La lotta contro i licenziamenti alla FIAT
A differenza di quanto è accaduto alla Sevel e ad Arese, gli operai di Mirafiori non hanno reagito all'annuncio del piano FIAT con una mobilitazione immediata.
Definitiva "normalizzazione" della classe operaia? Assolutamente. Ancora una volta, allora, sforziamoci di comprendere come mai non ci sia stata la reazione di lotta che "astrattamente" ci sarebbe piaciuta, di registrare la reazione che effettivamente c'è stata e di stabilire come debbano rapportarsi comunque ad essa i militanti proletari più coscienti .
Vediamo innanzitutto cosa è successo a Mirafiori dopo l'annuncio del piano FIAT.
A caldo assemblee alle meccaniche. Nei giorni successivi sciopero di due ore con assemblea in preparazione della giornata di lotta del 10 dicembre. Partecipazione in accordo con le medie "precedenti" dello stabilimento. Dagli operai che hanno scioperato è venuto un chiaro segnale di disponibilità alla mobilitazione (alle meccaniche ci sono stati anche vivaci cortei interni). Sugli altri lavoratori, quelli che non hanno lasciato le linee, ha pesato di più la percezione delle difficoltà della lotta operaia e, soprattutto, il ricatto padronale: non è un caso che le assemblee siano riuscite di meno alle carrozzerie, dove si produce la Punto e dove il padrone può ancora giocare sulla speranza operaia di non essere toccati dai licenziamenti...a patto di sottostare ai suoi diktat. Per gli uni e per gli altri è però cambiato qualcosa: non ci si può più sentire in una botte di ferro, anche nel cuore dell'impero FIAT si è costretti a fare i conti con la crisi, si comincia ad avere una percezione meno attutita della portata dell'attacco padronale. Si potrebbe dire: gli operai di Mirafiori "scoprono" la crisi. Questo, però, non li rimette in moto, per cause che attengono sia immediatamente alla realtà torinese che a quella nazionale e internazionale dello scontro di classe.
Il problema cui si trova di fronte il proletariato non è più quello di ingrandire la fetta a sé destinata di una torta via via più grande (come avveniva durante il boom del secondo dopoguerra), bensì quello di difendere le postazioni precedentemente conquistate. Gli strumenti di lotta, che la classe ha forgiato e usato con ricadute positive nei decenni scorsi (sia in relazione alla propria forza politica che in relazione alle acquisizioni immediate), in questa nuova situazione si stanno convertendo in fattori che spingono alla "paralisi", piuttosto che, come avveniva in passato, alla mobilitazione. I lavoratori sperano tuttora che il "vecchio scenario" della lotta di classe non sia definitivamente morto, ma sia "resuscitabile" attraverso la moralizzazione della "classe politica" e il cambiamento delle regole istituzionali. Dall'altro lato essi sentono di non essere in grado di mettere in campo, da subito, un fronte di lotta generale capace di dare efficacia al proprio sciopero. Invece di contrastare queste illusioni e di farsi carico di queste difficoltà, i vertici sindacali (e, ancor più, quelli dei partiti cosiddetti operai) rafforzano le une e le altre, dopo che, a seguito della politica delle compatibilità da essi portata avanti, hanno predisposto il terreno tanto alle une quanto alle altre.
La conseguenza sulla lotta operaia dei primi grossi colpi della crisi è, quindi, una specie di "paralisi". Ma in questa "paralisi" è contenuto un elemento che spinge in avanti: l'impatto, nuovo, con l'incertezza per la propria esistenza futura, la precarietà e la crescente durezza per quella di oggi. E' questo l'anello, per quanto modesto possa sembrare, al quale agganciarsi per prospettare alla situazione uno sbocco in avanti. E' questa la leva che spingerà la classe, la sta già spingendo, a dotarsi di un nuovo armamentario di difesa, confacente al corso "discendente" del capitalismo: armamentario, in un primo tempo ancora completamente riformista, ma messo in campo su un terreno talmente esplosivo da doversi "convertire", per raggiungere i suoi fini, in quello rivoluzionario propagandato dai comunisti. Altro che presunto day after di cui parla "Il Manifesto", per il quale, sembra di capire, agli operai non resterebbe che tornarsene a casa!
Certo questa rimessa in moto potrà subire arresti e rinculi...ma solo per lasciare il posto a nuovi strappi in avanti.
Per intanto il nuovo attacco di Agnelli ha dato uno scrollone ai "sogni", che inizia a mostrare i suoi effetti anche nella ripresa di attività e discussione tra le avanguardie operaie e i delegati.
Ripresa della lotta e unificazione del fronte operaio sono i compiti che si pongono da subito. Per favorire l'una e l'altra, però, essi non possono essere disgiunti da una battaglia in seno alla classe per dotarla di una prospettiva politica corrispondente alle proprie necessità di difesa sindacale. Chi pensa di trovarsi di fronte a operai "normalizzati" da qui all'eternità...avrà un bel pò di sorprese!
La FIAT aveva fatto di tutto per addormentare, dividere e ricattare gli operai di Arese in modo che arrivassero il più possibile indeboliti alla dichiarazione di guerra. I reiterati licenziamenti politici, settimane e settimane di cassintegrazione, le voci sui prossimi tagli.
Eppure quando l'azienda lancia il suo attacco, la classe operaia di Arese ha già abbondantemente rodato i motori della mobilitazione. Già in occasione dello sciopero generale di ottobre la fabbrica aveva anticipato di una settimana la fermata per lanciare un segnale all'azienda e soprattutto per scuotere il clima di attesa passiva, e passivizzante che, complici gli stessi FIOM-FIM-UILM, si respirava da mesi nello stabilimento. L'11 novembre nuova prova generale: sciopero di 4 ore e corteo su Milano verso la RAI.
L'annuncio del 23 arriva ad una classe operaia pronta a battersi. Sin dalla sera ad Arese rullano i tamburi. La mattina è sciopero: gli operai incrociano le braccia per due ore e vanno ad occupare l'autostrada per i Laghi. In marcia una grande forza operaia, pronta a rispondere alla sfida lanciatale dal padrone.
Una grande forza, che però da sola non può farcela.
Consapevolmente o meno poco importa, di questo hanno percezione gli stessi operai di Arese. Quando scrivono sui loro striscioni "salviamo il lavoro produttivo"; quando vedono la condizione prioritaria per salvare l'occupazione nel licenziamento di una "classe politica" corrotta e inefficiente che "ha mandato in rovina la nostra industria", essi sentono che i licenziamenti e le chiusure produttive mettono in causa la forza nella società degli operai in quanto classe (del capitale naturalmente); sentono che serve un progetto alternativo di gestione complessiva dell'economia e delle "istituzioni", che ci troviamo in una situazione in cui i ritocchi che hanno permesso di tirare avanti finora non funzionano più; sentono che la difesa dei posti di lavoro non è scissa dalla questione del chi detiene le leve del potere.
Sentono insomma, giustamente, che la lotta contro i licenziamenti non può essere vincente senza un rafforzamento politico complessivo della classe operaia.
Ci si muove però in direzione esattamente opposta a quella necessaria quando si vede l'ancora di salvezza in un progetto industriale che valorizzi, sul mercato, il marchio Alfa; quando si spera che la "nuova, onesta e efficiente" "classe dirigente", che le elezioni porteranno alla guida del paese, eliminerà le cause della crisi dell'industria automobilistica.
E non è che questa "logica" sia alimentata tra i lavoratori solo da FIOM-UILM-FIM o dal PDS: lo stesso COBAS, che pure vorrebbe presentarsi come organizzazione sindacale più a sinistra, se ne fa portavoce. Dove porta la strada, così cara ai compagni del COBAS, di chiedere a gran voce un'indagine della magistratura sulle tangenti connesse con la vendita dell'ALFA alla FIAT (considerata la causa, evidentemente, delle attuali difficoltà di mercato)? E' così lontana dalla logica delle compatibilità dei vertici di FIOM-FIM-UILM l'affermazione che i posti di lavoro ad Arese si potrebbero difendere se solo fossero lanciati sul mercato nuovi modelli che valorizzassero il marchio ALFA? Dove porta la presentazione della pretura locale nelle vesti di garante della democrazia sindacale?
Il freno che impedisce alla mobilitazione generale contro i licenziamenti di decollare non è semplicemente l'"inconseguenza" e la "titubanza" di FIOM-FIM-UILM, da disperdere in un batter d'occhio con elezioni miracolose. Il vero freno è costituito da una politica sindacale che lega e subordina la difesa dei posti di lavoro e degli interessi operai al risanamento dell'azienda e della nazione. Con la conseguenza di minare la forza di quella lotta generale della classe che anche gli stessi vertici sindacali ritengono necessaria, quando affermano la portata generale della vertenza FIAT. Con la conseguenza di seminare, tra gli stessi lavoratori di Arese (all'oggi ancor così disposti a battersi) l'illusione -micidiale- che se non si verrà inseriti tra i 2000 cassintegrati a zero ore, forse si conserverà il posto di lavoro e che, quindi, è meglio astenersi dalla lotta e mostrare la propria "fedeltà" ai dirigenti aziendali.
Se la forza degli operai di Arese non troverà respiro e sostegno in una lotta generale contro tutti gli aspetti (immediati e politici) dell'offensiva borghese, non solo si potranno difficilmente difendere i posti di lavoro dello stabilimento milanese, ma, al suo stesso interno, prenderanno piede spinte centrifughe e, in ultima istanza, leghiste, espressione del tentativo degli operai, in quanto singoli, di trovare un'áncora di salvezza dopo che è venuta a mancare quella offerta dalla forza della propria classe.
I militanti operai più coscienti di Arese devono aver ben chiara l'enorme posta in gioco e lavorare a lanciare sul mercato l'unico prodotto che può difendere l'industria degli interessi del proletariato: un fronte unitario di classe.
Come nel resto d'Italia anche a Napoli l'ultimo attacco FIAT alla classe operaia colpisce a macchia di leopardo. Lo stabilimento Sevel di Pomigliano, dove si producono furgoni, dovrebbe essere completamente smantellato, mentre nello stabilimento adiacente della ex-ALFA solo pochi tagli e il prosieguo della "normale" cassintegrazione, oltre allo stillicidio di dismissione di servizi interni che ormai va avanti da circa un paio d'anni.
Lo scopo evidente di Agnelli è procedere per ondate successive cercando di evitare una risposta unitaria degli operai di tutto il gruppo.
Tale strategia sta al momento ottenendo i suoi risultati, producendo anche un andamento della lotta a macchia di leopardo. In particolare, lo stabilimento della ex-ALFA fa registrare una scarsa partecipazione ai momenti di mobilitazione in risposta all'ultimo piano FIAT. L'assegnazione di nuovi modelli, l'esclusione, per questa tornata, da tagli significativi contribuiscono a rafforzare l'illusione che si possa attraversare indenni la bufera adottando un comportamento "ragionevole".
La stessa espulsione dalla fabbrica di consistenti gruppi di lavoratori, attuata con la vendita ad altre ditte di alcuni servizi precedentemente gestiti dalla stessa FIAT (contabilità, autotrasporti del prodotto finito e dei pezzi semilavoratori dalle unità satellite e dall'indotto) non è stata vissuta come un attacco a tutti i lavoratori, ma come un processo di normale ristrutturazione che non avrebbe riguardato la produzione vera e propria. Anche le proteste più radicali dei gruppi di lavoratori espulsi non hanno trovato una forte solidarietà, nemmeno di fronte all'ingresso massiccio della polizia all'interno dello stabilimento.
La Sevel, che invece vanta una lunga e significativa tradizione sindacale, si è preparata da tempo a questo ulteriore colpo. Nonostante le massicce dosi di cassintegrazione, gli operai hanno dato vita a numerose assemblee interne per decidere la strategia di lotta, per richiedere un chiaro pronunciamento delle organizzazioni sindacali contro il prevedibile smantellamento dello stabilimento. Questa consapevolezza ha fatto si che la Sevel fosse la fabbrica più attiva a fianco della lotta dei lavoratori Alenia.
All'annuncio ufficiale del piano FIAT gli operai della Sevel, circa 1100 dipendenti, sono scesi immediatamente in lotta ad oltranza, dando vita a quotidiani blocchi stradali e ferroviarii oltre a vari blocchi dei cancelli merci dello stabilimento ex-ALFA per creare maggiori difficoltà alla FIAT e per coinvolgere nella mobilitazione altri operai.
La FIAT e lo stato hanno risposto duramente a questa lotta con il licenziamento di 4 avanguardie di fabbrica e con il presidio da parte delle forze dell'ordine dei cancelli merci. Ma ciò non ha scoraggiato gli operai provocando anzi prime significative mobilitazioni di solidarietà da parte dei lavoratori dell'ALFA-Avio e dell'Alenia.
Intorno alla lotta della Sevel si sta producendo lo stesso scenario della lotta Alenia, con una forte solidarietà popolare e iniziative a sostegno della lotta. Mentre tra gli operai della Sevel, memori dell'esperienza dell'Alenia, cresce la consapevolezza della necessità di una risposta unitaria di tutti i lavoratori per respingere i piani di Agnelli.