Al momento in cui andiamo in macchina (18 maggio) non è possibile dire quale nuova forma assumerà l'intervento delle potenze imperialiste nella crisi jugoslava. Avrà il via libera l'attacco aereo alle postazioni dei serbi di Bosnia per il quale sembra scalpitare Washington? oppure ci sarà "soltanto" la massiccia occupazione militare della Bosnia-Erzegovina da parte dell'Occidente travestito da Onu, come preferirebbero i governi europei? Si dia l'una o l'altra opzione ovvero una loro combinazione, una cosa è certa: la manomissione imperialista della ex-Jugoslavia, l'aggressione imperialista al proletariato jugoslavo e balcanico sta compiendo un vero e proprio balzo in avanti. E con essa la prospettiva della estensione e dell'incancrenimento della guerra che Usa ed Europa hanno acceso nei Balcani con la complicità delle varie cricche sub-nazionaliste borghesi locali.
Ma non è dei recenti, o dei futuri, sviluppi della situazione in Jugoslavia che vogliamo parlare qui (ripromettendoci di tornarci su nel prossimo numero), quanto del fatto che, nel mentre il macello jugoslavo s'aggrava, l'imperialismo in crisi sta preparando per un numero crescente di paesi e di aree nel mondo una esperienza di tipo jugoslavo.
Sfogliamo alla svelta un pò di stampa internazionale.
Su uno sfondo di copertina che è significativamente di fuoco, "Arabies" di maggio titola: Iran-Sudan-Corno d'Africa, un triangolo esplosivo. E spiega: l'operazione-Somalia è stata il preludio di una "nuova strategia" statunitense in quella regione "più incentrata sull'uso della forza e non certo a carattere strettamente umanitario". Non dubitavamo. Tale strategia militare si fonda "sulla prospettiva di conflitti armati quasi permanenti (si noti bene!) nel Medio Oriente, in Asia centrale, nel sub-continente indiano e nella regione cinese nel corso dei prossimi decenni. E' per questo che gli USA contano di assicurarsi l'accesso all'Oceano Indiano come linea di comunicazione logistica", da Singapore fino al Mar Rosso.
Ora, Iran e Sudan sono considerati al momento i due soli paesi arabo-islamici in grado di insidiare in qualche modo tali interessi (peraltro non solo yankee). Ecco quindi un primo obiettivo: "contenere e mettere in rotta" l'influenza irano-sudanese nel Corno d'Africa, schiacciando e disperdendo -con quali mezzi, si sa- i movimenti islamici in Somalia, nel Somaliland, in Eritrea, a Zanzibar, in Uganda.
Ma la politica di Washington è ben lungi dal fermarsi, come le ipocrite prescrizioni del diritto internazionale vorrebbero, fuori dai confini del Sudan e dell'Iran. Al contrario: essa si prefigge proprio di disgregare dall'interno e di trascinare nella guerra entrambi questi stati (non certo proletari) riottosi agli ordini di Wall Street e del Pentagono.
Il Sudan è già preso virtualmente tra due fuochi. A nord il governo egiziano continua ad ammassare truppe nella regione di Halaib, attendendo il pretesto ed il momento buono per aprire le ostilità. A sud, le cancellerie occidentali fomentano e foraggiano, in una col brutto ceffo polacco assiso in Vaticano, la guerriglia secessionista delle popolazioni nere "cristiane" (ed al suo interno le posizioni anti-unitariste più estreme). Sicché a buona ragione al-Tourabi può dire: "le Soudan rime avec Liban et évoque le Vietnam". C'è bisogno di aggiungere che il consiglio di sicurezza dell'Onu è già stato allertato da USA ed Europa perché si muova a "proteggere" con una propria missione i "diritti umani" (cioé: i diritti dell'imperialismo) violati in Sudan?
Quanto all'Iran, è ancora "Arabies" di febbraio '93 a preconizzarne la frammentazione "di qui a cinque o dieci anni". Analisi fintamente obiettive, quali il rapporto Namek ed altri "studi" anglosassoni, affermano che questo paese resterà schiantato dal peso del debito estero (e da un nuovo forte calo del prezzo del petrolio, conseguente alla riammissione sul mercato dell'Iraq), dal riacutizzarsi della lotta di classe e dal rafforzamento -è un tema, come si vede, ritornante- delle "tendenze secessioniste presso i curdi, gli azeri, i baluchi, i turkmeni e gli arabi".
Dopo avere spezzato in tre tronconi l'Iraq, ora il capitale imperialista, prima di tutto quello anglo-americano, lavora con zelo a provocare la "implosione" dell'Iran, puntando in modo particolare sul conflitto tra le sue nazionalità. Senza con ciò escludere di far scendere direttamente in campo le armate occidentali (i cui avamposti sono, dopo l'agosto del '90, solidamente posizionati nel Golfo), ove l'ambìto risultato tardasse o addirittura Teheran riuscisse ad avere la meglio sulla fida Turchia come polo di attrazione dell'Islam ex-sovietico.
Un periodo non meno fosco preannuncia, per l'intera Asia, "The Economist" del 3 aprile scorso. L'anomalia asiatica volge al termine. Il "wealth game", la controtendenziale fase di boom che l'Est e il Sud-Est dell'Asia hanno vissuto negli anni '80 e continuano tuttora a vivere -ammonisce (o auspica?) la storica rivista dell'establishment britannico- sta per lasciare il campo agli "war games", ai fatti di guerra degli anni '90. C'è anzitutto il "confronto esplosivo" tra USA-Corea del Sud e Corea del Nord (ossia l'aggressione strisciante delle prime alla seconda). Vi è poi il conflitto India-Pakistan sempre in caldo, con due micce quali il Kashmir e la questione della "minoranza islamica" in India, e non è un mistero per nessuno di quali potenze sia il terminale il Pakistan. Ma al di là di Corea del Nord e India; al di là dei "khmer rossi" cambogiani tanto sacrileghi da osare sparare (cogliendole) le truppe Onu; il bersaglio grosso dell'imperialismo in Asia è sempre la Cina, la sterminata massa della forza-lavoro cinese da mettere in valore per sé -questo il grande sogno dell'Occidente- a condizioni d'impiego ottocentesche (sul genere di quelle della fabbrica di bambole bruciata a Bangkok: 12-16 ore di lavoro al giorno per una paga inferiore ad un dollaro!).
Non è un caso che il "Time" del 10 maggio, svolgendo più ampiamente gli identici motivi di "The Economist", dedichi al problema-Cina un lungo special dal titolo intenzionalmente allarmistico "La nuova superpotenza", raffigurata da un ruggente leone imperiale della vecchia Città proibita. Il senso ben poco nascosto del rapporto è che, se "la Cina non è ancora diventata un Golìa", si avvia però rapidamente diventarlo, a tutti i livelli, quello militare incluso. Perfino la (vera) superpotenza America ha dunque da tener gli occhi bene aperti, anche perchè il rapporto tra "i muscoli cinesi" ed "il denaro e la tecnologia giapponesi" sta facendosi stretto, e "nessuno può dire dove questa relazione porterà".
Tra le righe del rapporto, espressi in tono opportunamente ancora agrodolce, si leggono gli intendimenti d'oltre Oceano. Non dar tempo al tempo. Ostacolare il processo di impetuosa crescita economica e di stabilizzazione politica della Cina. Operare sui suoi punti deboli per minarne la compattezza ed indebolirne i legami con i cinesi d'oltremare. Come?
Prima operazione: far leva sui fortissimi squilibri territoriali (le 8.700 zone di sviluppo sono "per la gran parte concentrate al sud, lungo le coste e nelle grandi città"), perché questa miriade di Slovenie cinesi rimangano aperte, e sempre più assoggettate, ai capitali occidentali ivi accorsi, autonomizzandosi e chiudendosi -invece- nei confronti dell'"oppressivo centralismo" di Pechino-Belgrado e del PCC.
Secondo versante: operazione attizzamento conflitti "etnici". Disgraziatamente la Cina è quasi del tutto omogenea (93% della popolazione è han) in fatto di razza e tende a riassorbire le aree di cui è stata amputata dal colonialismo? Mai disperare. Si implementi comunque l'indipendentismo Tibetano (poco importa se a sfondo feudale, anzi...). Si metta allo studio la questione delle minoranze non cinesi da "tutelare". Si usi poi fino all'ultimo in chiave democratica (cioè: a pro degli interessi imperialisti) la carta di Hong Kong. Si saboti la riunificazione tra Cina popolare e Taiwan.
Terzo fronte di operazioni: la Cina e i suoi vicini. L'Occidente (per nostra fortuna!) non può far molto per rinfocolare il contenzioso sui confini tra Cina e India e tra Cina e Russia? Si renda almeno la vita dura a Pechino impedendo la composizione delle dispute sulle vie d'acqua con il Giappone, il Vietnam, l'Indonesia, etc. Si ingigantisca il rischio dell'"espansionismo cinese", attizzando l'ostilità verso le (non proprio immacolate) comunità cinesi diffuse in Asia. Si spargano tra tutti i vicini "minori" della Cina, i più agevolmente controllabili dall'imperialismo, i semi di futuri conflitti con la Cina, di future alleanze di guerra e di future guerre contro la Cina.
A giugno, ricorda minaccioso il "Time", spira la clausola della nazione più favorita, e Pechino dovrà rinegoziarla. Sarà un negoziato durissimo. Le livree di Amnesty International hanno già compitato per il padrone il loro bravo rapportino sulle infrazioni ai "diritti umani" in Cina. La Lewis (un'azienda per tutte, e tutte le aziende per un solo satrapo: il capitale) ha provveduto ad aprire le ostilità annunciando il ritiro "umanitario" da quel mercato...
Abbiamo fin qui parlato principalmente degli USA. Ma umori, manovre, preparativi della stessa natura maturano in tutti i paesi imperialisti. Ovviamente anche in "casa nostra", benché il grande marasma politico ne complichi la traduzione in atto. L'imperialismo italiano non farà mancare il suo contributo alla libanizzazione di sempre più vaste zone del mondo. A cominciare dalla ex-Jugoslavia.
Siamo ormai al punto che bastano un paio di fumogeni (di aria) di uno Seselj per far assumere al compassato "Corriere" un piglio ducesco: per l'Italia "il tempo dell'azione è scoccato". Solo contro la Serbia? Giammai. "Vietato distrarsi", intima la banda di Montanelli. C'è Osimo da "revisionare". Ci sono Slovenia e Croazia da tosare. Ci sono le nostre case, le nostre proprietà, la nostra terra da riconquistare in Istria! Solo in Istria? Albania, Kosovo, il "tradizionale amico" Montenegro: si risvegliano gli appetiti balcanici dei "nostri" capitalisti. Solo balcanici? Non vorremo mica abbandonare il "nostro figlioccio a rischio" Mozambico, o tagliarci fuori dai favolosi tesori naturali d'Angola, dopo che vi abbiamo co-organizzato con tanta cura, assieme al regime razzista di Pretoria, sanguinosissime guerre civili! E il Corno d'Africa? non era anch'esso nostro? non lo concimarono del loro "onesto sudore" dei nostri avi? e non abbisogna tutt'oggi forse del "nostro" aiuto, della "nostra" esperienza in fatto di democratica ed anti-fascista "cooperazione allo sviluppo"?
Passo dopo passo, alla chetichella, con l'assenso di una "sinistra" sempre più impestata di sciovinismo, i capitalisti italiani hanno inviato "nostri" uomini in armi in ben 22 paesi. Paesi già a pezzi o da fare a pezzi per poterne supersfruttare a volontà e a sangue il lavoro. E' sempre questa la posta in gioco.
Quante altre Jugoslavie esistono o stanno per esplodere, grazie alla feroce spinta degli interessi imperialisti, fuori dalla Jugoslavia! Si pensi per un istante all'ex-Urss, ai conflitti "etnici" che covano nelle repubblichette baltiche "adottate" dall'imperialismo occidentale, od ai molteplici fronti di guerra guerreggiata già mobilitati nella vasta regione del Caucaso. Si pensi agli innumerevoli contenziosi tra gli ex-membri del patto di Varsavia, su ciascuno dei quali sono in molti (i soliti noti, padrini della "pace" universale) a soffiare. Davvero tra cechi e slovacchi sarà sempre rottura "di velluto"? Fino a quando le ambizioni revansciste dell'Ungheria, che si esprimono oggi nel programma della "grande Ungheria" e si materializzano in un riarmo accelerato, resteranno (posto che ancora lo siano) sul mero piano propagandistico-diplomatico? La rassegna potrebbe continuare a lungo, sia nel centro-Europa che altrove (il Sud-Africa, o ancora il sub-continente indiano, o...), ma crediamo sia sufficiente a dare un'idea di massima della fase a venire e suffragare la nostra tesi.
La causa di fondo di questo sanguinoso incasinamento della situazione internazionale extra-metropolitana è il ripetuto fallimento dei tentativi capitalistici di uscire dalla crisi. Sottovalutando, in base a criteri empirici, la portata dell'impasse dell'accumulazione capitalistica iniziata nel 1973, molti avevano creduto che lo scaricamento delle difficoltà dell'Occidente imperialista sulla periferia avrebbe rimesso in moto durevolmente la macchina inceppata. Così non è stato.
Giusta l'analisi marxista, la latino-americanizzazione del Terzo Mondo propria degli anni '80 non è stato che un momento di passaggio della catastrofe capitalista. Non eludibile, ma insufficiente a bloccarla. Il mercato mondiale è restato, tra alti e bassi, stagnante. Il regresso economico, la povertà e la fame di massa della "periferia" non bastano più a sodisfare la sete di profitti del totalitarismo imperialista. Questo ormai disarticola, sbriciola stati extra-metropolitani perché non può più tollerare che i capitalismi minori e ritardatari dispongano argini protettivi intorno ai propri mercati.
Così, dopo un ventennio di crescenti contraddizioni e di crescente polarizzazione sociale, l'anarchia del meccanismo capitalistico mondiale è tale che risulta sempre più difficile la composizione pacifica dei conflitti sia nazionali che sociali. Le guerre e i focolai di guerra si estendono, avvicinandosi pericolosamente al centro del sistema, dove il capitale imperialista viene a trovarsi nella impossibilità di restare "in pace" con la propria classe operaia metropolitana.
Tutte le luci rosse si stanno accendendo, scrisse tempo fa "Le Monde Diplomatique". E dal centro direzionale del capitalismo mondiale si rilancia, in termini più brutali ancora di quelli usati da Bush dopo il massacro del Golfo, la proposta di un "nuovo ordine mondiale" a presidio degli interessi imperialisti.
E' il clintoniano "New York Times" del 25 aprile a farlo, scrivendo testualmente: "Finalmente torna il colonialismo: era ora. Diciamolo chiaro, ci sono nazioni incapaci di governarsi da sole. (...) Nei paesi in cui il governo centrale si è sbriciolato e le condizioni basilari per la vita civile si sono dissolte, non c'è alternativa al colonialismo". Vi sono paesi "minorenni" che sono incapaci di auto-governarsi, e debbono perciò essere amministrati direttamente dalle "nazioni civili". Per 5, 10, 20, 50 o anche 100 anni l'Onu affidi ex-Jugoslavia e Somalia, Algeria e Sudan, Haiti e Liberia, il Corno d'Africa e il Ciad, Angola e Mozambico, Nigeria e Mauritania, la lista continua e si allunga giorno dopo giorno, all'imperialismo USA, oppure anche agli aiutanti in prima franco-britannici, o a quelli in seconda germano-nipponici, etc. E "queste plaghe disperate" avranno a rifiorire.
Sì, come sta fiorendo la ex-Jugoslavia. Due anni appena sono trascorsi, anche se paiono venti e più, da quando l'imperialismo occidentale solennemente promise alle repubblichette che secessionavano dalla Jugoslavia integrazione paritaria nella Cee, benessere da metropoli e pace. Guardate cosa ne è oggi di loro. E quali tempeste s'avvicinano anche per quelle tra esse, Croazia e Slovenia, fin qui "preferite" dall'Occidente.
La divisione della Jugoslavia, la sua ricaduta sotto il diretto controllo degli stati imperialisti hanno portato al proletariato jugoslavo nient'altro che miseria, moltiplicata oppressione politica, lutti e guerra senza fine. E l'ulteriore ingerenza in profondità, sempre più manu militari, che i capitalisti euro-americani stanno, in concorrenza tra loro, congiuntamente pianificando, -il cui oggetto è la spartizione delle spoglie della ex-Jugoslavia e dei Balcani-, aggiungerà, è facile prevederlo, tragedia a tragedia.
Cosa di diverso possono aspettarsi il proletariato e le masse sfruttate del Terzo e del Secondo mondo, dal passaggio sotto diretta amministrazione imperialista dei propri paesi?
E' vero: la perpetuazione della "civiltà" dello sfruttamento capitalistico necessita oggi di un ritorno, in certo senso, all'indietro, ai metodi propri del colonialismo storico, perfino ad una sempre più estesa occupazione fisica da parte dell'imperialismo dei territori da cui estrarre sovraprofitti. Così come necessita, nel primo mondo, di politiche anti-operaie che al confronto faranno apparire il reaganismo ed il thatcherismo qualcosa di semi-rooseveltiano. Poichè anche nel centro non basta più tagliare salari, posti di lavoro e garanzie welfariste. Il capitale ha bisogno di balcanizzare il proletariato, di disgregarne ogni struttura unitaria, di smantellarne ogni forma di organizzazione distinta, per poterlo senza rischi coinvolgere ed arruolare oggi nelle guerre contro i "barbari" e i "fanatici" di colore, e domani in una immane carneficina generale con epicentro nel mondo bianco.
Il "New York Times" ha ragione: non ci sono alternative capitaliste al neo-colonialismo. Il movimento reale del capitalismo tritura l'una dopo l'altra le soluzioni intermedie. A quattro anni appena dal crollo del falso "comunismo" stalino-brezneviano, è in rovina anche l'altrettanto falso "socialismo" social-democratico europeo. Sul mercato politico d'Occidente va e andrà per la maggiore una sola merce: la reazione. Lenin lo disse nel 1916.
Ma proprio il procedere in avanti della reazione capitalista-imperialista prepara, con materiale dialetticità, il sicuro riemergere del movimento reale comunismo, sola alternativa umana alla decomposizione del mondo odierno.
Anche sotto questo profilo Jugoslavia è il mondo. Con enorme fatica, per l'isolamento, il nuovo frazionamento e la guerra, il proletariato sloveno, croato, serbo-montenegrino, -un proletariato che ha grandi tradizioni di combattività e di internazionalismo fin dagli anni '70 dell'800-, ha iniziato a risalire la china. Lo dimostrano i sempre più frequenti scioperi (sui quali anche la stampa di "sinistra" e di "estrema" mantiene un rigorosissimo black-out) ed una certa disillusione verso le rispettive dirigenze nazionaliste. Ha un significato straordinario, poi, che pochi giorni orsono, a Roma, i sindacati (e non si tratta di sindacati rossi) di tutta la ex-Jugoslavia abbiano dovuto discutere della eventualità di uno sciopero generale "inter-etnico". Probabilmente questo sciopero non si farà. Se si facesse, forse conterrebbe in prevalenza richieste economiche e ben poco contro la guerra, nulla -per il momento- che suoni contro l'imperialismo (potrebbe esserci addirittura una qualche invocazione di aiuto ai "paesi civili" che stanno sbranando la Jugoslavia). Ma anche questo episodio, qualunque seguito abbia, indica che proprio nel mezzo della disgregazione e della guerra matura una dinamica di ripresa e di riunificazione del fronte di classe. Una dinamica obbligata, che è nelle cose, in Jugoslavia ed in tutte le situazioni dove l'azione devastante delle potenze imperialiste è andata più in profondità, a cominciare dallo stesso Medio Oriente. E che ci sollecita qui a rafforzare la denunzia dell'aggressione imperialista in Jugoslavia, la denunzia di tutte le aggressioni imperialiste e l'azione di solidarietà incondizionata con le masse sfruttate che ovunque all'imperialismo resistono.
Nel mondo intero come in Jugoslavia, il proletariato si salverà dalla catastrofe di questa "civiltà" in putrefazione solo battendosi contro il nemico di classe; scindendo le proprie forze da quelle capitaliste; rovesciando i processi di libanizzazione del mondo contro le grandi potenze imperialiste che li provocano e contro le pidocchiose micro-borghesie locali che li assecondano; solo riorganizzandosi come un unico esercito internazionale ed internazionalista, serrato intorno alla bandiera del comunismo.
Quanti intendono lavorare per questa grande prospettiva, si uniscano a noi!