La lotta contro i licenziamenti
La durezza, la radicalità e la durata dello scontro sostenuto dagli operai dell'Alenia di Pomigliano rappresenta un passo in avanti nello scontro di classe. Questo non può più essere contenuto entro i vecchi canali della "democrazia conflittuale". Scelte di schieramento, di obiettivi e di organizzazione più conseguenti sono posti dai fatti all'ordine del giorno.
La lotta ha inizio a Gennaio, quando l'azienda IRI, fiore all'occhiello di un settore fino a poco tempo fa in espansione, ha annunciato l'esistenza di 5000 esuberi nel gruppo ed i lavoratori hanno risposto con un fermo rifiuto del durissimo piano di ristrutturazione. Sull'onda di questa mobilitazione, la direzione scende a richieste più "ragionevoli" accontentandosi di circa la metà dei tagli inizialmente previsti, anche per l'intervenuto stanziamento da parte del governo di 1600 miliardi per nuove commesse nel quadro del piano nazionale di difesa. Intanto ad inizio marzo la stessa azienda avvia unilateralmente le procedure per la cassa integrazione tentando di dividere l'unità dei lavoratori, ma gli operai, chiaramente consapevoli di questa manovra, trasformano la vertenza in lotta ad oltranza. Nonostante ciò i sindacati nazionali di categoria a fine marzo firmano l'accordo, che prevede circa 2500 esuberi di cui circa una migliaio saranno messi in mobilità con accompagnamento fino alla pensione, l'altra metà sarà "incentivata" a dimettersi, più alcune centinaia di contratti di solidarietà. Si tratta sicuramente di un accordo in perdita, che però va valutato rispetto alle richieste iniziali dell'azienda ed al fatto che per nessuno si prevede la perdita immediata del reddito. Dal punto di vista della strategia confederale può essere considerato un risultato decente rispetto alla conclusione di tante altre vertenze di questa fase e rispetto ai vincoli di compatibilità che gli stessi sindacati hanno fatto propri. Ma questa scelta di responsabilità da parte delle segreterie federali deve fare subito i conti con una forte contestazione in tutto il gruppo le cui forme più dure si registrano a Pomigliano e Casoria, dove i lavoratori si mostrano intenzionati a continuare la lotta ad oltranza fino a quando non vi fosse stata la riapertura della trattativa ed il ritiro di tutti i licenziamenti.
I lavoratori di questi stabilimenti, in cui sono concentrati i principali tagli, non possono accettare che una lotta che ha visto la partecipazione totale della fabbrica si debba concludere subendo una drammatica soluzione che taglia fuori dal posto di lavoro una parte consistente di chi si è battuto per tutti. Se si pensa che i nomi dei futuri licenziati erano ormai noti, per l'avvio delle procedure di cassa integrazione, si capisce meglio il significato della scelta dei lavoratori di continuare a lottare per respingere tutti i licenziamenti. La chiara percezione che l'azienda, subendo la forte mobilitazione operaia, ha dovuto momentaneamente ridimensionare i propri piani di ristrutturazione, e che l'accettazione dei licenziamenti attuali significa dare alla stessa maggiore forza per prossimi attacchi all'occupazione e per creare un clima di pesante repressione nella fabbrica, fa sentire agli operai che nello scontro in atto non è in gioco la sorte dei singoli individui, ma l'interesse degli operai in quanto classe.
Come spesso accade nelle lotte di questa fase, la stragrande maggioranza dei lavoratori in lotta condivideva sostanzialmente le posizioni dei vertici sindacali circa la necessità di difendere le sorti dell'azienda e la sua competitività, oppure sulle cause tutte interne della crisi attuale, ma, a differenza dei vertici sindacali, ciò non è bastato a convincerli della necessità di subire i licenziamenti. Essi sono stati costretti dalla materialità dello scontro ad ingaggiare una lotta intransigente per la difesa del posto di lavoro, nonostante tutte le illusioni e le idee che avevano in testa. Illusioni maturate a loro volta sulla base di un lungo periodo di sviluppo pacifico che sembrava confermarle e che non è pensabile superare in un unico decisivo scontro, ma anche illusioni che hanno comunque avuto il loro peso sullo sviluppo della lotta limitandone le sue potenzialità.
Già il fatto che gli esuberi maggiori venivano concentrati in alcuni stabilimenti del gruppo ha fatto si che in diversi insediamenti, pur bocciando l'accordo firmato dal sindacato, la partecipazione alla lotta per il suo rigetto fosse molto modesta, con l'illusione di non essere investiti dai licenziamenti e dalle conseguenze anche per chi restava, momentaneamente, in fabbrica.
Ciò indubbiamente ha reso più difficile respingere il piano dei licenziamenti, e quegli stessi lavoratori che si sono sentiti al riparo dalla bufera avranno modo di accorgersi quest'autunno quanto sia stato miope il proprio atteggiamento, sia per il clima che si respira in fabbrica sia per i nuovi licenziamenti che già si annunciano......
Alla fine, dopo due mesi di una splendida lotta ad oltranza, che segna un vero e proprio passaggio in avanti nella mobilitazione operaia, quando gli effetti dell'isolamento e della stanchezza facevano sentire tutto il loro peso, ci si è dovuti accontentare della riapertura formale della trattativa (in se un risultato non da poco e che rimane un precedente importante) che nei fatti sanciva il precedente accordo con modifiche sostanzialmente irrilevanti.
Gli operai di Pomigliano e Casoria che sono stati il vero motore di questa lotta hanno dato prova di una combattività eccezionale, con una mobilitazione praticamente ininterrotta che rappresenta un esempio per tutto il resto del proletariato. Ma a questa forte determinazione nella lotta non si è accompagnata una uguale comprensione della necessità di uscire dai confini aziendali e territoriali per cercare di estendere e generalizzare il movimento contro i licenziamenti. Probabilmente la stessa compattezza della mobilitazione locale ha contribuito a rafforzare l'illusione che questa sarebbe bastata a piegare le pretese dell'azienda. Non che questa consapevolezza sia completamente mancata: i lavoratori hanno lanciato segnali in tutte le direzioni anche se non sempre con la necessaria convinzione. Così, se sul piano territoriale essi sono riusciti a coinvolgere praticamente tutti i proletari, di fabbrica e non, fuori di Pomigliano non si è mai riusciti ad andare. Di ciò i principali responsabili sono soprattutto i vertici sindacali nazionali e regionali, e quelli della categoria in particolare: mentre in tutta la Campania vi erano centinaia di vertenze e di mobilitazioni in atto contro i licenziamenti, si è steso una specie di cordone sanitario intorno all'Alenia, quando non si è contribuito direttamente alla criminalizzazione della lotta, colpevole di non accettare supinamente l'accordo che prevedeva 2500 licenziamenti. La stessa Camera del Lavoro di Pomigliano, che pure si è schierata dalla parte dei lavoratori, non ha fatto molto per sviluppare l'unità d'azione con il resto del gruppo e con le altre realtà in lotta contro la disoccupazione. Si è arrivati al paradosso per cui, in alcune occasioni di mobilitazione generale, per rimarcare il dissenso con la gestione dei vertici regionali, si è puntato a manifestazioni separate a Pomigliano invece di sfruttare la possibilità di realizzare momenti superiori di unità con i lavoratori in piazza. Di queste responsabilità non vanno esenti i rappresentanti locali di Essere Sindacato e di coloro che si riconoscevano nel movimento dei Consigli autoconvocati. Essi sembravano più intenzionati a fare della lotta Alenia un baluardo di testimonianza che non un potenziale da utilizzare per rendere effettivamente generale ed unitaria la lotta contro i licenziamenti. Identico discorso vale per gli obiettivi proposti. Accanto al dichiarato rifiuto, anche di un solo licenziamento, vi è stato un continuo lavorio a fare proposte "credibili" e "compatibili", da fantomatici piani di riconversione industriale e di sviluppo "alternativo", a farsi promotori di nuove commesse al gruppo, dalla richiesta di contratti di solidarietà con tanto di riduzione salariale, a quella di rendere volontarie le dimissioni con ulteriori incentivi economici. Il tutto accompagnato da una propaganda quasi ossessiva sulla corruzione e l'incompetenza della direzione aziendale contro la quale si richiedeva l'intervento risolutivo di "Zorro-Di Pietro". Tutti obiettivi che servivano a rafforzare tra i lavoratori l'idea che si trattava di difficoltà contingenti interne al gruppo e che spingevano ad accentuare il carattere aziendalista della vertenza.
Nonostante gli scarsi risultati ottenuti, anche questa non è stata una lotta inutile o totalmente perdente, come si sono affrettati a sentenziare in molti, compresi quanti avevano la possibilità ed il dovere di lavorare al suo rafforzamento. In primo luogo, senza questa lotta i tagli all'occupazione sarebbero stati ben maggiori, mentre l'azienda ha dovuto registrare anch'essa le sue ferite in termini di immagine e di commesse saltate, cosa che la renderà più accorta per il futuro. Poi sarebbe sbagliato sottovalutare l'effetto prodotto da questa lotta sul resto degli operai: se già nel corso della vertenza molte fabbriche guardavano all'Alenia come ad un simbolo ed un esempio da seguire, anche dopo la fine della lotta, in diverse realtà si sono messe in piedi forme di mobilitazione simili a quelle di Pomigliano. Inoltre la resistenza dei lavoratori Alenia e la loro ingombrante presenza ha indotto il padronato dei grossi gruppi industriali, non ultima la stessa Fiat, a rimandare l'attacco contro i propri operai, proprio per evitare che la lotta potesse dilagare, saldarsi e generalizzasi in un unico fronte capace di respingere l'offensiva padronale.
Quello che emerge in tutta evidenza dalla vertenza Alenia, non è l'inutilità della lotta, quanto la necessità di condurla in maniera più organizzata e conseguente.
La resistenza agli attacchi padronali non può essere vincente se viene attuata azienda per azienda: per quanto possa essere radicale la combattività espressa, se non si riesce a mettere in campo un forte schieramento unitario di lotta si è destinati a subire i rapporti di forza sfavorevoli. La chiusura della lotta Alenia dimostra in maniera lampante questa verità, impostasi alla coscienza degli stessi operai, e che forse costituisce uno dei risultati più importanti di questo scontro. Un insegnamento diventato da subito patrimonio di altri spezzoni di classe. Non è un caso se, alla ripresa autunnale, gli operai della Enichem di Crotone, contro l'intransigenza aziendale, hanno affermato con una lotta radicale la propria volontà di respingere i licenziamenti, ma soprattutto hanno dato vita ad un coordinamento stabile tra i vari consigli di fabbrica per la conduzione unitaria della lotta. Chi non riesce a guardare oltre la punta del proprio naso non potrà mai a capire il legame esistente tra questa nuova ondata di lotte contro i licenziamenti ed esperienze come quelle dell'Alenia, come possa il patrimonio maturato da un settore decisivo della classe operaia diventare il punto di partenza di nuove lotte proletarie, anche quando sembra esservi una netta discontinuità. Di fronte ai primi tentativi, necessariamente faticosi, della classe operaia di recuperare una propria indipendenza politica ed organizzativa costoro vedono solo una interminabile serie di sconfitte e fregature senza riuscire ad individuare i materiali percorsi della ripresa della lotta di classe e, ancora di meno ad assolvere i compiti politici che queste lotte impongono ai comunisti per favorire la resistenza del proletariato ed il processo della ricostituzione degli operai in classe e quindi in partito politico. Il recupero di una identità di classe con interessi separati e contrapposti a quelli della borghesia rappresenta uno dei passaggi fondamentali in questa direzione. Immediatamente connesso ad esso è la comprensione della necessità dell'unificazione delle proprie forze in un esercito ben organizzato per contrastare, in quanto classe, in una lotta generale l'offensiva borghese, come soluzione obbligata per gli operai a cui non vi sono alternative. Tale è stato il contributo che come organizzazione abbiamo cercato di portare anche nella lotta degli operai Alenia attraverso la presenza interna al movimento per estendere e generalizzare la lotta e una propaganda costante verso le altre realtà operaie perché scendessero a fianco dell'Alenia in un unico movimento contro i licenziamenti. Con la consapevolezza che solo nel vivo dello scontro di classe gli operai possono liberarsi dalla pesante influenza politica ed ideologica del riformismo.
La realizzazione di un movimento unitario e generale degli operai contro i licenziamenti e la disoccupazione, ad esempio, non può avvenire sulla base di un pur giusto senso di solidarietà di classe, ma deve trovare gli elementi materiali per favorire la costruzione di un tale movimento. A questo scopo è importante individuare quegli obiettivi necessari all'unificazione del fronte proletario nella lotta. Tali obiettivi non possono che essere di carattere generale e tesi alla difesa di tutti i settori del proletariato.
In primo luogo il blocco dei licenziamenti e della legge 223.
Il rifiuto della liberalizzazione del mercato del lavoro, dei contratti di formazione, del
salario d'ingresso e del lavoro interinale.
Rivendicare la riduzione generalizzata dell'orario di lavoro a parità di salario,
e, il salario garantito a tutti i disoccupati.
Rivendicazioni che da un lato presuppongono uno schieramento generale del proletariato e dall'altro costituiscono la base intorno a cui costruirlo. Sarebbe infatti inimmaginabile caricare sulle spalle di una sola frazione della classe operaia questi obiettivi, che risulterebbero in tal modo poco praticabili, ma d'altro canto, senza prospettare rivendicazioni unitarie come queste sarebbe altrettanto incomprensibile capire come si possa arrivare ad un movimento generale, in cui possano riconoscersi l'operaio minacciato di licenziamento, quello occupato da molto tempo ed il neo assunto, nonché il disoccupato. Ma si tratta anche di obiettivi che fanno a pugni con la logica delle compatibilità a cui i riformisti cercano di subordinare qualsiasi rivendicazione operaia.
I padroni non si pongono nessun problema di compatibilità quando buttano sul lastrico e nella disperazione milioni di famiglie che non hanno più di che sopravvivere. Perchè dovrebbero porsi gli operai di questi problemi? O, sono forse "compatibili" le migliaia di miliardi che vengono distribuiti dallo Stato ogni mese sotto forma di interesse ai detentori di Bot? La compatibilità non è qualcosa di neutro che accomuna tutti, ma una questione di classe. Se per i padroni il metro di misura è dato dalla difesa dei profitti e del proprio potere politico, per i proletari tale metro è costituito dalla difesa intransigente delle proprie condizioni di vita e di lavoro, come classe appunto, e dal raggiungimento di sempre più alti livelli di unità e di organizzazione del proprio esercito.
In ultimo, sarebbe opportuno riflettere su tutte quelle rivendicazioni che le direzioni riformiste, sindacali e politiche, hanno indicato sino ad ora. Si è sempre trattato di obiettivi compatibili e credibili, ma a quali risultati hanno portato? Tutte le piattaforme per nuova occupazione, per nuovi piani e modelli di sviluppo, su cui si è chiamato il proletariato a mobilitarsi per tanti anni, non hanno cavato un ragno dal buco, consentendo ai padroni di proseguire nella politica delle ristrutturazioni e dei licenziamenti. Anche perché, a voler essere conseguenti, imporre ai padroni diversi modelli di sviluppo oppure occupazione aggiuntiva quando non lo richiede la produzione per i profitti, significa, nei fatti, porre il problema di chi detiene il potere politico ed economico in questa società, significa attaccare alla radice questo sistema fondato sullo sfruttamento operaio, cosa che i riformisti hanno cancellato persino dal loro libro dei sogni.
Come si vede la battaglia nel movimento operaio per scalzare l'influenza del riformismo al suo interno viaggia di pari passo e all'interno del movimento reale degli operai per difendersi dagli attacchi borghesi. Chi crea una falsa contrapposizione tra questi due livelli unitari o, antepone la prima al secondo ha, nella migliore delle ipotesi, una visione idealistica della lotta di classe e del percorso verso la rivoluzione, e corre il rischio, come capita a tanti presunti estremisti, di disertare il terreno reale dello scontro oppure di assumere posizioni di affossamento delle lotte. Noi seguendo l'adagio di Goethe ripreso da un nostro vecchio maestro ripeteremo: "verde è l'albero della vita e grigio quello della teoria.......", soprattutto quando è filistea, e continueremo a batterci nel movimento reale affinché, a partire dalla lotta spontanea contro le conseguenze dello sfruttamento capitalistico, le idee comuniste possano incontrasi di nuovo con gli operai mettendo la parola fine al più immondo sistema sociale che sia comparso sulla faccia della terra.