Il testo qui riprodotto è stato diffuso alla manifestazione nazionale del 23 settembre '93 a Roma
Avanza la crisi e l'offensiva globale della borghesia. Scendono in campo Lega e ceti medi contro la classe operaia. Il cosiddetto "centro politico" si sposta a destra. Il governo "dalla faccia pulita ed efficiente" di Ciampi si allinea ai diktat della Confindustria.
La parola torna alla classe operaia: per un fronte unico di classe tra occupati e disoccupati, lavoratori del Nord e del Sud, bianchi e di colore. Contro il capitalismo, a fianco delle masse sfruttate del Terzo Mondo, per un programma unico e internazionale del proletariato.
Siamo già scesi in piazza. Abbiamo già affrontato le manovre del governo Amato. Abbiamo già costretto il nuovo governo Ciampi a moderare le sue richieste antioperaie, mantenendo con la lotta compattezza e unità. E non è stato poco. Abbiamo lottato e lottiamo da soli, perchè commercianti e professionisti, partiti dal volto nuovo e magistrati anti-tangenti non si spendono certo in difesa del nostro salario, dei nostri posti di lavoro. Ma abbiamo dimostrato in piazza e con la lotta che possiamo ricostruire la nostra forza. Oggi la lotta è sempre più necessaria, e, con essa, diviene sempre più necessario definire un nostro programma per affrontare un'offensiva padronale che si estende a tutti i campi della vita economica e sociale, nel pieno di una crisi economica mondiale del sistema di sfruttamento capitalistico che mostra sempre di più la sua vera faccia: crisi, disoccupazione e guerra.
E' evidente che, nonostante chiacchiere e promesse, l'attacco alle nostre condizioni di
vita si fa sempre più duro e pesante. Abbiamo visto cadere a colpi di avvisi di garanzia
molti dei nostri nemici di ieri, ma le promesse di una nuova "primavera" per
tutte le classi sociali della nazione si rivelano sempre più false. Ci hanno detto che la
stagione degli sprechi e delle ruberie era la sola causa del nostro sfruttamento; ci hanno
assicurato che lo sviluppo del capitalismo privo dei lacci di tangentopoli avrebbe
riassestato la "barca comune". Ma la "ricostruzione" della nuova
repubblica, ferreamente fondata sulle esigenze del cosiddetto capitalismo dal volto
onesto, avviene su quattro imperativi categorici (e non poteva essere altrimenti, poiché
il capitalismo può avere molte facce, ma una sola anima antioperaia):
I partiti borghesi risorti dalla purga di tangentopoli e quelli che con questa hanno fatto fortuna, pur nella danza delle alleanze e nello scontro per definire gli schieramenti, partoriscono sempre più chiaramente programmi allineati agli imperativi dettati dalla Confindustria. Il ritornello dei cantori della seconda repubblica assomiglia molto a quello della prima: sacrifici oggi per eventuali benefici domani. Ma questa volta la partita e le prospettive sono ancora più dure. La crisi del sistema capitalistico è profonda e ben più profonde e distruttive le sue ricette. A pagare, come sempre, la classe operaia.
Non possiamo che trarre da questo le necessarie conclusioni:
La ripulitura dei nostri vecchi nemici (che certo non rimpiangiamo) non è stata opera nostra, ma è stata sponsorizzata dal padronato che, dopo essersi ben servito dei vari Craxi e Andreotti, si è dato da fare per fornirsi di strumenti e personale più adeguati alla crisi economica e ottenere l'obiettivo di sempre: spremere la classe operaia. La nuova repubblica non è la "nostra repubblica", la nostra difesa non può affidarsi ai suoi eroi.
La crisi economica si è mostrata ben di peggio che il frutto di ruberie e parassitismi a cui rimediare con un patto tra produttori efficienti contro ladri e incapaci. A richiedere il sangue operaio per sopravvivere è l'intero sistema di sfruttamento capitalistico.
Lo scontro è di classe.
Per vincerlo il padronato si attrezza tanto sul piano economico quanto su quello politico con tutti i mezzi. Forte del suo potere economico si dimostra ben in grado di guidare l'apparato politico e statale verso questo fine (per il quale lo stato è naturalmente predisposto).
Sul piano politico il governo Ciampi non ha smesso di lavorare un attimo per portare avanti quella centralizzazione dei poteri statali invocata e ottenuta dal padronato. La sua caratteristica è stata quella però di presentare questo compito e il "rigore" nei "conti pubblici" come un'opera equa e non particolarmente vessatoria nei confronti degli operai. Non a caso è stato il governo che ha invitato il PDS a condividere l'opera di "risanamento nazionale".
Ma se è vero che Ciampi ha colpito la classe operaia in modo meno appariscente del suo predecessore, ciò è stato possibile solo per la nostra capacità di resistenza espressa nell'ottobre dello scorso anno. La sua "moderazione" è un punto conquistato sul campo dalla classe operaia. Deporre le armi contro di esso, quindi, vorrebbe dire disarmarsi nei confronti dell'approdo cui la cura Ciampi conduce. Ciò che egli ha preparato, meritandosi le lodi della Confindustria -ben consapevole di non avere ancora a sua disposizione un compatto schieramento politico capace di fronteggiare la resistenza operaia e di affondare il coltello fino in fondo-, è stato il terreno su cui agire in futuro.
Egli può ben vantarsi di aver eliminato nella struttura dell'amministrazione statale in modo definitivo gran parte delle voci di spesa relative a pensioni e sanità; di aver inaugurato con i fatti un'effettiva gestione centralizzata del potere svincolata dalle pastoie parlamentari (e dai condizionamenti di quello stesso PDS il cui invito a corte è sempre stato condizionato dalla richiesta di abbandonare qualsiasi velleità operaista). Il varo della nuova finanziaria rappresenta un passo deciso in questo senso: come fanno i vertici del Sindacato e dello stesso PDS a non vedere la necessità di una mobilitazione generale del proletariato contro la manovra economica per il '94, quando essa stabilizza i tagli al welfare state assestati da Amato?
Ma Ciampi ha soprattutto lavorato per smontare la compattezza e l'unità di lotta operaia espressa contro il suo predecessore. In realtà, presentandosi come il rifondatore dello stato, pulito e efficiente, ha ben ingabbiato (usufruendo della loro spontanea e irrecuperabile propensione) PDS e vertici sindacali nella morsa della "necessità dei sacrifici per salvare il paese". Lungi dallo sposare le illusioni di questi ultimi su di un "risanamento dell'economia" indolore per gli operai, ha messo in pratica la strategia che la Confindustria gli ha richiesto: tentare di dividere e immobilizzare il proletariato, per poterlo colpire più duramente in seguito, senza nulla cedere sui punti essenziali dell'attacco padronale.
Sotto il suo patrocinio, infine, è continuata l'offensiva in campo sindacale. Se con l'accordo del 31 luglio 1992, eliminando la contingenza, il padronato ha dato un colpo all'unità politica della classe operaia, con l'accordo del 3 luglio 1993 ha imposto la completa deregolamentazione delle assunzioni. Introducendo ulteriori divisioni fra lavoratori occupati e disoccupati, precari e "affittati". E questi accordi, l'uno figlio dell'altro, non rappresentano, come ha affermato Trentin, degli onorevoli compromessi che cedono su alcuni punti in vista di recuperare su altri. Oltre a rappresentare duri colpi proprio alla compattezza operaia, necessaria per affrontare lo scontro, essi non placano le necessità padronali, ma preparano ulteriori punti di cedimento. La micidiale illusione di poter combinare gli interessi degli operai con quelli del padronato è proprio la ricetta opposta a quella di cui abbiamo bisogno per attrezzare le nostre forze alle nuove e più dure offensive che la borghesia prepara.
Un segnale di quello che si sta preparando è costituito dalla scesa in campo sempre più aggressiva delle schiere leghiste, di professionisti e piccoli imprenditori. Un fenomeno comune all'attivizzazione della stessa fauna nel Sud Italia. Queste scalpitanti schiere sono scese (e scendono) in campo innalzando le bandiere del "federalismo", chiamando a raccolta il "popolo" in nome dell'"autodecisione" contro "ladri e parassiti", compattando le loro fila sulla parola d'ordine della "rivolta fiscale" contro i "vessatori del popolo". Ma ben presto si è capito chi deve pagare gli sgravi dei costi e delle tasse chieste da piccoli imprenditori, professionisti e commercianti. La maschera è caduta e il loro programma è divenuto chiaro: gabbie salariali, tutela e carta bianca per l'impresa nei confronti dei lavoratori, eliminazione di quel che rimane dello stato sociale. Il tutto condito da una pressante richiesta d'"ordine" e dalla minaccia (qualche volta messa già in atto) di conquistarlo in piazza. Chi non ricorda, infatti, la canea sollevata da questi figuri in occasione dell'accordo del 3 luglio scorso, giudicato troppo concessivo per gli operai? Oppure la loro scesa in campo contro i lavoratori di Crotone o le loro ripetute "imprese" contro gli immigrati? Se con le loro petizioni di autonomia fiscale e amministrativa cercano demagogicamente di invitare i lavoratori a schierarsi gli uni contro gli altri, il loro federalismo appare sempre più chiaramente incardinato intorno alla richiesta di uno stato autoritario che lasci mano libera all'impresa e "riduca alla ragione" la classe operaia. Non a caso gli strali di Bossi (e dei suoi consimili meridionali alla Mastella, per non parlare dei fascisti del MSI) si indirizzano sempre più ferocemente contro l'organizzazione operaia, qualsiasi forma essa assuma. La crociata "moralizzatrice" delle mezze classi padane si è indirizzata, dunque, direttamente contro gli operai (e dovrebbero tenerne ben conto quei lavoratori che hanno concesso un'apertura di credito alle promesse dei rinnovatori della Lega!).
Non inganni il "distacco" e l'apparente fastidio con cui a volte i magnati dell'economia accolgono le intemperanze di questa massa di manovra: opportunamente utilizzata essa è ben conveniente per cercare di intimorire la classe operaia e per essere la base sociale di un ordine imposto da apparati e strutture ben attrezzate allo scopo.
La recente rinascita della strategia della tensione, l'atteggiamento intimidatorio della polizia nei confronti degli operai di Crotone, le sempre più frequenti visite della polizia politica alle Camere del Lavoro, la criminalizzazione dei lavoratori dell'ILVA di Piombino, le dichiarazioni del ministro degli Interni sul problema di "ordine pubblico" dell'occupazione sono avvisaglie ben decifrabili.
E quelle che appaiono come "estremizzazioni" radicali "estranee" al cosiddetto "corpo democratico" delle istituzioni ben si sposano invece col programma generale del padronato e con l'opera autoritaria di centralizzazione dell'apparato statale in corso. L'"unità nazionale" evocata dai volti "rassicuranti" di Scalfaro e Ciampi si costruisce sulle stesse basi e sulle stesse richieste dei loro "avversari" della Lega. Il messaggio e l'obiettivo di fondo dal Palazzo e dalla vandea in piazza è lo stesso: operai divisi e concorrenti nelle proprie aziende e nelle proprie regioni, uniti e disciplinati al potere centrale dello stato, agli interessi supremi dell'impresa e dell'economia nazionale.
Se dunque la "reazione" antioperaia è una necessità della borghesia; se essa viene preparata con la divisione della classe operaia e col tentativo di immobilizzarne la lotta e l'organizzazione: se è vero tutto questo, è allora di vitale importanza per il nostro fronte di classe fare i conti con la questione: quali prospettive politiche, quali alleanze sociali?
Le recenti elezioni amministrative e i parziali successi in alcune città (riflesso, peraltro, delle lotte operaie condotte nell'autunno scorso) hanno rilanciato nelle prospettive del PDS e per altri versi di Rifondazione Comunista l'idea di poter conquistare il Governo con un fronte sociale ed elettorale che si rivolga al cosiddetto "centro" o "area progressista".
Ma gli occhieggiamenti a sinistra di tale schieramento (che annovera come base sociale, fondamentalmente, strati di ceto medio) si rivelano sempre più transitori e opportunistici.
E' bastato un solo incontro tra Occhetto e Cossutta per scatenare la canea di tutto il presunto "schieramento progressista" contro i pericoli "estremistici" e lo "spettro operaista". Tutti i nostri presunti "alleati" hanno posto come prima condizione per un accordo l'abbandono di ogni lontano riferimento a "rivendicazioni operaie" e la totale accettazione delle leggi capitalistiche. In realtà la base sociale del "polo progressista" ha potuto ben guardare con favore la "campagna comune" contro gli sprechi e il parassitismo. Ma oggi che la crisi impone sempre di più una "scelta di campo" che non lascia spazio alla "comune crescita" di salari, rendita e profitto, verso quale campo si allineano questi settori?
E in questa situazione non ha senso, come fa Rifondazione Comunista, ipotizzare un più duro schieramento di sinistra, per chiamare poi sul terreno elettorale alla "alleanza progressista". Per quale motivo questi "alleati" che ripudiano le preoccupazioni operaiste di Occhetto dovrebbero votare per il "diavolo" Cossutta?
Il fatto è che gli interessi della nostra classe, un nostro programma di potere, di cui abbiamo vitalmente bisogno, non può realizzarsi con tale tipo di blocco e soprattutto attraverso le battaglie elettorali. Il centro di gravità delle forze reali, del potere reale, sta fuori del parlamento e dei suoi giochi elettorali. Lo sa bene la borghesia, che contro di noi schiera non schede elettorali, ma la forza di un potere finanziario e un diritto proprietario capaci di ricattarci (e di assoldare contro di noi le necessarie truppe d'assalto della piccola borghesia).
Il posto di lavoro, il salario, i diritti sindacali e politici in fabbrica...tutto questo si decide attraverso lo scontro, attraverso i rapporti di forza.
Si, la nostra forza può crescere solo sul campo, con la lotta, ponendo al centro della nostra battaglia la difesa intransigente dei nostri interessi di classe.
Che senso avrebbe nel contesto dello scontro in atto affidare le nostre speranze a un compromesso che sia il capitale sia i ceti medi non accettano, non possono accettare?
Possiamo ben inserire nelle nostre piattaforme l'abolizione della minimum tax, ma le schiere dei commercianti e dei piccoli imprenditori cesseranno per questo la loro offensiva contro di noi, si convertiranno alla difesa del salario?
Possiamo continuare a far nostra la bandiera dell'efficienza dei ceti produttori contro il parassitismo? Ma non è in nome dell'efficienza e della produttività che ci licenziano?
Le nostre schiere di disoccupati, di operai del Nord e del Sud, di immigrati hanno un terreno comune e unitario di mobilitazione per sbarrare il passo all'aggressione capitalistica -si presenti essa sotto l'aspetto governativo, leghista, mafioso o stragista-, rilanciare la lotta e l'organizzazione unitaria di classe sulla base di una linea programmatica all'altezza della situazione presente.
Questo significa nel concreto che l'esperienza dell'autunno scorso va preservata e portata avanti nel massimo dei suoi contenuti unitari e di battaglia. Raccogliendo la formidabile spinta alla mobilitazione che si è sprigionata dalle lotte di Crotone, della Galileo di Firenze, della Val Bormida etc.. Raccordandole. Facendole confluire in una nuova scesa in campo generale della nostra classe, da cui possano attingere e a cui possano dare forza e combattività. Abbandonando l'inconsistente pretesa di sconfiggere la perdente linea sindacale e riformista con artificiose rotture organizzative del tessuto sindacale, fatte, per di più, di piattaforme e proposte politiche che ripropongono, in salsa diversa, la stessa subordinazione ai compiti di "risanamento nazionale" propria dei vertici sindacali.
Riprendere l'esperienza, la lotta dell'autunno scorso vuol dire anche (ciò che non è in contraddizione con la battaglia unitaria, ma ne è complemento essenziale) che tra le nostre fila deve farsi strada un'opera di chiarificazione e decantazione politica: al successo delle stesse più minute battaglie rivendicative immediate è oggi più che mai indispensabile un indirizzo politico, un'organizzazione politica in grado di rispondere globalmente all'offensiva globale della borghesia. E sempre più significa che le sorti del proletariato italiano sono indissociabili da quelle delle masse sfruttate del Terzo Mondo, con le quali vanno intessuti solidi legami di classe. Chi concorre a tenerci lontani dai nostri fratelli somali, iracheni, jugoslavi etc. concorre a sabotare i nostri interessi, la nostra battaglia. E questa invece, insieme ai nostri fratelli di classe immigrati in Italia, deve essere la nostra invincibile riserva di forze. Lavorare a metterla in campo non è solo possibile, è necessario!