Speciale Russia

I LUPI BORGHESI SI AZZANNANO TRA LORO
PER L'OSSO PROLETARIO

Indice


Sugli avvenimenti di ottobre in Russia non ci dilunghiamo in cronache. Non c'interessa dimostrare quanto El'tzin sia un bandito borghese. Lo sappiamo da tempo. Non lo scopriamo ora, dinanzi alla "violata democrazia" (tra borghesi). C'interessa, invece, svolgere i nodi teorici che questi fatti richiamano. Teorici, cioè essenzialmente pratici.


Gli avvenimenti ottobrini di Mosca non sono di quelli destinati a rimanere senza un seguito, senza delle conseguenze sul futuro del paese, e del mondo, anche se, cessato l'effetto-colore degli spari e del sangue (concime della CNN e delle sue affiliate internazionali), sembra già essersene spenta l'eco nell'"opinione pubblica".

E' necessario perciò ragionarci sopra un poco "a freddo", sviluppando qui in maniera un tantino articolata i temi che noi, come organizzazione, abbiamo avanzato subito, "a caldo".

Per cominciare. E' evidente che lo scontro tra El'tzin e parlamento è un episodio, e tutt'altro che secondario, del più generale scontro di classe che va squassando da anni l'ex-URSS. Uno scontro che ha per oggetto il potere economico-sociale e politico e, quindi, riguarda davvicino il proletariato (non solo russo, ripetiamolo sino alla nausea).

Quello che appare meno evidente è il ruolo dei "soggetti" che hanno o non hanno preso direttamente parte alla battaglia d'ottobre, il loro rapporto con lo scontro decisivo che sta al fondo, quello tra capitalismo e socialismo, borghesia e proletariato.

Chi ci segue non può avere alcun dubbio sul fatto che, in quanto comunisti rivoluzionari, siamo schierati al cento e un per cento -e da sempre- contro ciò di cui è rappresentante e portatore El'tzin, allo stesso modo in cui lo siamo stati in modo insospettabile rispetto a quel Gorbacev da cui El'tzin ha rilevato il testimonio in maniera del tutto naturale e conseguente.

Non occorrerebbe neppure ricordarlo, ma tant'è: a battere la grancassa del più immacolato anti-el'tzinismo posson scendere in piazza oggi proprio alcuni di quelli che ieri ce l'avevano magnificato come portavoce della "volontà popolare" e di quella immacolata "rivoluzione democratica" super partes sociali che si sarebbe andata con lui attuando in URSS (rileggere, per credere, "Bandiera Rossa" degli anni scorsi e, peggio, il Gran Maestro Mandel del Segretariato Unificato della IV^ Internazionale), e, magari, proprio questi signori saranno pronti ad additarci come troppo tiepidi (proprio noi!) nella lotta contro la "dittatura" el'tziniana.

Tre domandine per non perdere la bussola

Prima di addentrarci nella polemica con l'insieme -pressoché totale- della "sinistra" nostrana ed internazionale, peggio ancora se a tinte "rivoluzionarie", anticipiamo subito gli assi della nostra posizione riguardo ai fatti di ottobre, non mancando di sottolineare energicamente che essi vanno riportati ad una visione globale del "caso sovietico" e del corso generale dello scontro internazionale di classe borghesia-proletariato, senza di che inevitabilmente si scade in un impressionismo cronachistico buono a tutti gli usi, meno uno: quello del socialismo.

E dunque. Primo: senza alcuna necessità di equiparare in astratto le truppe di El'tzin e quelle di Rutzkoj-Khazbulatov, diciamo che il contrasto tra esse non aveva e non ha nulla a che fare con una qualche propensione delle seconde verso il proletariato e neppure con una qualche "oggettiva utilità" da parte di quest'ultimo di mettersi -in nessuna maniera- al fianco, dietro od alla testa di esse. Entrambe erano e sono del tutto ed esclusivamente antiproletarie, entrambe si meritano da parte del proletariato solo odio e lotta frontale.

Secondo: questo non significa (ci scapperebbe un "ovviamente") che il proletariato debba o possa prendere una posizione di "indifferenza" rispetto allo scontro tra queste due frazioni ad esso avverse, per la semplicissima ragione che nessuno scontro inter-borghese può essere "indifferente" al proletariato, in quanto ognuno di questi scontri si gioca proprio in rapporto ad esso, ha per posta una risistemazione interna dei rapporti di potere che ha il proletariato per oggetto e, perciò, direttamente ne chiama in causa gli interessi. La questione delle questioni è: a quali condizioni il proletariato può agire da forza autonoma prima ancora che si ponga immediatamente il problema del proprio assalto al potere.

Terzo: è un dato di fatto che le grandi masse lavoratrici di Mosca, per non parlare dell'insieme della Russia, si sono in quest'occasione tenute fuori dalla mischia. Sulle ragioni di ciò occorre seriamente interrogarsi, perché se è chiaro che queste masse non si sono appassionate per la causa di nessuno dei due contendenti, non si sono tuttavia mostrate capaci di una propria azione autonoma di classe.

La "sinistra" può preoccuparsi di questo secondo aspetto per recriminare sull'"occasione persa" per la... democrazia o al massimo rimpiangere che le "forze di opposizione" russe abbiano agito con qualche leggerezza prima di assicurarsi un congruo allargamento del "fronte" alle masse stesse. Da un angolo visuale completamente opposto anche noi ce ne preoccupiamo in quanto manifestazione di una difficoltà ed un ritardo del programma e dell'organizzazione comunisti che sin qui impedisce al proletariato -che pur ne avrebbe tutte le ragioni e tutta la forza sufficienti- ad entrare nell'agone in quanto classe per sé.

Delle nostre analisi precedenti, è certamente la variante previsionale più pessimistica quella che si è sin qui avverata. Non è un buon motivo per cambiare registro: il proletariato non solo non è cancellato dalla scena, ma, in qualche modo, sarà costretto ad entrarvi in futuro tanto più in quanto nell'avverso fronte borghese si è (relativamente) fatta piazza pulita della tendenza alle mezze misure ed al "compromesso". Il futuro potrà esser gravido di sconvolgenti ed "inattese" sorprese. Registriamo che su questa strada il cammino potrà essere anche più lungo e difficoltoso di quanto potevamo immaginarcelo, od augurarcelo. L'essenziale è sempre e comunque saperlo antivedere nei suoi contorni reali e lavorare per esso. E su questo non abbiamo da cambiare una virgola di quanto scritto in precedenza.

Veniamo ora a queste tre questioni nel dettaglio.

Da Gorbacev a El'tzin: il coerente percorso capitalista della perestrojka

Da quando Gorbacev lanciò la perestrojka avvertimmo che si trattava dell'atto primo di una seconda fase dello sviluppo capitalistico in URSS che avrebbe, coi suoi necessari processi di ristrutturazione sulla via dell'intensifikacija, comportato un duro attacco alle posizioni "acquisite" del proletariato sovietico. Erano gli anni, non dimentichiamocelo, in cui Occhetto si metteva dalla parte della perestrojka per trarne la conclusione del fallimento del "socialismo reale", e del socialismo tout court, ed in cui Cossutta ne inferiva che il "socialismo" sapeva invece rinnovarsi "coniugandosi" con la democrazia (posizione analoga a quella sostenuta dai terribili "trotzkisti") ed a giuste dosi di mercato. Di queste due posizioni denunciavamo la seconda come quella più mistificatrice e pericolosa in quanto essa accreditava un processo di "ristrutturazione" capitalistica come una bandiera da sostenere, in nome di una nozione di democrazia al di sopra delle classi destinata inevitabilmente a lasciare il passo ad una dittatura aperta del capitale (con un proletariato portato a misurarsi con essa, alla fine di un ciclo, dopo aver sacrificato all'inganno democratico delle prime fasi della perestrojka le proprie forze).

Il cosiddetto "golpe" dell'agosto '91 doveva offrire la prima dimostrazione del fatto che tutte le strutture del potere erano schierate per la perestrojka capitalistica, ma s'imponeva drammaticamente ad esse, per attuarla, un compito di centralizzazione (assai poco compatibile con gli astratti sogni di "democrazia") sulla base di un pugno di ferro capace di tener sotto controllo i mille e mille discordanti appetiti delle più disparate frazioni borghesi e sotto-borghesi e, tanto più, l'ipoteca di un proletariato inevitabilmente scosso nel suo status precedente dagli sviluppi della "riforma" e rispetto al quale non potevano assolutamente fare da antemurale gli sviluppi "spontanei" di una diffusione alla base dei processi di privatizzazione e mercantilizzazione. Il progetto di Janaev era su questa lunghezza d'onda. Intitolammo allora sul nostro giornale: "Perestrojka e golpe: antitesi o complementarità?", chiarendo perché era vera la seconda ipotesi.

Il "capolavoro" di El'tzin fu allora di sapersi liberare dei "golpisti", e con essi di un ormai inservibile Gorbacev, concentrando nelle proprie mani il potere in maniera certamente più dispotica, nella sostanza, che non quella degli avversari col vantaggio di poterlo fare in nome della democrazia per portare avanti con maggior decisione il programma di "riforme" che Janaev e i suoi s'erano immaginati di svolgere in maniera -insieme- autoritaria e gradualistica. Tutto perfetto, salvo il fatto che l'attuazione "sino in fondo" del programma della perestrojka non si può fare a colpi di semplici decreti e super-poteri istituzionali, che pur possono fungere da "forza economica concentrata", ma abbisognano di processi di trasformazione reale nella società, di strutture economiche reali la cui costituzione rappresenta in Russia, per ben noti storici motivi, una difficoltà al limite del sovrumano.

Dicevamo nel n° 22 (novembre-dicembre '91) del nostro giornale: "Possiamo tranquillamente enunciare questa previsione: neppure chi ha prelevato da Gorbacev il secondo tempo della perestrojka sarà quegli che la porterà a termine. La situazione attuale è del tutto transitoria, sia dal punto di vista economico-sociale che da quello politico. Fallito ingloriosamente il "golpe" di Janaev, non basterà quello di El'tzin a chiudere la faccenda. Il "soggetto di potere" (..) è ancora in incubazione. Il suo manifestarsi, in necessarie forme autoritarie, ha ancora da venire". Non ci pare di esserci sbagliati.

Il dopo-"golpe": liberismo e, insieme, un più forte ruolo dirigente dello stat>

Contro i "golpisti" El'tzin aveva potuto conseguire una facile vittoria proprio perché, paradossalmente, l'"attentato alla democrazia" da essi messo in atto aveva provocato la ribellione dei mille appetiti "indipendenti" di cui sopra e non aveva affatto commosso il proletariato. Proprio gli attuali Rutzkoj e Khazbulatov furono, nell'occasione, tra i suoi migliori alleati. Ma la loro illusione di poter servirsi dell'"antigolpista" El'tzin per poter meglio tutelare la sterminata rete di privati interessi di bottega di cui erano portatori doveva ben presto rivelarsi calcolo suicida, e lo si è ben visto due anni dopo.

Il "dopo-golpe" si apriva con questa contraddizione patente: da una parte un El'tzin liberatosi dell'eterno Signor Tentenna-Gorbacev e con un potere sempre più forte concentrato attorno alla sua funzione dirigente, dall'altra un parlamento frutto di un insostenibile compromesso tra vecchie forme istituzionali e quelle nuove in incubazione portato sempre più a rappresentarsi come luogo di mediazione d'interessi borghesi di breve respiro (una specie di lobby in cui ognuno entra singolarmente per portar acqua al proprio mulino, senza alcuna visione d'insieme, di classe -e parliamo, beninteso, di classe borghese). Nel mezzo, il dispiegarsi sempre più accelerato dei processi di passaggio alla piena economia di mercato, con l'emergere via via più netto di una classe di borghesi insofferente dei lacci e lacciuoli ad essa imposti dall'elefantiaca ed anchilosata struttura precedente, dei "culi di piombo" della nomenklatura politica e della "rendita di posizione" proletaria.

Solo dei fessi del calibro di un Rutzkoj si erano potuti immaginare in queste condizioni di poter indefinitamente condizionare El'tzin ed i suoi alla pletora incoerente dei loro privatissimi interessi conciliando l'inconciliabile: un'effettiva perestrojka modernamente capitalistica e la difesa di uno status di potere "garantito" in base a "regole" oramai consunte e deperite.

La posizione di El'tzin non poteva essere che in direzione di un effettivo giro di vite insieme liberista e centralizzatore, nel senso, cioè, di una diffusione molto più spinta dei processi di privatizzazione e mercantilizzazione combinata con un accresciuto ruolo dirigente dello stato, a livello di macro-economia e di potere "stabilizzatore" politico-militare.

Il difetto imperdonabile per cui era caduto il primo Gaidar consisteva nell'essersi troppo incautamente affidato alle ricette del "liberismo selvaggio" senza tenere in debito conto l'altra faccia della medaglia. Molto più saggiamente il "partito degli industriali" (uscito rafforzato dal "secondo golpe") suggerisce la cura adatta al "caso russo": utilizzo delle leve statali per foraggiare e tenere sotto controllo lo sviluppo, agendo dall'alto e dal basso nel senso di un'efficace "mercantilizzazione" dell'apparato produttivo (tutt'altro che incompatibile con un persistente forte settore a proprietà statale). Una ricetta "alla cinese", per dirla in breve. Cernomyrdin sembrerebbe voler garantire questa linea e su di essa ci pare si stiano muovendo gli esperimenti-pilota in determinate "zone speciali" (ad esempio nella regione di San Pietroburgo).

I "morbidi" realisti legati all'apparato produttivo sanno benissimo, a differenza dei fu-parlamentari, che la situazione attuale non può essere ingessata, e proprio in vista dei loro interessi. Lo sforzo di cui si fanno propugnatori sta tutto nell'assicurare al capitale "sociale" i migliori coefficienti di forza in una fase che essi stessi definiscono di transizione e tra questi coefficienti s'inserisce la questione dei necessari ammortizzatori sociali per tacitare, durante questa delicatissima fase, la classe operaia. Problemi borghesi, soluzioni borghesi. Gaidar non ne aveva tenuto bastante conto. Dovrà comunque farlo, e con lui El'tzin.

Le carte truccate dell'opposizione parlamentare

Può sembrare in contraddizione con questa pittura degli schieramenti il fatto che, via via, il parlamento sia insorto contro El'tzin in nome della difesa complessiva degli "interessi nazionali russi", agitando anche lo spettro (per altro ben reale, in carne ed ossa) della rapina colonizzatrice straniera. In effetti, la massa dei più ostinati ribelli parlamentari non intendeva esprimere con quest'agitazione demagogica altro che la ritrosia a pagare di tasca propria le conseguenze della ristrutturazione in atto, tenendosi ancorati ai vecchi posti di comando parassitario, e la riprova ne è che mai e poi mai essi sono stati in grado di dare ad essa la parvenza di un vero e proprio programma economico, sociale e politico. Facile votare nuovi capitoli di spesa, provvedimenti assistenziali a pioggia etc. etc. Capra e cavoli assieme: la capra sgozzata, i cavoli andati a male...

Il referente sociale e politico di costoro erano solo i clientes assistiti, gli strati marginalizzati di un certo sottoproletariato in via di espansione, i più squallidi arnesi del nazionalismo slavofilo e fascista e quelli, non meno squallidi, di un "nazional-bolscevismo" che coi primi non si vergogna di trescare in immondi "fronti nazionali". E' un peccato che di simile feccia si sia potuto sbarazzare El'tzin e non l'abbia fatto, invece, il proletariato affossando con essa questo stomachevole "corvo bianco".

Ai parlamentari ribelli è dunque mancato ogni sostegno popolare; ma, quel che è assai significativo, è mancato anche ogni e qualsiasi appoggio da parte dei settori "progressisti" della società, degli stessi fautori di una perestrojka ordinata che non penalizzi immediatamente ed in profondità le masse. L'ex-direttore della TV Jakovlev, che pure aveva perso il suo posto per mano di El'tzin che gliel'aveva dato in un primo momento, nel mentre ha denunziato l'impasse in cui si trova la democrazia in Russia, ha detto di non sapersi immaginare quale sarebbero state le sorti del paese qualora avesse potuto trionfare la banda Rutzkoj-Kazbulatov ed ha concluso: "Tocca dire, purtroppo, che grazie a dio ha vinto El'tzin". Lo stesso Gorbacev, che in patria conta ormai come il due di picche, non se l'è sentita di rifugiarsi dietro il pretesto delle "regole democratiche violate" per avallare un qualche diritto di questa banda ad esercitare più oltre funzioni di comando.

Curiosamente, proprio su "Liberazione" (n° 39) sono apparsi due articoli di autori stranieri, David Singer e Richard Healey (ex-ministro degli esteri del governo laburista britannico) in cui non mancavano elementi "quasi marxisti" di riflessione sui casi russi (pubblicati e neppure letti...).

Il Singer, scrivendo prima dello scontro d'ottobre, notava che "la posta in gioco (in Russia) va ben oltre la carta costituzionale", che è carta straccia rispetto alla sostanza dei problemi. In questo gioco gli attori decisivi non appaiono i "comunisti" da una parte e i "borghesi" dall'altra. La lotta è "tra due fazioni sulla scelta di quale sia la via da percorrere per giungere al capitalismo" (sorvoliamo sull'inesattezza di questo "giungere"...), "ciò a cui stiamo assistendo in Russia, nell'ex-Unione Sovietica e in Europa orientale è una trasformazione eccezionalmente rapida di rapporti di proprietà e allo stesso tempo una cristallizzazione di interessi di classe". Ed Healey: di comunisti, nelle camere del potere, giura, non ne ho visti. Ho visto piuttosto "thatcheriani" e "morbidi". I "duri" di cui si favoleggia sono solo i "rappresentanti della vecchia burocrazia dell'industria statale e qualche nazionalista estremista con legami con il clero ortodosso" o i messeri di quell'Unione Civica che "appoggia una sorta di pragmatismo fabiano ed il "mercato sociale" caro alla socialdemocrazia tedesca e norvegese" ignorando che, qui, non c'è "trippa per i gatti" (specie ora che la trippa comincia a scarseggiare anche nelle metropoli occidentali).

Ancora il Singer: "Il potere ce l'hanno quelli che hanno l'incarico di distribuire la proprietà" e se su questo s'incontra un'opposizione da parte dei "morbidi" è solo "perché essi stessi sperano, in un prossimo futuro, di diventare proprietari capitalisti di questi beni. Dopo un intermezzo di "capitalismo di stato"."

Il socialdemocratico Singer fa addirittura la figura del marxista se raffrontato con quelli di "Liberazione" perché, perlomeno, si augura che in seguito possano entrare in scena i "settori non legati al capitalismo" (traduciamo marxisticamente: i proletari) "trasformando completamente una lotta che finora è stata una prova di forza tra due gruppi di potere".

Che se ne conclude? Che la sostanza dei problemi che si pongono in Russia meno che mai possono racchiudersi in vuote formule costituzionali, il che vale e varrà anche per le future "vere assemblee legittime" che s'immagina usciranno dalle elezioni di dicembre, ma a maggior ragione valeva in una situazione in cui si affrontavano da una parte una presidenza portatrice dei nuovi poteri reali in via di formazione nel paese e dall'altra un parlamento doppiamente "delegittimato" (il che vale, per noi, privo di capacità di potere) per esser nato abortito da un compromesso col vecchio ordinamento, nel frattempo spazzato via dalla realtà economico-sociale e politica russa, e dal non avere dietro di sé truppe di rilievo, né di "nostalgici" né, tanto meno, di... futuristi.

Solidarietà: a chi e come?

Il ridicolo è che qui in Italia quelli che si vorrebbero "neo-comunisti", il PRC, "protestino" contro il "golpe di El'tzin", con tanto di interpellanze parlamentari, proprio ed esclusivamente in nome di un vuoto e truffaldino costituzionalismo del quale le stesse opposizioni russe sentono di dover fare a meno. La risoluzione del PRC (cfr. "Liberazione" dell'8 ottobre) va però anche oltre. Leggiamola un pò attentamente e tiriamone poi le conclusioni.

La crisi russa è "politico-istituzionale" con una "radice" (ed è già una bella scoperta) che sta nella "drammatica crisi economico-sociale". Ma, attenzione!, il conflitto innescato da questa crisi "non verte sulla necessità o meno delle riforme economiche (che anche il PRC appoggia, conscio che un "buon mercato" è necessario, n.), ma sul contenuto, il ritmo, le conseguenze di tali riforme" (il "contenuto" dividendosi tra "mercato selvaggio" e "mercato regolato", n.).

Detto questo, "all'origine dei tragici avvenimenti vi è una esplicita e incontestabile violazione della carta costituzionale di quel paese" in quanto "è stato arbitrariamente e violentemente sciolto un parlamento liberamente eletto dal popolo, il quale peraltro ha largamente condiviso e sostenuto (e qui starebbe un suo titolo di merito, n.) la battaglia antigolpista del 1991 e le riforme istituzionali ad essa conseguite" (ovvero l'immediata premessa istituzionale del "golpe" attuale!).

Ci sarebbe da chiedersi perché in Italia il PRC non faccia allora fronte unico con Del Turco ed altri ancor meno commendevoli signori che difendono la legittimità dell'attuale parlamento, "liberamente eletto dal popolo", contro il "golpismo strisciante" di Bossi e consorti! Come non capire che la "legittimità" di ogni e qualsiasi parlamento borghese dipende dal suo grado di efficacia ai fini della conservazione del sistema? Qui da noi la borghesia può andare all'assalto di un parlamento delegittimato chiamando i cittadini alle urne perché se ne consacri il "rinnovamento". In Russia ci si è dovuti andare coi carri armati. La differenza di "sfumature" è facilmente spiegabile per chi la vuol capire.

Capiremmo se Rifondazione avesse detto: noi difendiamo quel parlamento, costituzionalismi a parte, perché ci difende una postazione di classe. Ma quale? Quella della "perestrojka" annacquata con cento casse del mezzogiorno fasulle? Non è che si faccia un po' di confusione tra Lenin e Cirino Pomicino?

Controverifica. Arrivati a questo punto, non una parola su quella che dovrebbe essere la posizione del proletariato russo (e di un corrispettivo partito comunista) e del proletariato italiano in appoggio ed unione con esso, ma un bel discorsetto sui "doveri" dei "nostri" governi, italiano ed occidentali.

Leggere per credere. "L'Italia (l'ITALIA!, n.) ha una ragione di principio per difendere ovunque, nelle condizioni date, lo stato di diritto e la legalità democratica (ma davvero?, di che cazzaccio d'Italia si parla? di quella di Agnelli o di quella dei lavoratori?, ma tanto il primo che i secondi -su fronti opposti- hanno come "ragione di principio" il potere reale su cui si fanno il diritto e le leggi, e non viceversa, n.). Inoltre -udite, udite!- l'Italia ha "altrettanto vitali ragioni economiche e politiche per contribuire al consolidamento democratico e all'equilibrato sviluppo economico dell'Europa Orientale". Insomma: con un El'tzin dittatoriale si rischia di compromettere gli affari dell'"azienda Italia"! A quando un posto per il PRC negli uffici affari esteri?

Per concludere, "l'atteggiamento dei governi occidentali poteva e forse può essere ancora decisivo per spingere ad una soluzione saggia ed equilibrata della crisi russa". Sempre, sia chiaro, per le sue "vitali ragioni economiche e politiche" di cui sopra...

Contro El'tzin? Cari amici, ci invitate a nozze, perché noi crediamo davvero di essere tra gli unici anti-el'tziniani veri da un punto di vista di classe. Perché per esserlo occorre aver ben inteso il nesso tra quel che oggi è successo (e succederà domani) e il passato "rosa" del "primo" el'tzinismo (quello caro a Moscato), tra esso e il suo background gorbacioviano che gli ha dettato la strada da percorrere, tra questi anelli e l'insieme della catena cui essi si riattaccano, vale a dire uno stalinismo consumatosi definitivamente nei fatti, prima che nell'ideologia -o, meglio, nella demagogia "ideologica"- ed irresistibilmente giunto al proprio capolinea, laddove i conti di un indirizzo controrivoluzionario finalmente si pagano, tutti e fino in fondo. Perché occorrerebbe, per chi non l'ha fatto a suo tempo, trarre da ciò un bilancio rigoroso proiettato in avanti e non indietro, alla nostalgia del "si stava meglio quando si stava peggio". E perciò: guardare al proletariato (russo e internazionale), al socialismo, alla rivoluzione, non ad un inipotizzabile Gorbacev-bis, capitalismo più "stato sociale", da salutare poi come testimonianza che "il socialismo si sa rinnovare" (mettendo Kautsky o Kerenskij al posto di Lenin).

Può accadere, invece, che improvvisati custodi del "glorioso passato" saliti, in modo altrettanto improvvisato, sul carro perdente di Anpilov e soci ci accusino -dopo aver sottoscritto appena qualche anno fa delle "tesi" in cui si affermava che in URSS non c'era mai stato socialismo, ma addirittura il suo esatto contrario (una dittatura statal-burocratica peggiore della nostra bella democrazia)- di fare i grilli parlanti mentre urge una battaglia "concreta". In poche parole, mentre loro "si battono" contro El'tzin, noi staremmo a guardare...

A noi, detto tra parentesi, non dispiace di fungere da grilli parlanti, posto che il prototipo di questa simpatica specie era quello che metteva in guardia Pinocchio dall'incorrere nelle sue solite pinocchiate. Finché esistono delle teste di legno del genere, ben volentieri ce ne prendiamo carico.

E il proletariato?

Un dato da cui partire consiste nel capire perché in Russia i lavoratori non siano scesi in campo contro El'tzin né al seguito delle opposizioni correnti né, purtroppo, in altro modo, indipendente e conseguente quale ci saremmo potuti augurare. Perché, addirittura, dei settori non trascurabili di essi (quali i minatori, pur protagonisti di episodi significativi di lotta di classe per i propri interessi immediati), abbiano addirittura rimproverato ad El'tzin di non aver agito prima. Proletariato assente o addirittura reazionario? C'è già chi lo teorizza, come certi "comunisti" russi che dichiarano di volersi d'ora in poi rivolgersi all'intelligentzija, ai ceti medi "progressisti", all'opinione pubblica "democratica" etc. etc. scontando la "sordità" dei lavoratori.

La spiegazione di quest'arcano è per noi semplice. Nei decenni che vanno dalla stabilizzazione dello stalinismo ad oggi, passando per gli antecedenti chruscioviani della perestrojka, il proletariato ha avuto abbondantemente modo di smaltire la primitiva ubriacatura "socialista" che aveva contrassegnato il primo periodo -"eroico"- dello stalinismo e la partecipazione convinta in esso alla "costruzione del socialismo". Via via, proprio a partire dagli anni della stabilizzazione del potere, esso ha avvertito che nulla di questa costruzione, per cui esso aveva sputato sangue, gli apparteneva, se non sulla carta dei cosiddetti "diritti sanciti dalla costituzione" del '36, con i suoi successivi aggiornamenti. Nulla né dal punto di vista sociale ed economico né da quello politico.

Via via diventava chiaro che il potere reale, definitivamente espropriatogli, apparteneva ad un'élite non solo perfettamente borghese per "costume di vita" e "mentalità", come scriveva Trotzkij, ma in progressiva trasformazione verso un vero e proprio status di classe borghese (cosa che, altrettanto bene, Trotzkij aveva intuito e descritto anticipatamente). La macchina produttiva vomitava merci sul mercato e non beni di consumo destinati alla società. Alla testa di essa stava lo Stato-padrone quale rappresentante di interessi concentrati di forze sociali ad esso estranee ed ostili, e, in esso, la "casta" dei "burocrati (nominalmente) stipendiati" alla stregua di puri salariati si stava trasformando in vero e proprio "padronato". Oggi, alcuni dei nostri critici dicono: con El'tzin chi detiene il potere politico comanda sull'economia. E perché? Non era proprio questa la caratteristica del "socialismo" o "controsocialismo" che dir si voglia precedente?

La verità è che comanda politicamente chi comanda socialmente ed economicamente. Non il potere politico comanda sull'economia, ma viceversa. Le classi sociali egemoni, coltivate dallo stalinismo, hanno dilatato nel tempo la sfera di questo loro potere. Al momento opportuno si sono sbarazzate dei residui orpelli "socialisti", del peso di un residuale "patto" da rispettare nei confronti della propria "base" proletaria. La cancellazione di ogni resto "socialista" quanto ai rapporti di proprietà ed alla rappresentazione politica di essi è avvenuta quando già se ne erano date le premesse sufficienti e necessarie.

Il proletariato sovietico non poteva ingannarsi su questo fatto, vissuto sulla propria pelle. In teoria era possibile pensare all'ipotesi di una sua resistenza, ma non tanto ad un corso di avvenimenti ad esso presentati come leggi ineluttabili alle quali era impossibile sottrarsi guardando all'indietro, quanto piuttosto a partire dalle conseguenze di questi avvenimenti, battendosi sul proprio terreno. Poteva essere questo terreno quello della "difesa della democrazia"?

La "democrazia": una trincea da difendere?

La questione della "democrazia" è stata quella che più ha emozionato gli animi della "sinistra", da Rifondazione alla Washington Post. El'tzin colpevole di leso parlamento, il che è il massimo!, e l'Occidente di non averlo da ciò dissuaso, "dimenticando" di applicare alla Russia le regole che qui, "invece", si rispettano.

Ancora una volta controcorrente, noi comunisti osiamo affermare che ci fa un baffo la "violata legalità" e non solidarizziamo affatto con essa né chiamiamo le truppe proletarie a farlo.

Non si creda di sfotterci facilmente, come ancora si continua a fare con la tendenza storica della Sinistra in Italia, accusando, al solito, Bordiga di aver ignorato la differenza tra democrazia e dittatura o, addirittura, di aver teorizzato il "tanto peggio tanto meglio".

Noi sappiamo benissimo che, mancando le condizioni di un assalto rivoluzionario al potere, sarebbe preferibile subire metodi democratici di dominio (dittatoriale) borghese piuttosto che quelli di una dittatura aperta. Ma sappiamo altrettanto bene che la "scelta" tra le due opzioni da parte della borghesia non si dà per arbitrio. Il ricorso ai metodi di ferro sono quelli che accompagnano le situazioni di crisi sociale, istituzionale e politica. E in queste situazioni si dà di regola che l'insieme delle forze borghesi, a cominciare da quelle più convintamente "democratiche", si convertono tutte all'uso della forza contro il proletariato. Certo, i "democratici" possono anche lasciar intravvedere la possibilità di un ritorno alle "normali" metodiche del potere, passando per il disarmo via Stato delle forze "irregolari" a servizio della propria classe, ma ad un solo patto: che il proletariato per primo preventivamente e totalmente disarmi.

Nell'Italia del primo dopoguerra ne abbiam visti di democratici di questa risma che, dopo aver spianato la strada al fascismo, allorché occorreva dare una sistematina ai rossi, lanciarono proclami di "normalizzazione". Era questo il programma -tardivo- degli aventiniani, in cui, per sua somma vergogna, si lasciò invischiare la neo-direzione centrista del PCd'I. Ma questo era stato, a suo tempo, anche il programma di Mussolini, d'accordo per un governo aperto ai riformisti turatiani e confederali, all'ovvia condizione di cui sopra: che fosse assicurato il disarmo del proletariato ed una diretta opera di pulizia noskista contro i comunisti e, difatti, c'è oggi chi coerentemente ammette l'errore dei riformisti nel non aver saputo (o potuto?) tener fede a questa lungimirante strategia di ripristino della democrazia.

Per salvare la democrazia in frangenti simili, dunque, la soluzione è bell'e pronta, per chi ne ha lo stomaco.

In caso contrario, non resta al proletariato che lottare per le proprie condizioni di vita, economiche e politiche, affrontando la sfida. Il che non significa affatto una difesa della democrazia in generale "da parte del proletariato" e "coi metodi del proletariato", ma un'offesa diretta alla democrazia particolare della borghesia coi metodi della rivoluzione e della dittatura "particolare" di classe. Che a questa lotta si possano e si debbano associare strati non proletari della società (le famose "classi medie" proletarizzate o immiserite) è altrettanto certo, e costituisce un punto fermo nella tradizione della Sinistra. Ma la possibilità di ciò si dà, a sua volta, a condizione che il proletariato dimostri appieno la sua determinazione rivoluzionaria e, con essa, indichi concretamente il solo possibile sbocco del dramma sociale in atto e non, al contrario, a condizione di un blocco contronatura con le classi medie sul terreno della "difesa della democrazia". (Anche quello che sta succedendo oggi in Italia ci offre i prodromi dimostrativi di questo nostro teorema, ed ancora una volta assistiamo ad un'irresistibile corsa verso il baratro da parte dei riformisti vecchi e nuovi...)

Detto questo, per indigeribile che sia a molti palati (ma: bere o affogare), resta da vedere come le cose si siano presentate in Russia.

Le vere trincee del proletariato stanno altrove

I ribelli parlamentari che si opponevano a El'tzin rappresentavano una frazione borghese che intendeva giocarsi il potere a suon di "golpe" non meno dell'avversario, contando sull'appoggio di una parte decisiva dell'Esercito e sulla rivolta dei poteri locali "soffocati" dal "centralismo" di Mosca. Nessun programma per il proletariato, nessun appello ad esso (se non in extremis), e ciò si spiega facilmente: una forza borghese, anche quando ha mille ed una ragioni per contrapporsi ad altre forze borghesi, non dimentica in nessuna circostanza che il peggior pericolo è l'entrata in scena del proletariato, di fronte alla quale inevitabilmente va a ricostituire un fronte unico controrivoluzionario di classe.

Però c'era Anpilov... Sì, peccato che Anpilov raccolga sì dietro di sé un certo numero di operai sacrosantemente incazzati (coi quali siamo interamente solidali), ma sotto le bandiere di un neo-stalinismo che non si vergogna di marciare assieme al peggio della vecchia nomenklatura, dello sciovinismo nazionalista grande-russo e persino di esaltati religiosi dal momento che si tratta pur sempre di "patrioti", mettendosi diligentemente alla coda di una frazione borghese da promuovere al potere a suon di "colpi di stato". A queste condizioni, la quota operaia di questo fronte viene ad essere contemporaneamente asservita al nemico e staccata dall'insieme decisivo della massa.

Lasciar passare El'tzin, allora, senza combattere? (Come si disse in passato: lasciar passare Mussolini senza... far blocco coi "democratici"?). Noi semplicemente constatiamo che, allo stato delle cose, non era possibile entrare in gioco per sé accodandosi, contro il "golpismo" el'tziniano, al "controgolpismo", parimenti borghese, della parte ribelle del parlamento. Era ed è, invece, perfettamente possibile battersi per un rafforzamento delle proprie posizioni di classe ed una decantazione in esse delle posizioni comuniste. E' possibile affermare il diritto alla propria organizzazione sindacale e politica, ad esempio. Che è un lavoro ancora in fase del tutto embrionale in Russia. Ed è un lavoro che precisamente richiede come precondizione lo svincolamento da una posizione di sudditanza a questa o quella frazione borghese in gioco.

Il mancato "protagonismo" proletario allo stadio attuale del conflitto, come abbiamo chiarito, ha radici lontane, che affondano nel pluridecennale ingabbiamento di esso nella costruzione di un "socialismo nazionale" che, dopo averlo separato dal rimanente dell'esercito proletario mondiale, l'ha vincolato ad una -a suo modo eroica e (borghesemente) rivoluzionaria- costruzione di capitalismo. Per quest'opera immane esso è stato ripagato con la conquista (a termine...) di determinate guarentigie, ma, ad un tempo, la sua organizzazione indipendente di classe è venuta a frantumarsi. Il proletariato come corporazione statale, ecco il "capolavoro" cui ha portato lo stalinismo! Oggi, allorché la "corporazione" dei borghesi passa decisamente all'attacco contro di essa, il proletariato russo si trova provvisoriamente privo del suo armamentario di classe, in una situazione di disordinata difensiva. Nondimeno, su questo terreno esso è obbligato a ridarsi quanto ha perso in precedenza e ne vediamo i primi segni.

Masse inoperose, o peggio? Così possono pensare quanti avevano pensato di attivizzarle sul terreno minato della difesa della "democrazia" alla coda dei peggiori arnesi del passato. Non noi. Noi constatiamo, all'opposto, che sta andando avanti in Russia un processo di riorganizzazione di classe, tanto a partire dal livello "minimo" delle lotte sindacali e della costituzione di organismi ad hoc quanto sul piano di una ripresa dei temi politici socialisti (alla quale volentieri "perdoneremo" i tempi lunghi e gli accidenti di percorso...).

El'tzin e i suoi preferirebbero sicuramente non aver bisogno di fare i conti con questa forza. Sono costretti a farli. Il carattere, tutto sommato soft, delle misure che il "nuovo potere autocratico" si può permettere nei confronti, in primo luogo, dei livelli occupazionali (altro che il preventivato -sulla carta- 25% di taglio alla forza-lavoro!), il freno imposto all'assoluta liberalizzazione dei prezzi dei beni di prima necessità e, ancor più, il riconoscimento di fatto del sindacato quale controparte con cui occorre trattare, nonché i passi indietro nel programma di messa fuorilegge indiscriminata delle forze politiche in cui si esprime un'opposizione proletaria, tutto questo indica che la partita non è chiusa, ma appena cominciata. Poco o tanto? Non è un problema che ci angosci. L'essenziale è intendere dove sta l'anello prossimo da afferrare per venire a capo della catena. Ed esso sta precisamente in questo lento e metodico lavoro di riorganizzazione, rispetto al quale l'anpilovismo costituiva il peggiore dei diversivi possibili. Il non aver ceduto le armi, l'essersi preso il necessario respiro, è già garanzia che, nelle battaglie durissime che si preparano per l'avvenire, il proletariato russo saprà rimettersi in piedi. E la posta, statene ben certi, non sarà la "democrazia", non sarà lo "stato sociale"...