Verso il congresso del Prc
SULLE TESI DI RIFONDAZIONEDi Rifondazione Comunista ci siamo occupati più d'una volta. Le tesi per il prossimo Congresso ci danno l'occasione di tornare a parlarne. Lo facciamo esaminando solo alcuni punti del documento, che ci sembrano tra i più significativi della complessiva linea sotto-riformista che pervade l'intera pratica politica di questo partito, comprese le ultime "giravolte" verso una "sinistra di governo". A ciascuna di queste tesi, sinteticamente riportata, facciamo seguire la nostra "controtesi", tratta da quel comunismo classico che non abbisogna di alcuna "rifondazione", ma solo di rivivere integralmente nella ripresa della lotta di classe del proletariato.
TESI. I, 1-5. Rifondazione riconosce che la rivoluzione d'Ottobre è stata l'inizio di un movimento di liberazione degli oppressi, ma sente su di sé il peso di una "sconfitta storica" subita da quel movimento in connessione col "disfacimento di quel sistema statuale sorto e sviluppatosi in Russia dopo il '17". Di qui, appunto, la necessità di una rifondazione autentica, "che è il contrario di continuità", ma implica un "complessivo riposizionamento", "innovazioni teoriche, programmatiche, organizzative".
Non si possono rimuovere le ragioni della crisi del "socialismo reale", pena il restringersi degli orizzonti in una "ripetitività nostalgica e residuale". Un giudizio ed un'analisi rigorosa sul tema "sono ancora da svolgere", "e così pure l'analisi dell'insuccesso dei diversi tentativi che ne (del socialismo, n.) hanno cercato una riforma, sino all'esito non positivo della perestrojka". E' bene che su ciò il partito "mantenga aperto l'orizzonte problematico della propria riflessione, rifuggendo da risposte semplificate di vario segno".
Ma, intanto, si possono individuare tre linee di slittamento dell'esperienza rivoluzionaria sovietica: A) sul piano dell'organizzazione economico-sociale va criticata "la collettivizzazione generalizzata e con la gestione diretta e centralizzata da parte dello Stato e del suo apparato burocratico" che "ha progressivamente soffocato il protagonismo sociale dei lavoratori" ed ha portato ad una "rottura" con la "società civile"; B) relativamente al piano politico, va messa in causa la "sostanziale negazione del pluralismo politico" e le relative "garanzie di libertà di coscienza, di religione, di opinione, di associazione"; non c'è sviluppo socialista "se manca la democrazia politica"; C) sul piano internazionale, va rilevato che "all'iniziale forte spirito internazionalista", perdurato "sino alla vittoria contro il nazifascismo", "sono venute via via più volte a sovrapporsi, dopo la fine della Seconda guerra mondiale, politiche di potenza che hanno portato l'URSS e il PCUS a interferire sulla politica di altri stati e partiti".
CONTROTESI. Il comunismo autentico sta in linea non "d'innovazione", ma di continuità con la tradizione marxista dell'Ottobre. Ciò che va "ripensato", dalle forze che hanno, a suo tempo, sostenuto la linea di deriva stalinista da questa "tradizione", sono i fondamenti di questa stessa linea. Essi stanno nella teoria e nella pratica del "socialismo in un solo paese", con cui si isolava il fenomeno-Russia dal movimento rivoluzionario internazionale, riducendo, per forza obiettiva di cose, la "costruzione del socialismo" in Russia alla messa in piedi di un apparato produttivo "moderno", cioè: capitalista (sotto l'aspetto di "capitalismo di stato"), e l'"internazionalismo" ad una subordinazione del movimento proletario degli altri paesi alla causa della "patria del socialismo", con le conseguenti svariate svolte "tattiche" pro-URSS (dal "socialfascismo" ai "fronti popolari").
Sul piano economico-sociale la statalizzazione sovietica promossa dallo stalinismo puó essere criticata per il carattere di costruzione di rapporti capitalistici di produzione sotto l'illusoria veste di "collettivizzazione", non "in quanto tale" in astratto.
Il Lenin della NEP era stato quello delle massime concessioni compatibili alle leggi, interne ed internazionali, dello sviluppo capitalista, attraverso il quale anche la rivoluzione politicamente comunista sarebbe dovuta transitare. Ma questo piano di concessioni era correttamente subordinato a quello di attacco generalizzato (e centralmente pianificato) al capitalismo internazionale da parte delle forze comuniste mondiali organizzate nell'Internazionale Comunista. In questa visione, gli stessi indirizzi economico-sociali interni all'URSS erano subordinati allo stato maggiore dell'Internazionale (e non di un isolato partito comunista -sempre più tra virgolette- russo).
Al di fuori di questa visione, integralmente e profondamente marxista, rileviamo che il centralismo statale realizzato dallo stalinismo rappresentava, nelle concrete condizioni dell'URSS, una necessitá assoluta (in senso nazional-borghese), dinanzi alla quale é illusorio e controrivoluzionario persino rispetto ai soli parametri borghesi ipotizzare la via di un "decentramento", magari a base di "autodecisione" operaia o della "societá civile" (!). Ció si ridurrebbe alla petizione classica della socialdemocrazia di allora, dei Turati e dei Noske: lasciate al "popolo" (alla borghesia) la gestione dei processi economici, immaturi per una trasformazione socialista; lasciate, di conseguenza, anche il potere politico. Cioè, sempre rimanendo nel concreto: aprite "liberamente" l'URSS al dominio delle classi proprietarie interne ed a quelle, ben piú solide, del capitale "modernizzatore" internazionale. Su ciò ci permettiamo di collocare Stalin (sempre da un punto di vista borghese) alla sinistra di Rifondazione. Non a caso, dell'esperienza capitalistica sovietica si recupera qui non la sua fase rivoluzionaria, persino "eroica" -sotto questo profilo-, ma il tentativo di "riforma" gorbacioviano, che viene alla conclusione di quel ciclo e ne consacra gli esiti più ingloriosi.
Sul problema della democrazia, ci limitiamo a rilevare che il crimine dello stalinismo non fu nell'offesa alla libertà del "pluralismo" borghese (giacché di questo solo qui si parla), ma nell'aver soffocato nel sangue l'autentico partito bolscevico (piccolo particolare di cui non troviamo eccessiva traccia neppure nelle tesi "alternativiste", che ben si guardano dall'anche solo nominare Trotzkij!) e ridotto a coefficiente zero di comunismo le rimanenti sezioni dell'Internazionale (a cominciare dall'Italia; e qui ancor meno potremmo aspettarci "riposizionamenti" da parte rifondatrice ufficiale od alternativista).
Quanto all'internazionalismo è chiara la nostra "critica" al preteso internazionalismo stalinista, che non a caso mette capo nel '43 all'"autoscioglimento" dell'IC dopo che questa era già stata distrutta in quanto tale.
Ci guardiamo bene, invece, dall'invocare a criterio di giudizio negativo l'"interferenza" moscovita, in nome del diritto di ogni partito "comunista" nazionale a disporre liberamente di sé stesso per costruire la sua variante "indipendente" di "socialismo". Nell'IC di Lenin tutte le sezioni "nazionali" dell'unico partito comunista mondiale "interferivano" su tutto. Noi sinistri non ce ne siamo mai lamentati, anche quando da Mosca arrivavano a Roma indirizzi vincolanti in ordine tattico e d'azione da noi non condivisi. L'IC di domani dovrà ancor più avere forma di piramide con il vertice "interferente" sulle singole realtà "nazionali". Come in passato, la validità delle direttive centrali dipenderà dall'efficienza unitaria dell'insieme della piramide così strutturata e non da astratte regole "democratiche" di decentramento, autonomia, indipendenza, meno che mai su base "nazionale".
Non leggiamo le cause della controrivoluzione in URSS entro i suoi confini nazionali, ma nelle debolezze, negli errori, nelle sconfitte dell'insieme del movimento comunista internazionale. Da qui si potrà risalire solo capitalizzando le ragioni della sconfitta degli anni venti da un coerente punto di vista marxista, autenticamente internazionalista, centralista, dittatoriale. L'esatto contrario della "linea di ripensamento aperta" di Rifondazione con le sue tradizionali opzioni socialdemocratiche in tema di "democrazia" e "sovranità nazionale" e perfettamente leghista quanto alla concezione dell'internazionalismo proletario (che si spinge, al massimo, ad un modello federativo dei rapporti tra partiti comunisti nazionali indipendenti e sovrani).
TESI. I, 6-10 Siamo ad una crisi strutturale del capitalismo mondiale che si accompagna ad una "gigantesca opera di ristrutturazione internazionale degli assetti capitalistici". E' a questo punto "impraticabile la riproposizione di margini riformistici o meramente gestionali del sistema", ma s'impone "un'ipotesi di critica radicale dell'esistente e di trasformazione". Infatti "è mutato il modo di produrre del capitalismo, che riorganizza la società in forme autoritarie, demolendo le conquiste democratiche e sociali". Siamo al "dominio assoluto del mercato e del profitto nella determinazione delle scelte e degli orientamenti dell'economia", al "dominio crescente dell'economia su ogni altra dimensione umana".
Di qui la necessità di una "programmazione sociale della produzione (che) non sia frutto di un piano imposto" ma corrsisponda alla "partecipazione ed al consenso sociale e politico della grande maggioranza della popolazione". "Tale trasformazione non è e non può essere il prodotto né di una rottura improvvisa, somma di innumerevoli ragioni di rivolta, né la convergenza di molteplici e disperse iniziative", ma necessita di un "progetto". Di più: "il termine "comunista" non può più, di per sé, essere sufficiente a definire percorsi, ad evocare obiettivi, ad organizzare lotte" perché "gli attuali assetti capitalistici sono in buona parte diversi da quelli che hanno formato l'oggetto del pensiero di Marx e di parte della tradizione marxista" ed intervengono, oggi, nuovi soggetti, misconosciuti per l'innanzi dal marxismo, e di cui si dirà subito appresso.
CONTROTESI. Nessun mutamento di sostanza si è verificato nel capitalismo dai tempi di Marx ad oggi. Marx non si è limitato a "vedere" il capitalismo così com'era ai suoi tempi, ma ne ha disegnata intiera la dinamica futura avendone scoperte e scandagliate a fondo le leggi costitutive. Con L'imperialismo, Lenin non ha fatto che "aggiornare" l'analisi marxista ai concreti sviluppi successivi, "geneticamente" inscritti nel capitalismo dei tempi di Marx. I processi di concentrazione e centralizzazione, da allora, sono andati ulteriormente avanti ed oggi stanno venendo ulteriormente al dunque, rendendo più che mai attuale il dilemma "socialismo o barbarie". Una novità il "dominio dell'economia, del profitto"? Ma su quale pianeta siete sin qui vissuti?
"Marx non ha prospettato un salire e poi un declinare del capitalismo, ma invece il contemporaneo e dialettico esaltarsi della massa delle forze produttive che il capitalismo controlla, della loro accumulazione e concentrazione illimitata, e al tempo stesso della reazione antagonistica, costituita da quella delle forze dominate che è la classe proletaria." (Bordiga, Teoria e azione nella dottrina marxista, 1951). La "novità" attuale è che questo processo del modo di produzione capitalistico ha toccato vette massime (ma non ultime) e che, del pari, crescono le ragioni della "reazione antagonistica" proletaria.
In queste condizioni, per quanto arretrate siano le condizioni effettuali di questo antagonismo (virtuale), ed anzi proprio in ragione di esse, non ha nessun senso cianciare di una "critica" del sistema che abbia per "progetto" di ridimensionare la logica capitalistica ad un imprecisato "nuovo modello", concrescente all'interno di questo sistema, che realizzi un "attenuato" dominio dell'economia "su tutto il resto", e consenta di sostituire le leggi del profitto con una "determinazione" sulla produzione tramite esercizi di "democrazia" da parte della "popolazione" ("intesa nella sua complessità sociale") secondo criteri "altri". E' la macchina che va spezzata.
Non si potrà farlo d'un colpo? Giusto, se s'intendesse precisare che a tanto si può arrivare attraverso una progressiva (non: graduale) organizzazione concentrata di un antagonismo tuttora disperso e confuso. Giusto, se si dicesse che questa non sarà l'opera di un proletariato isolato dal resto della società. Ma qui il discorso è diametralmente opposto. Mentre si dice della nullificazione dei "margini riformisti", si recupera intero il riformismo nel postulare una sorta di passaggio dal capitalismo ad una qualche forma di "post-capitalismo" per la via di un contro-decisionismo "democratico" e interclassista. Lo vedremo meglio dopo.
TESI. I, 11-16."La chiave di lettura che scaturisce dall'analisi della contraddizione capitale/lavoro non dà la possibilità di vedere, comprendere ed affrontare aspetti non esclusivamente economici che pure sono fondamentali per il vivere umano". Esempi: la questione del rapporto con la natura, che "non potrà più essere considerata semplicemente una "risorsa", cui attingere illimitatamente" ma con cui si tratta di convivere "senza abuso di forza, equo scambio, equilibrio"; cosa possibile solo se "gli esseri umani riconoscono di volta in volta la propria parzialità, il proprio limite di soggetto".
Secondo esempio: la questione della donna, anzi: la differenza di sesso, secondo l'insegnamento "dei movimenti delle donne" che hanno individuato "nel mondo un ordine apparentemente neutro, ma di fatto totalitario, che, alla pari di quello capitalista, crea illibertà, ingiustizia, miseria e che, similmente a quello, sembra talmente connaturato all'esistenza umana da apparire come inevitabile". La "parte di umanità femminile" costituisce perciò "un genere politico, soggetto finora imprevisto, che prefigura e intende affermare un ordine fondato sulla giustizia, la libertà, l'equità"...
S'impone quindi una "critica radicale dell'economicismo che è stato il limite del movimento operaio". Se "la classe operaia resta elemento centrale dell'antagonismo" come "elemento di mediazione tra rivolta degli sfruttati (..) e le nuove esigenze storiche di uno sviluppo diverso", "essa tuttavia non ha, di per sé, né la compattezza né la forza intrinseca per produrre oggi una egemonia alternativa" senza "l'apporto qualitativo, e non solo l'alleanza e il consenso, di altri e nuovi protagonisti sociali (..) quali le contraddizioni ambientali e di sesso".
Inoltre, occorre tener conto, sul piano sociale, "di una vasta area di lavoro autonomo molto diversificata entro la quale sono ampi i settori colpiti oggi nel loro ruolo e nella loro autonomia dalla ristrutturazione capitalistica in atto". In generale, "occorre valorizzare tutte le culture e i movimenti sociali antagonisti".
CONTROTESI. Solo chi non ha mai masticato una briciola di marxismo può intendere l'economia in senso ristretto, "volgare". Parlare di struttura economica significa parlare di produzione e riproduzione di rapporti sociali, tra esseri umani (in quanto soggetti sociali) a tutti i livelli. E in questo senso il rapporto uomo-donna, uomo-natura rientrano appieno nel discorso. Si tratta di rapporti sociali, epperciò storici, determinati, non di un qualcosa che sta a sé. La soluzione dei problemi ad esso inerenti s'inscrive pertanto nell'antagonismo tra capitalismo e socialismo.
Non è una novità per il movimento marxista la questione "natura". Sin dai suoi esordi il capitalismo -il capitalismo, non l'"uomo"- ha considerato la natura quale semplice preda da spogliare in nome del profitto attraverso lo sfruttamento della merce-lavoro. Il rapporto città/campagna reca sin dagli inizi questo contrassegno di un rapporto distorto con la natura (e con la natura umana), e basti per ciò riandare alle memorabili pagine di "ecologia sociale", di "ecologia integrale" se volete, di Marx ed Engels.
L'ulteriore crescita delle forze produttive, sempre al servizio del profitto ed al di fuori di ogni controllo sociale, non fa che dilatare agli estremi questo problema che stava "ab ovo". Ma proprio questo implica da parte del proletariato -e solo esso può coerentemente farlo- un programma di rapporto intelligente con la natura che passa attraverso una rivoluzione nei rapporti sociali complessivi. Il "nuovo soggetto verde", a misura che non si lega a questo progetto, può benissimo girare in motorino, come il sindaco "progressista" Rutelli, per non inquinare, ma si porrà sempre ad elemento di difesa di questo sistema, con tutto il suo carico di distruzione della natura e schiavizzazione (e rincoglionimento) dell'uomo.
O si tratta di convertire le "coscienze" dei "singoli"? Tanto qui appare, al punto che si parla di una diabolica propensione individuale ad un rapporto non... democratico con la natura, quasi quasi scritto nei geni ereditari della specie al punto da parer quasi "inevitabile". Siamo alla teoria "rifondata" del peccato originale! Non c'è male...
La storia ha già conosciuto esempi di rapporti intelligenti ("equi") con la natura, nelle società comuniste primitive cui era sconosciuta la nozione di profitto. Ad una scala storica superiore ne conoscerà col socialismo -società in cui la soddisfazione allargata dei bisogni umani sarà finalmente libera dalle esigenze del profitto- quando si potrà attingere alle risorse della natura in modo equilibrato e dopo aver eliminato la produzione di merci inutili e dannose che costituiscono oggi il 90% della produzione stessa.
Tanto vale per il rapporto uomo-donna, in cui storicamente si è cristallizzata ai danni della donna una "doppia oppressione". Come la questione "ecologica" rappresenta un fattore specifico dentro la contraddizione capitalismo/socialismo, quella della donna implica per il movimento operaio la piena assunzione della sua "specificità" nello stesso ordine di rapporti. Il che esclude che la causa dell'emancipazione femminile possa essere demandata ad indistinti "movimenti femminili" che, al massimo, possono individuare (e non risolvere) le contraddizioni uomo/donna sociali al punto terminale ("concreto") delle sue manifestazioni immediate senza mai arrivare ad aggredirne le cause all'origine.
Non si dice di ignorare la "specificità", al contrario. Si tratta di riprendere sino in fondo la linea storica del movimento marxista (c'è un'imponente letteratura -e non solo- in proposito), contrastando ogni linea di separazione (cioè di assolutizzazione in un astratto metastorico) del problema. Che è poi l'unica strada per ricondurre a coerenza anticapitalista i movimenti parziali che su questo terreno si muovono.
Al di fuori di ciò, si può ben fare del "femminismo" (o "ecologismo") interclassista, ma al prezzo di lasciarne l'iniziativa ai pruriti piccolo-borghesi, ai salotti od ai "movimenti" delle mezze classi ed alla loro rincorsa a "nicchie pulite" entro la società attuale. Il tutto mentre i proletari respirano veleno e le donne proletarie continuano a subire la loro buona dose di "doppia oppressione".
Che dire poi dell'"autonomia" dei "lavoratori indipendenti" schiacciati dal capitalismo? Non più di quello che nel Manifesto è detto: anche ad essi il proletariato indica una via di salvezza in avanti, a patto che assuma la bandiera della riappropriazione del lavoro (già "socializzato" dal capitalismo stramaturo) da parte della società ed a fini sociali. Il che è l'esatta negazione dell'"autonomia proprietaria individuale" e dell'anticapitalismo reazionario di questi "nuovi (!) soggetti".
Ma come arrivarci se il conflitto capitale/lavoro si riduce ad una "mediazione" tra varie, distinte, autonome aree di conflitto? Se si nega al proletariato (la classe storicamente chiamata all'abolizione di tutte le classi) la funzione di cui è storicamente, oggettivamente investito?
A questo punto l'"anti-economismo" si rivela per quel che esso, miserabilmente, è: l'accettazione del "pluralismo" connaturato all'essere concreto del sistema attuale con vaghe velleità di ridefinizione "democratica" dei rapporti tra essi intercorrenti, col proletariato ridotto ad un elemento tra gli altri della "complessità dei soggetti esistenti" (e moltiplicantisi); un elemento, al massimo, da tutelare -versione "ecologica" di "specie protetta"- in quanto "parte debole", "sfavorita" (per leggi di natura?).
TESI. II, 1-9. "La crisi del sistema capitalistico mondiale si presenta con caratteri generali e strutturali". A pagarla ulteriormente sono i paesi del Sud del mondo e le classi sociali sfruttate, stavolta anche nelle stesse metropoli. Siamo di fronte a "caratteri nuovi dello sviluppo imperialistico", con "un più elevato grado di concentrazione del capitale, favorito dalla forma sempre più finanziaria del dominio capitalistico e il suo carattere sovranazionale (oltre i monopoli dei singoli paesi), con una mondializzazione dell'economia e la formazione di una oligarchia finanziaria internazionale". USA, Germania e Giappone si contendono il predominio nel nuovo ordine mondiale.
"La fine dell'URSS, il venir meno di un forte contrappeso e di sostegno obiettivo a vari movimenti di liberazione nazionale e sociale, ha allentato la coesione tra le maggiori potenze capitalistiche".
"I regimi che si sono instaurati dopo il 1989 in Europa centro-orientale e in Russia sono stati, nella maggioranza dei casi, regimi reazionari", "con una dichiarata volontà di restaurare i vecchi rapporti di proprietà e di attuare politiche liberiste" sulla traccia degli imperativi del FMI, ma "la realizzazione di queste politiche sta incontrando grandi ostacoli e stanno emergendo profonde contraddizioni sociali e politiche": "i recenti risultati elettorali in Lituania e in Polonia indicano che il processo di restaurazione capitalistica e di svolta reazionaria in quei paesi appare tutt'altro che consolidato e irreversibile".
"La lotta, lunga e difficile, per avanzare verso un diverso ordine internazionale ha, come assi portanti, il rinnovo del trattato di non proliferazione nucleare (..) il divieto della militarizzazione del cosmo, (..) lo scioglimento di tutti i patti militari tra gruppi di paesi (..) e la funzione di risoluzione dei problemi della sicurezza collettiva ad organismi internazionali (come l'ONU) o regionali (come la CSCE in Europa ...), a condizione che tali organismi vengano radicalmente democratizzati" , la riduzione dei bilanci militari e la destinazione delle quote di capitali da ciò liberati per gli aiuti al Sud; "l'abolizione del debito estero dei paesi sottosviluppati"; "una cooperazione tra Nord e Sud del mondo" volta a promuovere nel Sud lo "sviluppo locale"; "l'introduzione di un sistema internazionale di norme per assicurare l'equilibrio ecologico del pianeta".
"Su tali obiettivi (o parte di essi) può e deve essere costituito un movimento internazionale "per il disarmo e lo sviluppo sostenibile" in cui, accanto alle forze antimperialiste, trovi convergenza "uno schieramento assai più largo, che comprenda forze nazionali, religiose, di pace, incluse una parte di quelle che si riconoscono nell'Internazionale socialista" (rispetto alla quale Rifondazione si pone come forza "autonoma").
Esistono al mondo, per questa battaglia, delle forze comuniste in vari paesi anche se "non è facile tracciare oggi con nettezza i confini politici e ideali della (sua) presenza". "Sarebbe dunque difficile e sbagliato, in una situazione di movimento come quella presente, delimitare formalmente e organizzare un movimento internazionale di comunisti, strutturato e distinto da un quadro più ampio di forze di sinistra anticapitalistiche". Va sì abbracciata una visione internazionale di rapporti tra comunisti, ma "senza che ciò faccia riaffiorare il fantasma dell'Internazionale comunista o di nuovi centri dirigenti..."
CONTROTESI. Si comincia con un apprezzabile tentativo di considerare la realtà di un sistema di "mondializzazione" dell'economia nei classici termini propri dell'imperialismo. Ma, intanto, si va subito a rimpiangere il passato bipolarismo, con un'URSS territorio "altro" rispetto ai parametri capitalistici ed agente in funzione "oggettiva" di elemento utile a preservare la pace e la liberazione nazionale e sociale di altri stati.
Neppure una parola sulle ragioni strutturali del collasso del sistema dell'Est, che parrebbe doversi imputare a improvvide "politiche reazionarie", comunque reversibili a suon di... elezioni alla polacca o alla lituana (con l'aggiunta dei peones parlamentari russi). La "reversione" cui si guarda altro non è che un aggiustamento morbido verso un "mercato regolato" in ristretti ambiti nazionali (obiettivo, per altro, alquanto utopico nell'ambito delle relazioni "mondializzate" in cui essi si trovano tuffati).
A parte questo ritorno di fiamma per il defunto sistema stalinista (in patente contraddizione con quanto precedentemente affermato sul suo carattere non socialista), il punto centrale è un altro.
Dopo una descrizione abbastanza veritiera della realtà dell'imperialismo, si passa alla proposizione di un "programma" di una sua sostanziale modifica, "democratica" come al solito, con dentro di tutto, dalla "nuova" ONU poliziotta fedele del vagheggiato "nuovissimo ordine mondiale" al disarmo, etc. etc., sino ad una cooperazione equa tra Nord e Sud "uniti nella lotta". E democratici sono, naturalmente, anche i mezzi indicati per conseguirla: una "pressione" costante e allargata da parte di "tutti gli uomini di buona volontà" (roba da "Mater et Magistra"!).
Per mettere il pupo a dieta vegetariana basterà, dunque, che tutti noi, "cittadini del mondo", "ci pronunciamo".
Sarebbe stato molto più interessante se oltre ai "confortanti" test elettorali polacco-lituani si fosse fatto un accenno alla lotta dei paesi dominati e/o controllati. Non ve n'è traccia. A meno che essa non vada individuata nell'esempio della "formazione effettiva di uno Stato palestinese" (di cui è facile immaginare l'autonomia nell'opera di repressione, a pro dell'ordine mondiale vigente, delle istanze radicali di liberazione nazionale e sociale), dell'esistenza di stati in Africa australe, Medio Oriente e Nordafrica dotati di "importanti risorse e potenzialità economiche, che rappresentano un elemento di resistenza al nuovo ordine mondiale (che si guarderà bene dall'accaparrarsele...), o dell'essor capitalistico in Vietnam, Corea e Cina.
Ma davvero l'emergere eventuale di nuove forze economiche e statali (di che natura sociale?) collidenti col tripolarismo in atto costituisce un elemento di ristabilizzazione "democratica" nell'ambito dell'imperialismo e della sua "mondializzazione" dell'economia? E' vero il contrario. Ciò che potrà spezzare l'ordine attuale non sta in questi stati (e relative borghesie), ma nella lotta rivoluzionaria degli oppressi contro il nemico capitalista in casa propria e contro il sistema di relazioni di dominio e controllo su di esso esercitato dalle centrali imperialiste. Il che implica necessariamente, per risultare vincente, la saldatura tra oppressi della periferia e proletariato metropolitano. (Tra parentesi: la condizione prima sotterrata dallo stalinismo; ma qui, al solito, stiamo le mille miglia al di sotto di esso).
C'è poco da sperare che Rifondazione abbozzi qualche passo in questa direzione. Primo perché alla massa degli oppressi e del proletariato (un proletariato, si badi bene, "numericamente in crescita a livello internazionale") sostituisce il principio "non economicista" del "fronte largo" di cui sopra s'è detto, che va dalle "libere" o "non omologate" borghesie statuali del Sud del mondo al vario pretume d'ogni colore. Secondo perché, in stretto rapporto con ciò, esclude a priori "il fantasma dell'Internazionale Comunista", e non perché sia oggi, com'è, effettivamente difficile individuarne i soggetti anche solo lontanamente potenziali, ma perché va esclusa in linea di principio ogni "interferenza" tra partiti "nazionali". E' chiaro: "comunisti" sì, ma innanzitutto e rigorosamente ITALIANI. La Patria non si tocca; noi ne siamo i garanti.
L'esempio più clamoroso dell' incapacità di porsi su basi marxiste è offerto dal vicino caso-Jugoslavia. Oggi si recrimina per l'"intromissione" destabilizzante germanica "con il riconoscimento precipitoso della secessione croata e slovena" (alla quale -sia detto per inciso- Rifondazione per prima aveva dato il suo "precipitoso" appoggio), ma non si traccia neppure un abbozzo di lotta, lì e qui, di ricomposizione proletaria e rivoluzionaria contro lo scempio in atto. Ovvio: è una questione da affidare da un lato alla "generosità" -per noi alquanto sospetta- dei "beati i costruttori di pace", dall'altro a una "veramente democratica" polizia internazionale onuista. Si caccia dalle stanze del castello un fantasma -l'internazionalismo proletario-, ma solo per introdurvene degli altri, che proprio fantasmi, in verità, non sono...
A margine, notiamo che mentre si spara a zero contro il rinascente pericolo tedesco, secondo una vecchia e consolidata tradizione secondorisorgimentale, ben poco si dice dell'imperialismo Italia, che, semmai viene toccato, è quasi più per dire del suo carattere "subordinato" alle maggiori potenze che per evidenziarne i caratteri, ove anche fosse, non meno imperialisti. Altra voce fantasmatica del passato di cui ci si "dimentica": "il nemico principale è in casa propria".
O dovremo di nuovo raccogliere dal fango le bandiere lasciatevi cadere dalla borghesia per "liberare" la nostra patria" ed offrirle il "posto al sole" di cui una più forte concorrenza ci priva? Il passo verso il socialsciovinismo imperialista è breve...