I lavoratori somali in Italia sono stati coinvolti in maniera molto marginale dal processo, contraddittorio ma costante, che in questi ultimi anni ha visto gli immigrati extra-comunitari porsi sempre più decisamente sul terreno dell'organizzazione e della mobilitazione per la difesa delle proprie condizioni di vita e di lavoro. Le lotte perla difesa o per la conquista di sia pur minime garanzie (da quelle per il permesso di soggiorno a quelle contro il caporalato, da quelle contro la repressione poliziesca a quelle per la casa) hanno rivestito nell'ultimo quinquennio una importanza fondamentale nel percorso di necessaria e salutare sindacalizzazione dei lavoratori immigrati che proprio grazie a tali mobilitazioni anno iniziato a riconoscersi simili in quanto proletari sfruttati al di là del colore della pelle, dell'etnia, della nazione di provenienza, della religione. La "comunità" somala non solo non è stata partecipe di tali battaglie (o se qualora lo è stato ciò è avvenuto in maniera assai poco significativa), ma anche come "entità separata" si è dimostrata molto riluttante a intraprendere la via della mobilitazione diretta per la propria tutela.
Tale atteggiamento non è certo dovuto a una pretesa indole "più conciliante" ne ad altrettanto pretese "particolarità culturali" dei somali. Esso ha le proprie radici in materialissime cause oggettive (tra l'altro in benefica e veloce via di estinzione) che ha reso peculiare e "privilegiata" (ovviamente si fa per dire) la situazione dei lavoratori somali relativamente a quella degli altri immigrati di colore. In virtù dei "profondi e storici legami" con l'Italia l'immigrazione somala (quantitativamente non rilevantissima) si è presentata abbastanza diluita nel tempo e quindi meno "traumatica rispetto alla più recente immigrazione di provenienza nord-africanae asiatica; inoltre proprio a causa di questi "speciali rapporti" gli immigrati somali hanno usufruito, di fatto e di diritto, di una serie di "facilitazioni" ( anche in questo caso si fa per dire) sconosciute agli altri extra-comunitari. E' per questo insieme di ragioni che il somalo è (o, per meglio dire, è stato fino a ieri) tra gli immigrati il più fiducioso nell'azione delle istituzioni governative e para-governative italiane, ed è per i medesimi motivi che è il più restio a marciare assieme e quindi a "confondersi" con gli altri lavoratori immigrati.
E' un sentimento di passiva accettazione e quasi di fiducia quello che campeggia nella comunità somala immigrata durante vigilia ed il primo periodo di attuazione dell'operazione "restore hope". Se è certo che le interviste (tutte favorevoli all'intervento "umanitario" occidentale) ai "rappresentanti politici" della comunità somala in Italia sono abilmente pilotate (come abilmente scelti sono i soggetti intervistati) dagli "indipendenti, democratici e critici" (soprattutto se di "sinistra") professionisti dell'informazione nostrani, è comunque altrettanto vero che esse in qualche modo rispecchiano un certo sentimento di moderata accondiscendenza all'azione occidentale-onuista diffuso tra i somali immigrati. "Di fronte alla guerra per bande che dilania il nostro paese, di fronte alla fame che miete migliaia e migliaia di vittime, di fronte a una carestia ormai cronica, l'intervento occidentale - che certo non è la miglior medicina - comunque è meglio di niente. E poi a "restore hope" prende parte anche l'Italia che, nonostante il suo passato (fascista e democratico) coloniale, rappresenta pur sempre una garanzia per il rispetto dei fini umanitari della missione è può controbilanciare i possibili eccessi americani". Questo in sintesi il ragionamento, propagandato e supportato ad arte dalle anime belle del pacifismo e del progressismo italico, fatto proprio dagli immigrati somali agli albori di "restore hope".
Ma è il concreto svolgersi, l'unico possibile, dell'intervento occidentale a diradare e poi a spezzare ogni fiducia e speranza riposta nella missione ONU. Il malumore inizia a serpeggiare tra la comunità somala quando, dopo le primissime settimane successive allo sbarco delle truppe occidentali cominciano a giungere le notizie dei primi "circoscritti scontri armati, della sistematica uccisione di somali ai posti di blocco occidentali, della vera e propria caccia ai "banditi morian". L'operazione "umanitaria" comincia finalmente a essere percepita e vista per quello che realmente è: un'aggressione imperialista all'interno popolo somalo e a tutte le masse fruttate della regione.
A metà giugno, all'indomani dei primi pesanti bombardamenti su Radio Mogadiscio e sui quartieri della città, il malumore individuale e sotterraneo esplode trasformandosi in rabbia collettiva. Gli immigrati somali organizzano una manifestazione sotto la sede ONU a Roma: sono parecchie centinaia (e a scanso di facili e stupide ironie va sottolineato che si tratta di un numero di partecipanti notevole se relativizzato alla situazione) e la loro partecipazione e fortemente attiva. "Americani assassini", "italiani assassini", "occidentali a casa", "basta col massacro del nostro popolo", "ONU boia" : questi gli slogan gridati con convinzione e determinazione, queste le inequivocabili scritte sui cartelli portati in piazza. Non c'è neppure la più pallida ombra di vittimismo all'interno della manifestazione, non si chiede pietà o comprensione, non ci si lamenta, non ci si "piange addosso", non si elemosina umanitarismo e pace: si tratta di una manifestazione di lotta in cui i lavoratori somali immigrati esprimono a chiare note il loro sano ed istintivo odio contro l'imperialismo ed il loro pieno e totale appoggio ai propri fratelli che giù in Somalia stanno fieramente rendendo la vita assai più difficile del previsto ai predoni occidentali.
Già, proprio loro, i somali, gli unici tra gli immigrati di colore che all'epoca dell'aggressione all'Irak non avevano (non palesemente almeno) simpatizzato col "tiranno di Bagdad" contro l'occidente; gli unici che a differenza degli "arabi e degli altri africani" "non creavano problemi"; loro, quelli che buona parte della civile (ed infame) "opinione pubblica" aveva sempre visto come i "nipotini dello zio Tom" rispettosi e grati agli occidentali (e - che diamine!- agli italiani innanzi tutto) adesso si scagliano con tanta determinazione contro la "nostra" civiltà.
L'inviato del TG3, che prima di intervistare un rappresentante somalo tenta di "ammansirlo" usando l'argomento (tanto caro alla nostra sinistra) secondo il quale l'intervento ONU - certo da ricondurre al mandato originario (fessi e carogne allo stesso tempo i riformisti) - in Somalia ci si scannerebbe fra fazioni, si sente rispondere papale papale che la divisione in fazioni è istigata e foraggiata dagli occidentali, che i bombardamenti sono diretti contro l'unificazione del popolo somalo e che americani, italiani, francesi e compari vari se ne devono semplicemente andare via.
I somali sentono istintivamente (e che istinto!) che i bombardamenti non sono l'occasionale frutto di una "miope" e occasionale mossa politica clintoniana. Essi percepiscono chiaramente la natura brigantesca dei raid aerei e terrestri a Mogadiscio e giustamente additano l'Italia quale piena e infame corresponsabile di essi.
E' facile pensare quali e quante siano state le difficoltà per i somali per organizzare la loro presenza in piazza ed è altrettanto facile capire (per chi vuole capire) come tali difficoltà siano enormemente aumentate dopo la morte dei tre soldati italiani nella battagli del check point "pasta".
Il timore di restare, se possibile, ancora più isolati e di essere individuati dall'"opinione pubblica" italiana come "complici" degli "assassini" ha messo in grave difficoltà la comunità somala che si è astenuta dal proseguire in manifestazioni pubbliche.
Da parte sua il pacifismo (conformemente alla sua smidollata e inguaribile natura), invece di schierarsi incondizionatamente a fianco dei lavoratori somali nel momento di loro maggiore difficoltà, si è, più o meno esplicitamente, preoccupato di chiedere una dissociazione della comunità somala in Italia dai "fatti di Mogadiscio" e dalle posizioni di Aidid. Così facendo le anime candide stile Chiara Ingrao mettevano ancora una volta (l'ennesima) la loro grande ed unica vocazione: fare da squallidi e fastidiosi reggicoda della belva imperialista.
Ma i fatti incalzano. Dopo le nuove violentissime ondate di metà luglio di bombardamenti americani su Mogadiscio, la comunità somala è indotta a rompere gli indugi e a scendere di nuovo in piazza. La combattiva manifestazione si tiene sotto parlamento vede un numero di partecipanti minore - ma comunque cospicuo - rispetto alla prima mobilitazione.
Ad una intervistatrice di una radio privata una anziana collaboratrice domestica somala grida queste testuali parole: "Adesso abbiamo capito che Saddam Hussein aveva ragione, siete voi occidentali a portare morte e distruzione". Gli slogan sono di chiara denuncia dell'aggressione "imperialista e colonialista", ma tra i somali si manifesta qualche incrinatura relativamente all'atteggiamento rispetto al governo italiano. Mentre la parte più sanguigna di essi accomuna nella denuncia tutti i paesi occidentali (Italia inclusa), in alcuni settori ricomincia a far capolino il discorso circa un "ruolo diverso" ricoperto e ricopribile dal nostro paese a cui appellarsi e in cui sperare per fermare il pugno di ferro statunitense.
Il riaffacciarsi di questa micidiale illusione se per un verso è dovuta alla furba e interessata presa di posizione "antiamericana" operata dal governo Ciampi dopo i bombardamenti, d'altro lato è reso possibile e facilitato dalla pressoché totale assenza di una benché minima voce di classe qui in Italia, di denuncia e condanna senza mezzi termini dell'imperialismo italiano anche è soprattutto quando questo tende ipocritamente e vomitevolmente ad accreditare una propria immagine dal "volto umano".
Ed invece è proprio di un deciso schieramento del proletariato occidentale contro il proprio imperialismo che tanto le masse sfruttate del sud quanto la loro "propaggine" europea - gli immigrati di colore - hanno urgente bisogno per rafforzare la loro eroica lotta contro il bestiale sfruttamento imperialista cui sono sottoposte e per poter evitare il rischio di prestare anche il più piccolo ascolto alle velenose sirene democratiche dell'"imperialismo nostrano".
Spingere , nonostante tutte le innegabili difficoltà, in questa direzione significa lavorare alla prospettiva del ricongiungimento, in un unico potente esercito proletario internazionale, della classe proletaria metropolitana con le masse sfruttate ed oppresse del Sud del mondo: prospettiva questa sempre più pressantemente urgente e necessaria per far fronte allo scontro epocale con il capitalismo internazionale che ogni giorno sempre più palesemente incuba in ogni angolo del mondo.