Governo Ciampi e classe operaia
NESSUNA TREGUA A UN GOVERNO CHE PREPARA NUOVI ATTACCHI CONTRO LA CLASSE OPERAIAIl governo Ciampi è nato con due precisi mandati: il primo era di riconquistare all'Italia almeno un poco di quel ruolo internazionale che l'esplodere della crisi dell'estate '92, e le conseguenti lotte operaie, avevano fortemente indebolito; il secondo di assicurare la massima tranquillità possibile all'avvento di una "seconda" repubblica adatta ai tempi nuovi dominati dalla crisi del capitalismo e dalla improcrastinabile, conseguente, necessità di costringere il proletariato a cedere, su tutti i piani, le conquiste dell'era del "benessere". Per il primo doveva cercare di mettere a frutto, sul piano economico e politico, gli effetti della cura radicale avviata da Amato. Per il secondo aveva da perseguire l'obiettivo di una progressiva e indolore messa da parte dei reggitori del potere politico degli ultimi 50 anni -per parte loro, già fragorosamente frananti in "tangentopoli"- e di favorire il delinearsi di un adeguato assetto elettorale e istituzionale. Per entrambi aveva da ottenere una vera e propria sterilizzazione delle lotte operaie.
Quest'ultimo è, per la borghesia, l'obiettivo di gran lunga più decisivo per riuscire a passare a uno Stato ancor più blindato verso la classe operaia quasi senza che questa se ne accorga e senza che metta in campo una resistenza in grado di frenarlo. Al primo pesante assaggio di "seconda" repubblica, servito alla mensa di Amato, la classe operaia aveva risposto con grande decisione nell'autunno/inverno scorso, nonostante le titubanze, le incertezze e le colpevoli complicità dei vertici sindacali e riformisti. Quella reazione ha consigliato all'avversario di classe di ridurre, almeno temporaneamente, il volume di fuoco dell'attacco.
Per farlo il governo ha sottoscritto con i sindacati un accordo che recuperava, sia pure in modo parziale ed evanescente, taluni -obsoleti per i "nuovisti"- strumenti, tipo "concertazione" e "politica di tutti i redditi", e qualche "vecchio" principio come quello del recupero dell'erosione causata ai salari dall'inflazione. Del pari sul piano delle misure volte a contenere il deficit dei conti pubblici, il governo Ciampi ha cercato di accreditarsi di un'equità maggiore d'ogni altro predecessore, resistendo alle richieste di rimozione della minimum tax e del "prelievo forzoso" sulle casse previdenziali private, e facendo argine al dilagare della spesa pubblica di carattere "clientelare" cui erano abituate le "camarille pentapartite".
Fin qui, dunque, le "concessioni" del governo. Cose ben misere che, pure, però, sono riuscite ad allentare le "tensioni sociali", per lo meno nel senso di evitare che proseguisse uno scontro aperto tra le classi, quale quello provocato dalla politica di aperto attacco di Amato.
Il "rigore morale" e "la grande capacità di dialogo" hanno guadagnato al primo ministro l'elogio di Trentin che ha definito l'attuale come "uno dei migliori governi di questa Repubblica" ("Il Corriere della Sera", 15.10.93), ma gli hanno anche guadagnato la benevola astensione di buona parte degli operai che, finalmente, vedevano abbattersi non solo su di loro la scure dei sacrifici per "risanare l'economia nazionale", ma anche su bottegai, lavoratori autonomi, professionisti e pubblico impiego.
Mentre, però, Ciampi cercava di tenere il più basso dei profili nello scontro, lasciando scemare la pressione generale sul salario, grazie anche ai cospicui risultati ottenuti con la manovra del '92, veniva montando un attacco sempre più massiccio ai livelli occupazionali. Centinaia di aziende di ogni dimensione davano vita a procedure di mobilità e di licenziamenti, costrette da una recessione che, a due anni dall'inizio, non dà segni di attenuazione, nonostante la "provvidenziale" svalutazione della lira e del costo del lavoro abbiano consentito al capitalismo italiano di limitare i danni rispetto ai (e a dispetto dei) diretti concorrenti. Sulla questione il governo ha confermato il suo "basso profilo", rifiutando di contraddire l'obiettivo di contenimento del deficit pubblico tramite incrementi di spesa, e proponendo di attendere la mitica "ripresa" dell'economia mondiale con la speranza che attenui il problema occupazionale. Nel frattempo Ciampi propone di utilizzare gli ammortizzatori esistenti e di aumentare il grado di flessibilità del mercato del lavoro per predisporre le condizioni "migliori" per beneficiare in sommo grado della "ripresa".
L'apparente equidistanza corrisponde esattamente a quella "imparzialità" che Confindustria si attende dal governo per evitare il rischio di scontri generali -per sostenere i quali la borghesia teme che non ci sia, al momento, per sé e per le classi sue alleate, la compattezza e disciplina necessarie- e per cercare, allo stesso tempo, di continuare a logorare, colpendolo ai fianchi, il proletariato, assestando un ulteriore colpo ai salari -con lo scambio salario/occupazione- e, soprattutto, un ulteriore colpo alla tenuta organizzativa della classe, con l'aumento della precarietà del lavoro e l'incremento della flessibilità (di orari, mansioni, ritmi, ecc.) in fabbrica.
Insomma, il governo ha fatto il possibile per non offrire alla classe operaia nuove occasioni di scontro generale, ma l'attacco della borghesia è proseguito sul piano economico e sindacale (come, d'altronde, è proseguito sul piano politico con la chiamata a raccolta di un ampio fronte a sostegno di una nuova repubblica sempre meno permeabile al proletariato e sempre più basata sulla libertà della proprietà, come, nel suo piccolo, la campagna contro il Leoncavallo dimostra) fino al punto di determinare, suo malgrado, le condizioni per riaprire ugualmente uno scontro generale.
Col trascorrere del tempo la "benevola astensione" operaia ha cominciato a incrinarsi. Dapprima gli operai hanno verificato che il governo Ciampi non aveva in animo di restituire alcunché di quanto estorto da Amato, salvo una parzialissima reintroduzione del fiscal drag per il '93, impegno, peraltro, già strappato ad Amato e tuttora incerto nel palleggio governo/parlamento. In seguito hanno visto che, anzi, anche per loro venivano predisposti nuovi "tagli" con una finanziaria che, pur non prendendoli a unico obiettivo, continuava comunque a colpirli su pensioni e sanità. Più innanzi hanno cominciato a sospettare che Ciampi cominciasse a ritrarsi anche dagli impegni che aveva sottoscritto a luglio. La scelta del governo di non dare ai contratti del pubblico impiego la copertura finanziaria necessaria a garantire almeno il recupero dell'inflazione programmata, suscita preoccupazioni non tanto per le sorti di una categoria che, al momento, non gode di molte simpatie tra gli operai, ma per il significato che assume: un governo che viene meno con i suoi dipendenti agli impegni sottoscritti, difficilmente si spenderà, al momento opportuno, per costringere i padroni "privati" a rispettarli. Ma anche sul tema occupazione l'atteggiamento del governo ha suscitato tra gli operai molte preoccupazioni.
La borghesia contava, nell'attaccare sull'occupazione, di mettere a frutto anche l'indebolimento della capacità operaia di resistenza organizzata, messa a dura prova da una tornata dello scontro conclusasi con un sostanziale cedimento in termini di salario e di potere. Ma, ancora una volta, e stupendo gli aspiranti becchini, la classe operaia, prima con splendide lotte isolate contro i licenziamenti (Maserati, Alenia, Sulcis, Crotone, per citarne qualcuna), poi con mobilitazioni di intere zone industriali, di intere categorie, e con mobilitazioni regionali in difesa dell'occupazione ha dato prova di grande vitalità e di una non smarrita fiducia nelle proprie forze.
Le lotte operaie sono spesso riuscite a "limitare i danni", mai a bloccare le strategie padronali. Lo scontro azienda per azienda ha rivelato tutta la sua inadeguetezza sospingendo gli operai a ricercare delle alleanze, a costruire degli schieramenti più ampi. Primi interlocutori di questa richiesta di solidarietà sono state le "popolazioni" di paesi o città limitrofe, ma essa è stata rivolta anche al resto della classe operaia. Tuttavia, tra gli operai ha continuato a essere "naturale" l'orizzonte aziendalistico, la convinzione, cioè, che sia l'azienda il terreno obbligato su cui ricercare le possibili soluzioni. Non a caso le spiegazioni più "gettonate", nei casi di crisi, sono quelle di "disimpegno" padronale, o di incapacità manageriali a promuovere le innovazioni indispensabili alla competitività dei prodotti, o di "speculazioni" sulle aree industriali, e così via. E, non a caso, le rivendicazioni che vanno per la maggiore sono quelle di "non svalutare il patrimonio aziendale", o di proporre "progetti di rilancio produttivo" che mettono nel conto anche ulteriori sacrifici operai, in una identificazione tra sorti aziendali e posto di lavoro.
Il moltiplicarsi delle situazioni di crisi e di lotta e l'emergere della scarsissima possibilità di soluzioni a livello aziendale o locale delle "crisi occupazionali", hanno, però, determinato in vari settori di classe l'apparire di una spinta a ricercare soluzioni generali, da sostenere, in quanto tali, con un movimento generale. Quella spinta si è riversata nella manifestazione dei Consigli del 25 settembre, comprimendo ai margini l'originale centralità democraticista, e, soprattutto, ha costretto CGIL-CISL-UIL a indire uno sciopero generale nazionale per il 28 ottobre.
Lo sciopero ha assunto, giocoforza, una valenza in qualche modo anti-governativa. Chiamato in causa per soluzioni generali, infatti, è soprattutto l'organo supremo di amministrazione che, peraltro, si era già, con l'accordo di luglio, impegnato ad assumere per l'occupazione non solo le (contemperate) proposte padronali di maggiore liberalizzazione del mercato del lavoro, ma anche quelle sindacali di aumento degli investimenti per formazione professionale e ricerca e di estensione degli "ammortizzatori sociali". Sulla liberalizzazione il governo ha mostrato un discreto attivismo, sul resto, invece, completo immobilismo.
Sullo sciopero del 28 ottobre confluivano, in verità, spinte diverse. Per CISL e UIL doveva soprattutto servire a confermare la minimum tax. Per la CISL, inoltre, lo sciopero avrebbe dovuto dare man forte al pubblico impiego nella sua lotta per i contratti. Entrambe le istanze si sono attenuate già nella preparazione della mobilitazione; nelle piazze hanno lasciato completamente il campo alla questione occupazione. Gli operai hanno (massicciamente) scioperato, e ancora una volta hanno riempito le piazze pur se in maggioranza solo con operai di aziende in crisi e in numero maggiore dove la crisi morde più forte sul lato occupazione. Il limite aziendalistico è stato ben visibile anche nelle manifestazioni, essendosi, per lo più, sfilato per denunciare la crisi della "propria" azienda. Pure, un elemento politico di unificazione ha fatto capolino con la rivendicazione di "serie politiche a difesa dell'occupazione".
Sospinta dalla necessità di unificare ed estendere la lotta contro i licenziamenti e per l'occupazione, la classe operaia non si è, dunque, fermata neanche difronte al rischio di lottare contro un governo che, per altri versi, avvertiva come "non-nemico". Lo sciopero del 28 ottobre aveva dato il via a questo passaggio. La sua riuscita, pur più "sofferta" di altri, aveva dimostrato che esistevano le possibilità di dare vita a un grande fronte di lotta unitario. Gli accadimenti successivi hanno scalzato di scena la lotta operaia e rimesso al centro i problemi dell'assetto politico e istituzionale dello Stato.
E' questo un tema che agli operai sta a cuore, sentendosi essi tuttora partecipi di questo Stato, e contando tuttora di avere le forze e le possibilità di condizionarne gli indirizzi. Ciò ha determinato il prevalere di un ragionamento di sospensione delle lotte e delle pressioni sul governo, per consentirgli di giungere fino alle elezioni, rimandando a dopo, nel quadro istituzionale nuovo, più "solido" e "autorevole", la ripresa del "confronto". La prima tornata delle elezioni amministrative ha, ancor più, confermato quel ragionamento: dinanzi alla possibilità che la "sinistra", bene o male più "sensibile" alle istanze operaie, assuma l'amministrazione di svariate città e comuni, e che, addirittura, si prefiguri la possibilità che assuma persino il governo centrale, è, d'obbligo, per la coscienza operaia riformista, collocarsi in una posizione di prudenza, di attesa e di speranza, tanto più se c'è da vigilare contro l'emergere minaccioso di un potente avversario di destra, sia nella versione fascista, che in quella potenzialmente disgregatrice dell'unità nazionale.
Questa posizione è sbagliata sul piano immediato/sindacale, perchè l'avversario non concede alcuna tregua (la Fiat l'ha immediatamente ricordato con l'annuncio di 15mila "esuberi"); ed è sbagliata sul piano politico generale, perchè fa prevalere il ricorso (e le connesse illusioni) allo strumento della delega elettoralistica rispetto a quello della lotta, l'unico veramente utile alla causa operaia
Un movimento generale di lotta sull'occupazione è, per il proletariato, sempre più urgente. Le spinte alla sua costruzione provengono sia da fattori oggettivi che dall'esperienza soggettiva che la classe va accumulando. Ma alla sua realizzazione si frappongono ostacoli di ogni natura, interni ed esterni, "naturali" e artificiali.
L'ostacolo principale interno alla classe è la dimensione aziendalistica con la quale gli operai sono portati ad affrontare il problema dell'occupazione, legandolo esclusivamente a questioni di gestione o di capitalizzazione aziendale (una convinzione che può tranquillamente convivere con la consapevolezza individuale che la crisi in atto sia generale e mondiale). Tanto più l'orizzonte aziendalistico si rafforza quanto più vacilla la fiducia nella possibilità di influenzare con la lotta generale le grandi scelte economiche e sociali. Il riformismo ha delle responsabilità storiche decisive nel determinare l'uno e l'altro aspetto, e la micidiale spirale che il loro intrecciarsi sviluppa. Il farsi carico delle "compatibilità dell'economia nazionale" porta a ritenere naturale che per difendere lavoro e salario si debba difendere innanzitutto la competitività dell'azienda e il suo mercato, ma porta anche ad accettare la logica "dei sacrifici necessari" con i conseguenti cedimenti su tutti i piani che inevitabilmente comportano agli occhi operai una perdita di fiducia nella validità ed efficacia delle stesse lotte generali. Tutto ciò rende quanto mai problematico avvertire come ogni singolo caso di licenziamenti o mobilità sia sorretto da una strategia di attacco di classe mirante a scaricare sulla classe operaia le conseguenze della crisi, incrementarne lo sfruttamento nel tentativo di "salvare" il capitale aziendale o nazionale, scompaginarne l'assetto organizzativo sindacale e politico.
In conseguenza di ciò la costruzione di un fronte basato su obiettivi di lotta unificanti è quanto mai difficile. Ancor più difficile è nella situazione odierna con la classe operaia che esce da una fase di grandi lotte senza apprezzabili risultati (se non quello, comunque non scarso, di aver costretto l'avversario a rallentare la sua marcia d'attacco) e con una direzione riformista attanagliata tra il rischio di veder completamente scompaginare la propria classe di principale riferimento e il terrore che una resistenza "troppo" decisa a quell'attacco indebolisca ulteriormente il "proprio" capitalismo, già, per parte sua, attorcigliato in una crisi, interna e internazionale, che potrebbe procurargli danni irreparabili.
Vari esponenti riformisti, raccogliendo a modo loro quella spinta che pure dalla massa operaia è venuta crescendo, cominciano a cogliere l'insufficienza delle lotte azienda per azienda, e cercano di porre obiettivi generali, pur sempre nel quadro di difesa e di rafforzamento del capitalismo nazionale, quali le "politiche a difesa dell'occupazione". L'obiettivo in sé può apparire come una riproposizione rituale di rivendicazioni d'antan, stanca ripetizione delle "solite politiche riformiste". La formulazione è, infatti, la stessa. La portata politica affatto.
Per dare corpo alle "politiche per l'occupazione" il riformismo ha formulato una varietà di proposte, progetti, "piani di sviluppo", "politiche industriali". In altra epoca (qualche anno fa...) si sarebbe aperta una competizione tra le varie "parti" sociali e politiche per proporre la più efficace "politica per lo sviluppo". Oggi tutti gli interlocutori rispediscono al mittente tali proposte. Non piacciono, infatti, a Confindustria, ma neppure a Segni e Berlusconi, per non dire di Bossi e Pannella. Ormai non solleticano neanche l'ex-DC. Tutti le respingono per lo "statalismo" che le connota, dato che assegnano allo Stato il ruolo di esecutore centrale, sia esso agente diretto o controllore di soggetti "privati", mentre tutti costoro concordano sulla necessità di "abolire definitivamente l'intervento dello Stato nell'economia", di cancellare ogni residuo di quello che chiamano "socialismo reale". E' la "nuova frontiera" del liberismo, ovvero della completa libertà del capitale di usare gli operai -a loro volta "liberati" da ogni tutela organizzata-. Una frontiera per cui sono mobilitate, ormai, forze sociali e politiche in gran numero, forze che in un domani prossimo saranno, a loro volta, costrette a invocare l'intervento dello Stato (identica parabola toccò anche al fascismo, nato liberista e finito statalista sotto l'incedere della crisi degli anni '30) in passaggi della crisi più acuti dell'attuale, purchè ciò avvenga senza nulla concedere al proletariato in quanto classe, se non quel minimo indispensabile a garantirsene il consenso nello scontro con gli altri concorrenti imperialisti.
I "piani di sviluppo" riformisti mirano, naturalmente, a conciliare l'interesse operaio e quello nazional-capitalista e, per questo, assumono come terreno fondamentale la difesa dell'industria nazionale a partire da quei settori che la concorrenza internazionale rischia di costringere a vero e proprio smantellamento, come chimica, siderurgia o auto. Su questo piano le proposte riformiste trovano un qualche ascolto interessato da parte del grande capitale, al quale un certo ruolo "nazionale" della classe operaia non dispiacerebbe, purché, in nome dello stesso ruolo, gli operai siano disposti a lasciarsi sfruttare di più. Tipico è il caso della Ilva di Taranto. A fianco degli operai in piazza contro la chiusura dei forni decisa dalla Cee, sono scesi anche dei rappresentanti padronali, i quali, però, non hanno perso l'occasione per ricordare che, quand'anche si riuscisse a tenere aperti tutti i forni, per renderli competitivi bisognerebbe tagliare, comunque, mille o duemila posti!
D'altra parte qualunque proposta il riformismo "operaio"-borghese delinei per "piani di sviluppo" che tengano conto delle necessità elementari della classe operaia, fosse pure la più nazionalista, contiene inevitabilmente l'insopportabile (per tutti i possessori di capitale) corollario di prospettare una diversa redistribuzione delle risorse, cioè, in sostanza, un uso "produttivo" e "sociale" anche di quote di risparmio privato. Per quanta buona e sincerissima volontà il Pds (ma anche Rifondazione non scherza, v. posizione sulla minimum tax) profonda nell'assicurare i "risparmiatori" sulle intezioni di non intaccarne i risparmi né i metodi di moltiplicarli, non può evitare -salvo perdere definitivamente il suo legame operaio, quindi, semplicemente sparire come forza politica- di porre, per esempio come fa Reichlin su "l'Unità" del 26.11.93, l'esigenza di "convertire il risparmio verso gli impieghi produttivi", per evitare che "il popolo si spacchi sempre più tra chi lavora e paga le tasse e chi si appropria di risorse crescenti senza produrle". Ma da questo orecchio, quello di destinare i propri risparmi a "piani di sviluppo" buoni a salvaguardare l'occupazione operaia, le intere classi "medie" e "alte" -non solo i loro "campioni" rappresentanti politici- non hanno alcuna intenzione di sentire, tanto più nell'incedere di una crisi che rende anche il loro futuro sempre più incerto.
Persino la proposta di CGIL e Pds di utilizzare il patrimonio immobiliare degli Enti Pubblici a mo' di garanzia di un prestito pubblico a fini di investimenti a sostegno dell'attività produttiva, e quindi dell'occupazione, è stata, dal governo Ciampi in primis, lasciata cadere senza risposta.
Se i settori di classe che hanno già cominciato ad avvertire la necessità di estendere e unificare la lotta contro i licenziamenti e per l'occupazione riprenderanno, prima o dopo le elezioni, questo cammino si troveranno, inevitabilmente, a rinnovare la propria coscienza riformista, assumendo la logica e le proposte che le vengono formulate dalle direzioni sindacali e politiche. Ma pure attestandosi su quel limitato e contraddittorio (per gli interessi di classe) terreno, quel che si aprirebbe sarebbe un vero e proprio scontro di classe.
Finora il grado di accoglienza operaia di tali obiettivi è stato, tranne che in alcuni settori, piuttosto freddo. La ragione non risiede nel fatto che gli operai preferirebbero obiettivi più "duri" e più "anticapitalistici", ma semplicemente nel fatto che ritengono più "credibile" pensare alla singola "propria" azienda, e anche quando vanno alla ricerca di alleanze lo fanno esclusivamente allo scopo di rafforzare la loro lotta pur sempre sul piano aziendale.
In una parte della "sinistra" (Rifondazione, Consigli, parti di Pds, "Il manifesto", ecc.) si va diffondendo l'idea che sia giunto il momento di puntare tutto sulla riduzione dell'orario di lavoro a parità di salario per redistribuire il lavoro e il tempo di vita in "alternativa a un modello di sviluppo che riduce la condizione umana alla sola dimensione del profitto". Che questo tema inizi a essere discusso in ambienti "operai" non può che fare piacere a chi come noi si batte da sempre per obiettivi che consentano di stabilire un argine difensivo autonomo di classe all'offensiva capitalista, ma ciò non può evitarci di rilevare due profonde contraddizioni. La prima è nella illusione di poter rendere più umane le condizioni di vita dei lavoratori sottraendole un pezzo alla volta alla dominazione del profitto, ma senza disfarsi -né previamente né mai- del capitalismo, per di più in un momento in cui il capitale deve, per la sua stessa sopravvivenza, ancora di più estendere il dominio del profitto a tutti gli aspetti della società. La seconda è nella pretesa di dare a questo obiettivo un valore "di attacco" in una fase in cui è problematica la stessa difesa. A tal punto, peraltro, si ignorano i reali rapporti di forza tra le classi, da scambiare l'uso in Germania e Francia di qualcosa di molto simile ai "contratti di solidarietà" per l'affermarsi di una tendenza generale alla riduzione dell'orario di lavoro!
Dove siano le forze per avviare e vincere uno scontro di tale portata è difficile a dirsi per gli stessi assertori di questa logica, visto che il massimo che sentono di poter fare (v. quel che resta del movimento dei consigli) è di cercare di raccogliere 50mila firma per proporre una legge al Parlamento! D'altro canto la visione generale che domina in certi ambienti, rigorosamente a-classista, conduce a non porre l'obiettivo della riduzione d'orario come necessità di una classe, bensì come un interesse generale della società, in tal senso approvabile pacificamente da tutti suoi membri. Lungi, quindi, dal cercare di operare per dislocare le forze operaie, con i propri classici strumenti di battaglia, si tende, tuttalpiù, a dare vita a qualche altro movimento di opinione, di democratica pressione.
A nostro avviso, invece, il primo passo fondamentale cui vanno finalizzate tutte le energie operaie è quello di una unificazione di tutta la classe attorno all'obiettivo di bloccare tutti i licenziamenti. Solo compiendo questo passaggio e dando vita a una reale unità di lotta, obiettivi come quello della "riduzione d'orario a parità di salario" potranno diventare realmente credibili per la massa operaia.
Lo svolgimento delle elezioni e il loro esito non muterà per la classe operaia l'esigenza di affrontare i problemi lasciati in sospeso dopo il 28 ottobre, quelli di estendere, unificare e centralizzare la lotta per l'occupazione, di dare continuità e forza alla lotta di resistenza contro l'attacco capitalistico. I comunisti continueranno a battersi affinché l'estensione e l'unificazione avvengano su obiettivi come la riduzione generalizzata dell'orario di lavoro a parità di salario, così come continueranno a battersi affinché la centralizzazione del proletariato avvenga in una organizzazione politica che recida tutti i ponti con il riformismo, ma saranno pronti ad appoggiare e sostenere il proletariato anche se dovesse attestarsi su rivendicazioni più "moderate", purché coerenti con la prospettiva di lotta generale e centralizzata, e che spingano gli operai a schierarsi in quanto classe, ben sapendo che solo attraverso i passaggi (sempre difficili e seguiti da inevitabili rinculi) di uno scontro generale, gli operai possono verificare la necessità di una loro autonomia politica e organizzativa, riconquistare la loro coscienza di classe, e, con essa, ricostruire il proprio partito.