifuggendo l'effimera moda dei circoli o dei club, ma il rifiuto di assumere in toto l'interesse nazionale del capitale pregiudica la possibilità dell'unità di classe borghese.
Alleanza Nazionale raccoglie l'una e l'altra esigenza (centralizzazione a pro del capitale nazionale e struttura militante al suo servizio), ma è impotente, conformandosi anch'essa al livello attuale dello scontro e a tutta la storia dell'MSI divenuto "democratico" ben prima di ogni ipotetica e pubblica abiura, a premere l'accelleratore in senso deciso per entrambi gli obiettivi.
Questa situazione, di renitenza all'assunzione coerente di tutte le responsabilità capitalistiche, è il prodotto non tanto dell'incapacità dei "capi", ma dell'attuale temperatura dello scontro sociale. Nulla di quanto avvenga oggi è paragonabile quanto a incandescenza dello scontro agli anni rossi (e, di conseguenza, per reazione, neri) del primo dopoguerra, nessun serio "pericolo proletario" induce la borghesia ad accantonare le sue diatribe e attrezzarsi a uno scontro decisivo. Al contrario, il pericolo è a tal punto assente che si può vedere un "populista" come Bossi entrare in contrasto con l'alleato e porgere un ramoscello d'ulivo all'avversario di "sinistra", posto che -in essa e con essa- il proletariato si dimostri impotente fisicamente e cerebralmente, e semmai disposto a diventarlo ancor di più, sacrificando i suoi ultimi guizzi di combattività sull'altare dell'accomodamento all'anti-berlusconismo leghista (non sono mancati a "sinistra" pesci, pur "importanti",che hanno abboccato, fin dal primo lancio, all'amo).
Il mescolarsi di queste risposte parziali non produce, all'immediato, il risultato di dare vita a una borghesia nazionalmente unita, ultracentralizzata, forte e aggressiva all'interno e all'esterno. Questa è la conclusione obbligata -e non solo in Italia- cui il capitalismo, nella fase ormai dell'acuta senescenza, abbisognerebbe come premessa per assumere il gerovital per prolungarsi l'esistenza, tramite un nuovo immane bagno di sangue a scala planetaria, con successiva riedizione di nuovi boom e nuova spartizione del mondo tra imperialismi vincitori.
Una conclusione, quella della concentrazione e centralizzazione del potere borghese, che mette, dialetticamente, in campo il rischio (per il marxismo, la certezza ugualmente obbligata) di analoga risposta di concentrazione e centralizzazione delle energie antagoniste del proletariato. Ma non per questo, per la borghesia, meno indispensabile.
All'oggi l'urgenza di quella conclusione prorompe d'ogni dove in modo incontrovertibile. La borghesia italiana (ancora, come negli anni '20, laboratorio politico per tutta la borghesia imperialista) comincia a imbastire delle prime risposte parziali. Al momento queste non sembrano convergere, però, verso l'unico fine, anzi confliggono tra loro senza risparmio di colpi.
Se Berlusconi rappresenta un corno del dilemma (centralizzazione delle forze politiche del capitale nazionale) e la Lega l'altro (strutturazione militante), ciascuno marcia dissociato dall'altro, quasi fossero su teste diverse, e con una reale frizione di interessi di riferimento che li porta ad acuire i contrasti piuttosto che a comporli.
Se la borghesia italiana non riuscisse a darsi una disciplina unitaria, ben difficilmente la marcia internazionale della crisi capitalistica, con l'esasperarsi della concorrenza imperialistica, le concederebbe una nuova chance; rischierebbero, più probabilmente, di affermarsi (al di là e oltre la volontà di questo o quel "capo") processi di ulteriore smembramento dei tessuti unitari, sin compreso quello "nazionale".
Sullo stesso proletariato quel contrasto che, per comodità, continuiamo a rappresentare con la coppia Berlusconi-Bossi, da possibile coadiuvante a muoversi per una battaglia in proprio verso la sua centralizzazione, rischia di trasformarsi in un ulteriore fattore di autoscompaginamento alla coda di un disegno borghese micro-territoriale. I segnali a proposito non sono soltanto gli abboccamenti agli ami anti-fascisti e anti-berlusconiani della Lega, ma anche quel continuo espandersi della ricerca attorno al federalismo "di sinistra" nel Pds (soprattutto, non a caso, in Lombardia e in Emilia Romagna), ma anche in Rifondazione (sia pur nella veste di "regionalismo", tanto per non allontanarsi troppo dai sacri dettati costituzionali!) e, non ultima per impegno e proposte, nella Cgil.
Una soluzione alla jugoslava non è, insomma, da escludere dai possibili scenari, non tanto come consapevole progetto di qualche "capo", quanto come prodotto dell'ineluttabilità di spinte oggettive nel caso la borghesia non riuscisse a ricompattarsi, e nel caso lo stesso proletariato cedesse alla sensazione di un'ormai irreparabile sconfitta e ai conseguenti impulsi a riversare la sua residua combattività in ambiti territoriali più ristretti, se non unicamente in ambiti aziendali.
Non per fregole divinatorie ci interessa ricordarne l'eventualità, ma unicamente per avvertire sulle conseguenze micidiali che avrebbe sul proletariato, e per combattere a tempo quell'abbassarsi di scudi innanzi al federalismo -magari per la via di allearsi con Bossi contro il "nemico principale" Berlusconi- che si avverte anche in campo operaio.
Una frammentazione alla jugoslava renderebbe molto più difficile la centralizzazione proletaria, ma neppure consentirebbe ad alcuna sezione territoriale della classe operaia una migliore difesa né delle condizioni di vita, né delle forme di rappresentanza sindacale e politica. Al contrario -e tutte le repubbliche sorte dalle ceneri della Jugoslavia lo dimostrano- le frazioni di borghesie micro-nazionali prodotte dalla spartizione, se pur rinculate dal terreno della propria unitarietà nazionale anche per tema di affrontare lo scontro col proletariato su quella scala, fanno di regola corrispondere un massimo di centralizzazione dittatoriale sulla sottoquota di proletariato schiavizzato.
Né va dimenticato che all'apparente tendenza borghese a rifuggire alla centralizzazione su base nazionale, consegue inevitabilmente quella a ri-centralizzarsi attorno a un "altro" capitale più forte (putacaso, per l'Italia, tedesco o americano). Più forte anche nei confronti del proletariato.
Pur con notevoli difficoltà la borghesia sta riuscendo ad andare avanti verso la sua maggiore centralizzazione politica e, insieme, verso la "popolarizzazione" del proprio stato. Le contraddizioni nelle quali essa si dibatte non debbono costituire, da parte proletaria, un alibi per rimandare oltre la presa d'atto del -persin maggiore- proprio ritardo su quello stesso e obbligato percorso, e, anzi, dei pericoli di depotenziamento e disgregazione del proprio schieramento. Una fase nuova si è aperta nello scontro tra le classi, è decisivo che la parte più cosciente della classe operaia, a partire dai militanti operai del Pds e del Prc, si misuri con essa senza sognare inattuabili ritorni all'indietro, ma, cominciando a fare un serio bilancio degli errori e dei limiti della fase trascorsa, per non ritrovarseli tra i piedi nei decisivi svolti a venire.
La classe operaia ha colto con delusione il risultato elettorale. Una delusione non giunta, forse, al grado di sbandamento che ha colpito i capi (Occhetto che flirta con Bossi, Bertinotti che accredita su l'indipendente del 4.5 la Cisnal!), ma che, pure, potrebbe pesare negativamente nell'approntare le necessarie risposte di lotta, se non emerge un quadro di riferimento che collochi quella sconfitta elettorale nelle giuste coordinate e fornisca dei presupposti solidi alla ripresa dello scontro. Complessivamente la sua capacità di mobilitazione e lotta rimane sostanzialmente intatta, e ha fatto, da ultimo, capolino nelle manifestazioni del 1° maggio, più che in quelle -molto interclassiste anche per partecipazione- del 25 aprile, ma come queste, però, tutte indirizzate alla "difesa della democrazia e della costituzione".
Questo capitale, pur ancora solidamente vivo, non è garantito in perpetuo, tanto meno si autovalorizza congelandolo in banca. E' quanto mostrano, invece, di credere quei "progressiti" convinti di poter conservare in modo stabile sul piano elettorale lo "zoccolo duro" operaio e di dover, solo, accelerare e ottimizzare, dopo il 28 marzo, la rincorsa al centro, tenendo ancor più buoni e calmi gli operai. Questa soluzione sarebbe per il proletariato suicida. Se mai, per sciagura, si avverasse, l'aggressività capitalista avrebbe possibilità di esprimersi senza più alcun freno.
Un altro sicuro modo per svalorizzare quel capitale sarebbe quello di metterlo al servizio della "difesa della democrazia", trincea pericolosissima in quanto ripropone un ritorno a un "tranquillo" modus vivendi con tutte le altre classi, le quali, per parte loro, l'hanno già rinnegato e si preparano a travolgerlo completamente sotto una maggiore aggressione al proletariato, condotta con i democraticissimi metodi delle maggioranze parlamentari e dei governi legittimati dalle urne.
Non meno pericolosa sarebbe la pretesa "tattica" di "disarticolare il blocco avverso" magari flirtando con Bossi contro Berlusconi. Per strappare il primo all'abbraccio col secondo bisognerebbe fargli delle concessioni sul terreno più importante per la tenuta del proletariato, quello della sua unità.
Non, quindi, abbandono o ridimensionamento, ma maggior ricorso allo strumento della lotta, è la consegna che, anche il risultato elettorale, impone al proletariato. Una lotta a strenua difesa di tutte le "conquiste" che il nuovo governo prenderà di mira e che, per perseguire realmente l'obiettivo, ricorra al massimo di unità e di centralizzazione della forza operaia.
Ma, può la classe operaia pensare di mettere in campo una efficace lotta di difesa continuando a conservare il tabù dell' "economia nazionale"? Continuando a non vedere come quel tabù sia all'origine dei tanti cedimenti sottoscritti dalle direzioni riformiste e della spirale di arretramenti di cui oggi si raccolgono, anche sul piano elettorale, i frutti avvelenati? Una lotta di difesa che si portasse ancora dietro quel condizionamento si rivelerebbe, ben presto, insufficiente e illusoria. Tra i "progressisti" e nei vertici sindacali appare già chi, pur invocando un'opposizione "dura", avverte che si dovrà tener conto della necessità di "modernizzare" le aziende e l'intero "sistema Italia", per concludere di tenersi pronti a ulteriori concessioni...
E non è forse giunto anche il momento di chiedersi se la politica estera perseguita dai vari governi sia davvero nell'interesse di tutte le classi? Se sia interesse del proletariato appoggiare (o -come spesso a "sinistra"- addirittura propugnare) l'interventismo -anche armato- e la rapina imperialista del "nostro" capitalismo e dell'Occidente tutto in Jugoslavia, in Somalia, nel mondo intero? O non è piuttosto interesse del proletariato vedere nelle masse sottoposte a quella rapina dei potenziali e -una volta coalizzati insieme- potentissimi alleati contro il comune nemico?
In ultimo, ma non certo per importanza, se è sacrosanto battersi contro ogni tentativo di cancellare le attuali organizzazioni "operaie" sia quando provenga dall'esterno, che quando nasca dal loro stesso seno (come l'ipotesi di "superare" il Pds con un "partito democratico" o omologare sempre più la Cgil alla Cisl e alla Uil), a maggior ragione bisogna cominciare a riflettere se queste organizzazioni costituiscano gli strumenti migliori per il proletariato per affrontare un attacco sempre più chiaramente a tutto campo e di classe nel senso pieno della parola. Parimenti dovrebbero i compagni di Rifondazione chiedersi se rappresenta una risposta credibile a quella domanda un partito come il loro, che pur invocando il ricorso all'opposizione di piazza non riesce a trovar nulla di meglio che un orizzonte di ...difesa della costituzione.
Per la classe operaia comincia a diventare essenziale liberarsi di tutti quei tabù, che l'hanno finora ingabbiata e immobilizzata, o, nel migliore dei casi, costretta a compromessi in cui la propria quota di cedimenti era incommensurabilmente maggiore a quella -se mai c'era- dell'avversario.
E' tutto il quadro di riferimento riformista delineatosi nel corso di decenni che va rimesso in causa. Non sarà facile; i risultati concreti offerti dal riformismo alle masse agiscono ancora come una zavorra. E', però, importante che questo processo cominci ad avere primi congrui inizi.
La sconfitta elettorale di marzo apre una fase di transizione le cui battaglie decisive sono tutte davanti a noi. Per quanto difficile sia la risalita, e lo è veramente, la riscossa della classe operaia, del proletariato internazionale, del comunismo, è cosa certa!