Dossier Operaio

LA LOTTA OPERAIA
CONTRO I LICENZIAMENTI

Indice


La classe operaia è chiamata a rispondere a un duro attacco occupazionale. L'"opera di risanamento" sbandierata dai nostri avversari di classe come opera nell'interesse di tutti si rivela sempre più per quel che è: intensificazione dello sfruttamento e irregimentazione della classe operaia. Le lotte in difesa dell'occupazione, dall'Alenia all'Enichem, hanno già dimostrato sul campo la disponibilità alla mobilitazione e l'enorme potenzialità della lotta operaia. L'offensiva borghese può essere fermata solo con una risposta di lotta generale, che deve vedere tutta la classe unita in un unico fronte, superando la frammentazione e l'isolamento in cui sono state finora lasciate, con la complicità dei vertici riformisti. A tal fine è utile trarre un bilancio da queste splendide esperienze di lotta e capitalizzarne tutti gli insegnamenti.


L'economia non da segnali di fuoriuscita dal tunnel recessivo imboccato da circa due anni e che tocca oramai tutti i settori senza distinzioni. I santoni internazionali dell'economia, dopo le magre figure accumulate, rinunciano a qualsiasi previsione ottimistica, spostando in un futuro sempre più indefinito l'eventualità di una improbabile ripresa.

La crisi economica induce fenomeni combinati sul mercato del lavoro che, cumulandosi, hanno effetti disastrosi per gli operai. Al normale calo della produzione, dovuto alla generale caduta della domanda di beni, si somma l'inasprimento della concorrenza, che è esso stesso un fenomeno prodotto dalla crisi. Tale inasprimento viene affrontato dai capitalisti soprattutto attraverso l'aumento della produttività degli operai e l'abbassamento del prezzo della forza-lavoro. La conseguenza di queste misure sono l'ulteriore riduzione degli operai occupati a parità di merci prodotte, ritmi di lavoro infernali e salari di fame per chi rimane in fabbrica, nonché, come effetto secondario indotto, ulteriore riduzione della domanda e quindi ulteriori licenziamenti.

E' esattamente quanto sta accadendo in tutto il mondo industrializzato, con conseguenze ancora più drammatiche nei paesi controllati e dipendenti dalle maggiori potenze occidentali.

Gli obiettivi padronali

Il padronato ed il governo italiano dovranno puntare ad attaccare ancora più a fondo il proletariato interno, unica "risorsa "su cui puntare per farsi largo nella competizione internazionale e per difendere i profitti.

Approfittando della forza oggettiva che la recessione dà alla borghesia nei confronti degli operai, questa cerca di utilizzare al meglio i rapporti favorevoli, sfruttando il ricatto e la concorrenza che si crea tra i lavoratori.

Si attaccano tutte le conquiste delle lotte degli anni scorsi, sancite in accordi sindacali e leggi, su cui si era costruita una relativa unità materiale, normativa e salariale dell'intero proletariato.

Questo è l'aspetto più significativo dell'accordo del 31 Luglio 92 sulla scala mobile, e tale era l'obiettivo principale, solo in parte realizzato, da parte della Confindustria nell'accordo del Luglio 93 sulla contrattazione e sul costo del lavoro: dare un colpo definitivo a tutte le rigidità del passato che hanno consentito al proletariato una resistenza ordinata ed unitaria di fronte alla crisi e all'attacco padronale; per introdurre una frammentazione maggiore e sancire, anche sul piano sindacale e legislativo, la totale subalternità degli operai alle sorti dell'economia nazionale e aziendale.

La richiesta da parte padronale di stabilire un unico livello di contrattazione, il vincolo alla difesa del solo salario reale, la subordinazione delle rivendicazioni salariali alla produttività e alla redditività aziendale, miravano a trasformare definitivamente il salario in una variabile dipendente dall'andamento dei profitti e soprattutto a creare le premesse affinché fosse escluso "per principio" qualsiasi aumento del salario reale. La richiesta invece di totale deregolamentazione del mercato del lavoro doveva servire ad introdurre ancora maggiori differenze di trattamento economico e normativo per far crescere la divisione ed il ricatto sui posti di lavoro indebolendo la possibilità di risposte unitarie della classe operaia.

Il salario d'ingresso, l'estensione del limite d'età per i contratti di formazione-lavoro a 32 anni (!), quanto l'istituzione del lavoro interinale hanno lo scopo di rendere ancora più ricattabile chi sarà occupato.

Del resto, anche su questo terreno, la linea di condotta è stata indicata dalla Fiat, a partire dagli accordi per i nuovi stabilimenti di Melfi e Pratola Serra: una lunga serie di concessioni dal salario all'orario, ai ritmi in nome di nuova occupazione. Appena sancito tale risultato, anzi, proprio in forza di esso, si è preteso che esso venisse praticamente esteso a tutti gli stabilimenti del gruppo, mentre diventa sempre più chiaro che la nuova occupazione al sud (già molto ridimensionata rispetto agli impegni sbandierati), sarà bilanciata dai licenziamenti o dalla chiusura di altri stabilimenti.

La richiesta Fiat di poter applicare lo "stato di crisi" e di utilizzare la Cassa Integrazione Straordinaria, anche a zero ore, lascia prevedere che sarà Agnelli a guidare l'offensiva padronale all'occupazione di quest'autunno. Ancora una volta i lavoratori Fiat sono spinti ad assumere un ruolo centrale nella lotta di resistenza contro gli attacchi dei padroni.

A tale proposito, assai incoraggianti sono stati i segnali di risposta venuti da tutti gli stabilimenti del gruppo ai primi scioperi dichiarati dal sindacato.

La risposta operaia

Già nei mesi scorsi i padroni hanno dovuto fare i conti con una capacità di mobilitazione e di lotta probabilmente per essi imprevista. Il rifiuto dell'eliminazione della scala mobile, della manovra del governo Amato e dei licenziamenti, sono stati gli elementi centrali di questa lotta.

Di fronte alla estensione del movimento ed alla sua determinazione padroni e governo hanno dovuto rallentare la loro offensiva per concentrarsi su una tattica di logoramento per determinare condizioni politiche e materiali che rendessero più difficile una resistenza generale del proletariato.

Ad Amato è subentrato Ciampi, con un programma di governo formalmente meno ostile ai lavoratori, si è deciso di lavorare più tenacemente a quel programma di "riforma istituzionale" il cui principale scopo è ingabbiare meglio il proletariato, si è puntato tutto sull'accordo sul mercato del lavoro e sulla contrattazione per sancire i nuovi rapporti di forza e creare le premesse di un ulteriore indebolimento del fronte proletario, ma soprattutto abbiamo assistito ad uno stillicidio di licenziamenti, fatti passare attraverso l'utilizzo della legge 223 sulla mobilità. Anche in quest'ultimo campo è venuta una resistenza strenua da parte dei lavoratori. Gli episodi di lotta hanno mostrato una determinazione ed una disponibilità a battersi veramente alta. Ma si è trattato appunto di episodi, che, pur se molto diffusi, nella maggioranza dei casi sono rimasti scollegati tra di loro. Se contro la manovra Amato ed il taglio della scala mobile la mobilitazione è stata unitaria e generale, contro i licenziamenti non si è quasi mai arrivati ad un movimento unico. Eppure, nonostante la censura dei mass-media, questa enorme ondata di lotta si è percepita in tutta la sua estensione: dalla Maserati alla Arden, dall'Alenia alle miniere, dall'Enichem alla Galileo si può dire che nessun settore sia mancato all'appello contro l'offensiva avversaria.

La politica sindacale

Tutta la radicalità dei lavoratori è stata indirizzata dalle organizzazioni sindacali verso vertenze aziendali, o peggio, di stabilimento. Solo in rari momenti si è arrivati a scioperi regionali o nazionali, come quello del 2 aprile, senza che questi si concretizzassero in una serie di obiettivi realmente unificanti del movimento e realmente capaci di dargli continuità.

Del resto quello dell'occupazione è il terreno dove emergono con maggiore evidenza le conseguenze della linea sindacale di subordinare le rivendicazioni operaie alle compatibilità aziendali e nazionali. Di fronte ad un padronato che, conti alla mano, dimostra di non riuscire più a piazzare le proprie merci, cosa si può opporre, una volta che si è accettato di legare le sorti degli operai a quelle dell'azienda? Si può al massimo cercare di contrattare sui numeri, proporre piani di "sviluppo alternativi", offrire concessioni in termini di salario e orario, richiedere misure di ammortizzo per diluire nel tempo i licenziamenti. E questo è quanto si è limitato a fare il sindacato, dalle segreterie generali a quelle di categoria o di comprensorio, anche quando si sono messe alla testa o, più spesso, al fianco delle lotte operaie.

Le illusioni operaie

In realtà erano spesso gli stessi lavoratori a percepire l'attacco all'occupazione come uno scontro solo con la "propria" azienda; frutto magari di cattiva gestione economica, di corruzione ed incompetenza. Incanalate le mobilitazioni in un orizzonte ristretto, si creava il terreno per concentrarsi su rivendicazioni "credibili" e "compatibili" per cui i lavoratori sarebbero stati disposti ad accettare ulteriori sacrifici pur di mantenere l'occupazione. Ma ciò invece di far diventare più "disponibili" i padroni li ha resi più forti e aggressivi anche perché essi si muovevano nell'ambito di una strategia generale avendo alle spalle lo stato, con i suoi apparati repressivi sempre più attivi, la stampa etc mentre ha determinato una gestione asfittica della lotta spingendo spesso gli operai a forme di protesta disperate, come il murarsi vivi, appendersi alle torri degli stabilimenti, scioperi della fame, minare la fabbrica, etc.

Eppure da quelle lotte, anche in quei momenti di forte esasperazione, emergeva una invocazione oggettiva della necessità di un movimento generale contro i licenziamenti .

Fare tesoro degli insegnamenti

Anche se questo non si è potuto concretizzare, sarebbe sbagliato dedurne che si è trattato di uno scontro inutile o completamente perdente per gli operai. Innanzitutto ci si dimentica troppo spesso che il risultato principale delle lotte operaie, prima ancora dei risultati concreti raggiunti, consiste nella verifica della propria forza e nei livelli di unità raggiunti, nello sperimentare la capacità di lottare come classe e nell'esperienza maturata che sarà riversata negli scontri futuri contro la borghesia. In secondo luogo, il fatto che queste mobilitazioni si accavallavano o avvenivano immediatamente a ridosso del movimento di autunno, la loro diffusione, anche in mancanza di un collegamento soggettivo, la determinazione dimostrata dagli operai in lotta, ha costretto le controparti a fare molte concessioni rispetto agli obiettivi dichiarati. Se è vero che solo in qualche caso si è riusciti a respingere totalmente i licenziamenti, spesso essi sono stati ridotti, si è riusciti ad ottenere un periodo di cassa integrazione molto lungo, o, l'"accompagnamento salariale" fino alla pensione. Per molti lo scontro decisivo è stato semplicemente rimandato ad una fase ancora più "favorevole" ai padroni.

L'altro elemento da sottolineare è stata l'estrema omogeneità di questo movimento sul piano nazionale. Sia nelle lotte contro la manovra Amato e l'eliminazione della scala mobile, che contro i licenziamenti, la partecipazione è stata alta ovunque. Anzi, nelle lotte contro i licenziamenti la mobilitazione al sud è stata ancora più intensa e radicale: dalle miniere siciliane a quelle sarde, dai chimici calabresi ai metalmeccanici campani, è venuta una risposta durissima ai licenziamenti.

L'importanza di questo dato va visto alla luce degli indirizzi prevalenti nel padronato che, ancora una volta con l'imprimatur di Agnelli, punta al sud come ad una sorta di riserva interna in cui spostare parte consistente della propria produzione per realizzare condizioni di sfruttamento ancora peggiori che al nord e da usare come arma di pressione e di ricatto per un generale arretramento del proletariato. E' un segnale poco rassicurante quello che viene al nostro padronato dal contributo alla lotta dato dagli operai del sud: si possono scrivere tutti gli accordi di questo mondo con un sindacato "sensibile" alle esigenze aziendali, come per Melfi, ma ciò può solo rallentare la scesa in campo di questi operai, facendo tra l'altro maturare una esasperazione ancora maggiore (la vicenda di Cassino, una specie di Melfi ante litteram, dovrebbe aver insegnato qualcosa).

E' necessario però che la nuova tornata di lotte contro i licenziamenti, a cominciare dalla Fiat, sappia fare tesoro dell'esperienza e degli insegnamenti dello scontro precedente. Questa volta i padroni si presenteranno ancora più agguerriti, poiché il prolungarsi della crisi e la crescente concorrenza internazionale non consentono ulteriori mediazioni.