Speciale Russia
Contro El'tzin, certo! Ma per un nuovo Ottobre internazionale
Resta, a questo punto, da fare un discorsetto sul decorso economico russo sotto El'tzin.
S'è detto già della favola di una presunta contrapposizione tra pro-capitalisti e pro-"socialisti" nell'abito delle forze di potere, tutte -e ciascuna "a suo modo"- vincolate alle esigenze di una ristrutturazione capitalistica concordemente sentita come irrinunciabile ed indilazionabile.
E allora: sotto questo unitario profilo di riferimento, in che direzione muovono El'tzin ed i circoli dirigenti che stanno con lui od attorno a lui?
Altra favoletta sciocca: costoro sarebbero i rappresentanti puri e semplici della svendita della Russia al capitale straniero, dell'accaparramento delle "residue" sue ricchezze a scopi di arricchimento personale, di combutta con mafie d'ogni tipo e nazionalità (italiana non esclusa); insomma: dello "svuotamento" economico (e sociale, di conseguenza) della Russia. Sicché, questa banda di malfattori, non si sa come usciti da un qualche stregato cilindro, sarebbe intenta a distruggere non solo gli assetti precedenti del paese (quelli presuntemente "proletari" o "post-capitalisti"), ma la stessa possibilità di apparizione e consolidamento, sulle sue ceneri, di una borghesia russa.
Ma stanno veramente così le cose?
Rimandando ad un più dettagliato esame della questione, per la quale dovremo trovare gli spazi opportuni, ci limitiamo per intanto a suggerire alcuni elementi che smentiscono una tale tesi.
E' senz'altro vero che nell'ex-URSS si sta registrando una disordinata caduta della produzione assieme ad un drastico peggioramento delle condizioni di vita delle più vaste masse, così com'è vero che imperversano i fenomeni di arricchimento speculativo (con esportazione di capitali "personali" all'estero), di delinquenza, di dissipazione dell'apparato produttivo etc. etc. Non ci occorre davvero chiudere gli occhi su questi fenomeni, perfettamente connaturati -e qui sta il punto!- ai processi di formazione di un vero e proprio personale borghese: nell'albero genealogico del moderno imprenditore capitalista il capostipite è sempre un pirata, e basti rileggersi quanto scrive Marx sulle origini del capitalismo. Si dirà, e giustamente: ma qui non siamo alle origini del capitalismo. Esattissimo. Qui, in Russia, siamo ad una sua età matura, in cui un capitale sociale è già stato costruito sotto l'egida della "proprietà statale" precedente.
Oggi si sta passando all'arrembaggio di esso da parte di proprietari privati (cioè di una classe fisica di borghesi che, per storiche ragioni più volte da noi chiarite, è stata covata dal precedente tipo di gestione capitalistica "anonima", ma per le stesse ragioni, stenta a decollare in quanto tale) con l'aggravante che a tale arrembaggio partecipano, da ben altre posizioni di forza, le attrezzatissime potenze del capitale finanziario internazionale (contro il cui assalto, in tutta evidenza, lo stalinismo non aveva potuto opporre alcuna "cortina di ferro"). Tanto basta a spiegare i fenomeni sopraddetti, dalla spoliatrice "manomissione straniera" all'emergere di settori "nazionali" di borghesia compradora giù giù, sino ai più disgustosi aspetti di rapina e mafia a scopo di arricchimento personale alle spese, puramente e semplicemente, dell'apparato produttivo sociale.
Il problema è: ma davvero saranno questi ultimi fenomeni a contrassegnare il futuro capitalistico della Russia? A questa domanda abbiamo già risposto negativamente in passato. Ripetiamoci brevemente.
Se la "costruzione del socialismo in un solo paese" non ha prodotto un contro-modello capace di far da sbarramento al capitalismo, ed anzi vi ha spalancato le porte (all'interno ed all'esterno), così che la pretesa "difesa delle basi economico-sociali post-capitaliste" si è dimostrata di fatto insostenibile da qualsiasi parte la si rigiri, è anche vero che in URSS si è dato luogo, con lo stalinismo, ad un colosso produttivo, ad un capitalismo fondato su moderne basi strutturali. Non siamo al Terzo Mondo. Ed è per questa semplicissima ragione che noi prevediamo che dalla sua "ristrutturazione", per quanto accidentata e penosa possa risultare per tutta una lunga fase, dovrà emergere alla distanza una borghesia all'altezza delle basi su cui potenzialmente poggia. E', insomma, possibile sì il perdurare e l'aggravarsi, anche, dei fattori di rapina da parte del capitale occidentale sulla base dello "sviluppo combinato e diseguale" proprio dell'"economia mondializzata" imperialista e del supporto ad essa da parte di strati di borghesia compradora locale; ma è esclusa una pura e semplice colonizzazione del paese.
I comportamenti delle classi dirigenti (economico-sociali epperciò politiche) stanno in relazione con la solidità o meno delle basi su cui riposano e non su arbitrarie e perfide "propensioni individuali". E le basi del capitalismo russo sono tali da dover esprimere qualcosa di qualitativamente diverso da un'accozzaglia di ladri "in proprio".
(Si noti bene: dicendo questo, proprio noi valorizziamo per quel che merita e nel giusto senso i risultati del post-Ottobre sfigurato e tradito rispetto al socialismo, ma non dappoco sul piano capitalistico, laddove invece certi fedelissimi "duri e puri" -stalinisti o "trotzkisti" indifferentemente- non si accorgono, cianciando di "svendita" e "smantellamento" del lascito economico precedente, di ridurre quest'ultimo ad una così ben poca cosa da non poter che finire così malamente in mano a pochi rapaci inspiegabilmente non contrastati da alcuna azione di massa: se né borghesia né proletariato hanno potuto germogliare sulla base del passato sistema, ciò dovrebbe portare alla semplice conclusione che proprio quel terreno era di per sé improduttivo...)
Orbene, è una storiella da poco che attualmente in Russia si stia solo dismettendo di produrre, con quel che segue. Accanto alle "manovre speculative" di carattere finanziario non connesse ai fattori produttivi, resta il fatto che esiste e si va estendendo ed organizzando oggi in Russia un "ceto" imprenditoriale (ed, ovvio, un "ceto" finanziario ad esso correlato) che trova, ad esempio, una sua autorevole voce nella "stanza dei bottoni" nell'Unione degli Industriali (la quale raggruppa 1500 imprese che controllano il 72% della produzione) (1). Sarebbe da vedere sino a qual punto la stessa caduta produttiva significhi un semplice marasma generalizzato e non s'intrecci, invece, con fenomeni (certamente aggrovigliati e tuttora parziali) di ristrutturazione produttiva con un più deciso orientamento verso il mercato, il profitto, e il conseguente taglio dei "rami secchi". Così come sarebbe da studiare sino a qual punto pesi sugli indici economici ufficiali la non contabilizzazione di un sempre più esteso "sommerso".
Questi "ceti" chiedono ad El'tzin una cosa assai "semplice": che la transizione si possa affermare attraverso un ben dosato intervento statale (trasferimenti finanziari verso l'incentivazione al mercato, beninteso, e non "sovvenzioni" a pioggia al parassitismo assistenzialistico, come avrebbero preferito gli oppositori parlamentari). Ed El'tzin ha già risposto ad essi dichiarando esplicitamente che l'economia di mercato "presuppone il controllo statale, dico: statale, e ripeto: statale". Anche i "liberisti selvaggi" del suo staff, noi crediamo, ne terranno concretamente conto.
Del resto, la stessa struttura della "privatizzazione" in atto articola su almeno tre direttrici concorrenti a questo risultato: conservazione di un forte settore statale ("agente sul mercato"), un ampio settore a proprietà mista (cooperative "autogestite", proprietà aziendale, un mix di partecipazione statale etc.) ed un restante settore a proprietà esclusivamente privata (società per azioni o direttamente "personale", ma solo in ridottissimi casi). (Da notare come la "compartecipazione operaia" all'azionariato stia dando i suoi frutti in termini di coinvolgimento dei lavoratori nella "ristrutturazione" delle aziende di cui nominalmente sarebbero "comproprietari"; il che sta a significare che esiste una base produttiva "dinamica" cui, in certi casi, si possono vincolare le aspettative operaie -sappiamo bene, non si pretenda d'insegnarcelo!, a quale prezzo e con quali esiti finali).
La stessa strada, presumibilmente, si avrà nelle campagne, dove è in atto un cruciale tentativo di arrivare ad una privatizzazione poliforme e guidata dallo Stato.
Cioè: non si tratterà di assegnare ad ogni singolo contadino un suo pezzetto di terra, e buonanotte (così come non si consegna ai singoli lavoratori dell'industria il loro pezzetto di fabbrica), ma di incentivare la creazione di moderne aziende agricole pronte a competere sul mercato e per il cui sorgere è necessario un sostegno da parte dello stato. Può trattarsi anche qui delle vecchie forme nominali -kolkhoz e sovkhoz- purché ridisegnate "liberisticamente" da cima a fondo, di nuove forme societarie, di imprese private dalla a alla zeta.
Se su questa strada El'tzin saprà andare avanti (e non sarà facile...), potremo essergliene persino grati. L'agricoltura "collettivizzata" sovietica si è, infatti, configurata sin qui, come il maggior elemento di intralcio allo stesso sviluppo capitalistico e, più ancora, al definirsi netto dei fronti sociali di classe. L'ipertrofico contadiname sovietico (con una quota d'occupazione percentuale da Terzo Mondo!) ha potuto succhiare liberamente dal "fondo sociale" assolvendo a quote "pianificate" di produzione ridicole in cambio di un "reddito" garantito, col che ha affamato le città proletarie ed intralciato lo sviluppo industriale. Di più: "abolita per legge" la figura del classico proprietario individuale (kulak e piccolo-medio "padroncino"), il contadino sovietico riassumeva in sé, in una mostruosa combinazione, l'aspetto del "puro salariato", del "cooperatore" e del micro-produttore indipendente (dai cui orticelli, in quanto destinati al libero mercato, usciva 1/3 della produzione globale, il che è tutto dire).
In assenza di un'immediata possibilità di soluzione socialista del problema della campagna, la diffusione di normali rapporti capitalistici rilancerebbe la produzione mercantile di beni alimentari necessaria allo sviluppo industriale e, con la formazione, ai due opposti poli, di una moderna classe proletaria e di un bracciantato salariato della lotta di classe nelle campagne. L'immobilismo agrario sotto falsa veste "collettiva" verrebbe finalmente ad essere spezzato.
(Recenti dati statistici danno, significativamente, la produzione agricola in ripresa, segno evidente che si sta passando da una prima fase "speculativa" di offerta scarsa sul mercato contro prezzi crescenti ad una seconda fase in cui il controllo del mercato dipende, in prospettiva, da un'offerta abbondante a prezzi competitivi. Diciamo, si badi, "in prospettiva", perché si tratta di una linea di tendenza e non di una realtà già bell'e pronta, per ovvie ragioni).
Una digressione. Per dimostrarci che la "difesa delle acquisizioni di Ottobre" tiene, la rivista del gruppo"trotzkista" Lutte Ouvrière ("Lutte de Classe", ottobre-novembre '93), ci ammestra: "Sono spesso i dirigenti dei kolkhoz o dei loro alleati dell'amministrazione locale che promuovono tentativi violenti per scoraggiare le "imprese individuali"". Ma benissimo! La più mostruosa alleanza delle forze reazionarie che pesano, insieme, su campagna e città quale forza della stagnazione, del parassitismo, della melma sociale, è allegramente promossa a tutrice di "ciò che resta dell'Ottobre" e resiste alla "restaurazione del capitalismo"! Ebbene: se questo "ottobre" (nero) non possiamo spazzarlo via noi, ben venga la ramazza el'tziniana, ammesso che possa assolvere felicemente al suo compito!
Altro punto. Si imputa ad El'tzin di aver accettato o promosso la disintegrazione dell'URSS. Di vero, in questo, c'è solo che il collante che teneva insieme le varie repubbliche "sovietiche" non valeva, evidentemente, un fico secco, perché, ove si fosse precedentemente data un'integrazione delle rispettive economie e società "nazionali" nessun passo verso la disintegrazione sarebbe stato ipotizzabile in quanto contrario agli interessi della classe dirigente (vale tanto nell'ipotesi "socialista" che in quella capitalista) a ciò rispondente.
Solo che El'tzin e i suoi, passando dall'URSS alla CSI, non hanno mai pensato ad una Russia isolazionista, autarchica, ma ad una Russia pronta a giovarsi del proprio potenziale produttivo (e, un domani, finanziario) per ritessere un'opportuna trama sul tracciato della vecchia URSS, con una Russia protesa verso la riconquista del "mercato ex-sovietico" secondo i classici schemi della "cooperazione combinata e diseguale". Una prospettiva, quindi, ricentralizzatrice classicamente capitalista.
E, anche qui, notiamo che proprio coloro che han pianto calde lacrime sulla fine dell'URSS oggi montano "contro El'tzin" sul cavallo del rivendicazionismo locale, giustificando e cercando di alimentare le spinte secessioniste all'interno della stessa Russia. Rutzkoj e Khazbulatov marciavano nella stessa direzione: contro il centro sovrano dovevano prevalere gli interessi della camarille locali, regionali o "nazionali". Con quali bei risultati si può facilmente immaginare. Anche sotto questo aspetto, è bene che il capitalismo vada avanti per la sua strada senza intralci reazionari di natura sotto-borghese (e col solo intralcio invece, aggiungiamolo subito, di una risposta unitaria del proletariato a scala di tutta la Russia, della CSI e dell'insieme dell'area eventualmente sottoposta al predominio russo).
L'avvenuta resa dei conti con l'opposizione parlamentare sta già portando, di fatto, non solo ad un recupero dei poteri centrali in Russia, ma ad una ripresa d'iniziativa nei confronti degli altri paesi della CSI (a tutto vantaggio, chiaramente, di Mosca, che sta ridefinendo le "ragioni di scambio" con essi, superando le deroghe alle leggi di mercato cui la costringeva la paralisi decisionale interna). Per le stesse ragioni, si può prevedere una minor incertezza da parte degli investitori esteri in Russia ed, insieme, la possibilità per El'tzin di non farsi strozzare incondizionatamente da essi, come si rendeva in qualche modo necessario nella situazione precedente. Ne sono un segno le limitazioni imposte ai giochi speculativi più sfacciati delle banche occidentali ed il ribadito rifiuto di cedere proprietà e poteri sulle aziende russe più appetitose alle holding straniere. Corvo sì, ma non in gabbia, perché la Russia non si può semplicemente vendere e svendere per ragioni strutturali che stanno al di sopra di qualsiasi gruppo politico dirigente e ad esso dettano le regole di comportamento.
Questi rapidissimi elementi di riflessione non vogliono significare che per El'tzin la strada si presenti in discesa. Ed anche se così fosse (come invece non è) men che mai vorrebbe dire tessere le lodi delle "magnifiche sorti e progressive" del capitalismo russo, perché l'eventuale suo affermarsi in forze recherebbe su di sé le stimmate dell'imperialismo putrescente, del suo parassitismo sociale (in parte vissuto sulla propria pelle a favore delle più forti concentrazioni metropolitane occidentali, in parte fatto scontare di rimando ai paesi dell'area ad essa sottoposta) ed, anche nella migliore ipotesi -per esso- peserebbe come un macigno sul proletariato e le masse popolari.
Ma è importante, però, rifuggendo da ogni tentazione consolatoria con gli occhi rivolti all'indietro, primo: che la borghesia russa (e quella mondiale, che la sovrasta) non è una barzelletta; secondo: che delle barzellette (gelide...) sono i tentativi di infrenarne il cammino restando sul suo stesso terreno, solo un pò più soft.
Il proletariato russo (e mondiale) deve accettare la sfida che gli è posta per quel che essa effettivamente è. "Accompagnando" il corso del capitalismo russo rafforzando sul campo di battaglia le proprie autonome posizioni, teorico-programmatiche, politiche, organizzative. Facendo a meno di sciagurate compagnie all'Anpilov od alla Andreevna, per non dire dei "patrioti" nostalgici di un impero slavofilo con al suo vertice nobilastri e pretame.
Contro El'tzin? Certamente. Ma contro di esso sul serio. Sotto le bandiere di un vero partito comunista, per un nuovo Ottobre internazionale.
Poco "concreto"? Roba da "grilli parlanti"? Cari pinocchi, godetevi pure il vostro "paese dei balocchi", ma, ogni tanto, datevi un'occhiata alle orecchie...
Note
(1) Le imprese private contavano nel '93 il 54%
delle piccole aziende e 2291 oltre 200 salariati (per un totale -solo in queste ultime- di
3 milioni di salariati).
Può pensarsi che si dedichino solo a vendita e rapina? Nel settore "privato"
(in senso largo) sono già impiegati 17.7 milioni di lavoratori (su un totale di 72.5
milioni).