Il movimento di lotta che si è espresso a partire dal settembre dello scorso anno è stato, per i comunisti rivoluzionari, della massima importanza. Non perchè potesse essere il preludio a qualche passaggio più decisivo nella lotta tra le classi, né perchè potesse sedimentare barlumi di coscienza o di organizzazione suscettibili di avvicinarsi all'impostazione rivoluzionaria, ma perchè ha contenuto nel suo seno -sia pure in concentrazione diluita- alcuni fondamentali elementi con cui si ripresenterà ogni seria ripresa dello scontro di classe. Si è trattato, in un certa misura, della prima prova generale di lotta in una situazione che va mutando radicalmente per l'insieme della classe operaia, per la sua coscienza, per la sua organizzazione. Nulla autorizza a credere che da questa "prova" cominci la risalita. Al contrario, i limiti con cui il proletariato l'ha affrontata possono essere il preludio a nuovi arretramenti. Comprenderli e averli ben presenti è un dovere dell'avanguardia rivoluzionaria per contribuire, pur nelle limitatezza del ruolo che la situazione attuale le consente, al loro superamento.
Tra quei limiti il più corposo è consistito nel continuare a mettere in campo il bagaglio di lotta e di coscienza "vecchio", non solo perchè riformista, ma anche per il tipo di riformismo, quello, cioè, affermatosi nell'epoca precedente, di crescita, di sviluppo economico e sociale, di allargamento della democrazia.
Se è piuttosto facile individuare i limiti della coscienza riformista delle masse (salvo cadere, come è capitato ad alcuni presunti "eredi" della "sinistra comunista", nella mitologia del gesto del "lancio del bullone"), un po' più difficile, all'apparenza, è individuare come quegli stessi limiti abbiano avvolto e condizionato anche l'iniziativa di quella che si è presentata come l'avanguardia più "radicale" di quelle lotte: il movimento dei Consigli unitari. Eppure, per amore dei paradossi, si potrebbe dire che il "vecchiume" espresso da questa avanguardia sia stato persino superiore a quello espresso dalle masse, che le illusioni inseguite dalla prima siano state (e siano) maggiori -o, per lo meno, più pesanti; di sicuro più colpevoli- di quelle inseguite dalle seconde.
La scelta del referendum sull'art.19 e l'importanza attribuitagli dai Consigli la dicono lunga al riguardo.
In un articolo, su Liberazione del 2 aprile, P. Cagna, uno dei leader di quel movimento, scrive: "la difesa delle condizioni materiali è possibile solo in quanto si sposti il potere decisionale dai sindacati ai lavoratori", e più innanzi :" Se non si consegna ai lavoratori la fonte del potere sindacale, si chiude definitivamente un ciclo storico in una sconfitta di lunga durata". In sostanza l'articolista, e con lui la buona parte dei delegati promotori dell'iniziativa dei Consigli unitari, ritiene che la causa degli scarsi risultati ottenuti dal movimento di lotta contro il governo Amato sia tutta da imputare alla mancanza di democrazia nel sindacato. Fosse esistita -dicono costoro- nel sindacato una vera democrazia di mandato, non avremmo avuto né il 31 luglio, né tutto quel che ne è seguito.
Questa analisi, pur contenendo alcuni elementi di realtà (CGIL-CISL-UIL non brillano certo per rapporto democratico con i lavoratori!), evita completamente di considerare le cause reali che non hanno consentito alla classe operaia di bloccare la politica governativa, e cioè:
1. il fatto che attorno al governo Amato si sia raccolto uno schieramento, sociale e politico, che andava dalla Confindustria al "ceto medio" (in tutte le sue articolazioni più o meno "produttive") a pezzi del lavoro dipendente meno colpiti dalle misure governative, o più interessati (data la maggiore possibilità, rispetto alla classe operaia, di "accumulare" risparmi) a evitare che si addensassero nubi sulla corresponsione degli interessi sul debito pubblico;
2. il fatto che la linea dei sindacati accetta di difendere gli interessi dei lavoratori solo in subordine e compatibilmente al risanamento e al rilancio competitivo dell'economia nazionale. Una convinzione, questa, che appartiene anche a grandi masse di lavoratori, che pure hanno coerentemente lottato nel tentativo di ottenere una diversa ripartizione dei sacrifici.
Il primo elemento ha consentito al governo di reggere difronte al movimento di lotta giungendo a ottenere dal Parlamento una ratifica completa dei suoi provvedimenti. Il secondo ha agito nel senso di indurre i sindacati a contenere il dispiegarsi degli scioperi e delle manifestazioni per non disturbare "oltre misura" le condizioni dell' "economia nazionale".
Le classi "intermedie" sono indotte dall'avanzare della crisi economica, in tutt'uno con quella finanziaria dello Stato, a schierarsi dal lato del grande capitale e contro la classe operaia: maggiori sono i profitti estorti agli operai (oggi, come ieri e come domani, unica classe produttiva), maggiori sono le risorse di cui possono sperare di appropriarsi (dopo che, naturalmente, si sia adeguatamente servito il capitale). Questa alleanza si dà pur in presenza di un certo qual -ineliminabile, ma non suscettibile di trasformarsi in scontro aperto- grado di conflittualità tra piccola-borghesia e grande capitale, e i programmi populistici della destra - v. tanto Lega che MSI- stanno lì a provarlo.
Non vedere come queste classi si vadano dislocando, abbandonando le precedenti postazioni di "alleanza" con la classe operaia su cui si erano collocate nell'epoca dello sviluppo e dell'allargamento della democrazia, equivale a non vedere la lotta di classe stessa. Non è per caso, evidentemente, che gli esponenti dei Consigli preferiscano nei loro scritti e nei loro interventi parlare di attacco di governo e Confindustria (mai del capitale o della borghesia) alle lavoratrici e ai lavoratori, quando non proprio ai "cittadini". Questa terminologia non è soltanto un prodotto del rifiuto, spesso consapevole, di riferimenti al marxismo, ma corrisponde a una precisa visione politica che trova le sue origini più recenti in quell'ultra-democraticismo su cui si era consolidata l'ultima Dp, prima di confluire, trasportandovelo e trovando terreno più che fertile, nel Prc.
Secondo questa concezione la rivendicazione di democrazia sindacale non è uno strumento finalizzato a rafforzare un'organizzazione di lotta dei lavoratori, separata e autonoma dallo Stato e dal capitale, ma un elemento fondante della partecipazione dei lavoratori, in quanto cittadini, alla formazione delle decisioni che riguardano "tutta la società". In questo modo non di difesa della democrazia nel sindacato si tratta ma, piuttosto, di una più generica democrazia in fabbrica e negli altri luoghi di lavoro come momento della più generale difesa della democrazia nella società. In un orizzonte di questo tipo non può, gioco forza, rientrare alcuna visione "di classe". Ragionare in termini di "classe", infatti, comporterebbe, per tale sorta di ideologhi della democrazia estrema, una specie di auto-isolamento in un ghetto troppo angusto. Il loro sforzo è quello, invece, di ragionare in grande prospettando un modello sociale il cui unico contenuto è nella "tecnica di gestione" -la democrazia- e i cui contenuti sociali (per non parlare di quelli economici: è da presumere che non si pongono neanche l'obiettivo di far scomparire la figura sociale dell' "imprenditore") sono quanto più indefiniti possibili, o, quando sono definiti, lo sono in una direzione che raccolga il consenso "più ampio". E ciò proprio in ragione della necessità di coalizzare attorno a quel progetto il più largo schieramento possibile.
Per esempio, nella "contro-piattaforma" dei Consigli per lo sciopero del 2 aprile figurava, tra le varie altre, la rivendicazione di "impedire che le ricchezze prodotte in Italia vadano all'estero": un bell'obiettivo per raccogliere e tenere insieme "tutti i cittadini" (compresi i cittadini-padroni), senza preoccuparsi affatto di quale pesante premessa esso sia a uno schieramento nazionalistico e sciovinistico. Per imporre licenziamenti e maggiore sfruttamento, i padroni usano, ormai, diffusamente il ricatto di trasferire le proprie industrie in paesi dove il costo del lavoro sia inferiore a quello italiano; rispondere a questo ricatto attestandosi sulla richiesta che "le ricchezze italiane non vadano all'estero" comporta, inevitabilmente -sia pure, per ora, soltanto inconsapevolmente-, il corollario di assumere verso gli operai dei paesi potenzialmente destinatari degli apparati produttivi una posizione di concorrenza, non certo di alleanza nella lotta contro il comune nemico capitalistico.
L'orizzonte nazionale è, peraltro, una costante nella produzione scritta e orale della buona parte dei delegati aderenti al movimento, giunta persino al punto di ignorare del tutto l'importanza del 2 aprile come giornata di lotta europea.
La completa assenza di ogni analisi di classe porta vari esponenti del movimento a ritenere che la fase che stiamo attraversando sia quella del crollo (prodotto dall'azione della magistratura e dal crescere impetuoso della "coscienza civile") di un "intero sistema di potere" sotto di cui si aprirebbe un vero e proprio vuoto. Un vuoto che potrebbe indifferentemente venire colmato o dalla reazione (il cui carattere sarebbe essenzialmente politico, e cioè anti-democratico) o dal movimento di "estensione della democrazia". In questo quadro, naturalmente, gli stessi fatti economici finiscono per essere rappresentati come sotto-prodotti di decisioni essenzialmente politiche. La definizione di "potere" diventa, così, qualcosa di estremamente fumoso, una sorta di "cupola" economico-politico che lotterebbe all'unico scopo di...conservarsi al potere. Rapporti produttivi, capitale, classi, sfruttamento, profitto, tutto scompare dinanzi alla titanica lotta tra "potere" e "democrazia", tra una opzione che lavora per l'esclusione e un'altra che lavora per la partecipazione (dei cittadini, naturalmente, e dei lavoratori solo in quanto cittadini).
A riprova di questa impostazione politica, per lo più sottesa nei documenti, c'è la convinzione che lo Stato sia un elemento neutro al quale si possa, per esempio, richiedere una legge sulla "rappresentanza sindacale" con la certezza che ne vengano, così, delle regole capaci di dare ai lavoratori più potere di quanto ne abbiano ora. Questa richiesta sembra fare a cazzotti con l'analisi, pur dai Consigli sbandierata, del processo di "istituzionalizzazione del sindacato". Se è vero -ed è vero!- che il sindacato stia accelerando la sua tendenza a rendersi istituzionale, sarebbe logico pensare che il primo passaggio che esso deve fare è quello di essere sempre più accolto nell'apparato statuale. Cosa, dunque, sarebbe più esplicito, in tal senso, di una legge che ne regoli l'attività? Si può essere istituzione anche senza avere una legge, è certo (basti guardare a D'Antoni che aborrisce una legge sulla rappresentanza, ma, nel contempo, rappresenta la più "spinta" interpretazione del ruolo istituzionale del sindacato). Ma con la legge l'essere "istituzione" è garantito. Né vale sostenere che quella che si chiede è solo una legge "sulla rappresentanza" e non su tutta l'attività sindacale: da cosa nasce cosa...
D'altro canto di leggi in materia sindacale ne esistono di già. Lo stesso Statuto dei lavoratori è, a sua volta, una legge, tanto più utile, quando fu ottenuto, in quanto consentiva di dare valore generale -rendendole estendibili a tutti i lavoratori- alle conquiste che il movimento di lotta degli anni 50-60 era riuscito a ottenere. Si potrebbe, dunque, sostenere che non è la legge "in più" chiesta dai Consigli ad accentuare l'"istituzionalizzazione". E' vero. Ma, allora, sarebbe, forse, più coerente cancellare dai propri obiettivi quello di lottare contro la "istituzionalizzazione" del sindacato!
Ogni legge, inoltre, è il prodotto dei rapporti di forza vigenti in un determinato momento, in maniera mai neutrale, ma sempre a conservazione del sistema dominante (e quello attuale è a dominio capitalistico in tutti i suoi elementi, politici, economici, sociali e legislativi). Lo "Statuto dei lavoratori" tradusse sul piano legislativo dei rapporti di forza che erano, in quel momento, meno sfavorevoli (che del tutto favorevoli, in quadro capitalistico, non lo sono mai) alla classe operaia. La crescita economica impetuosa del dopo-guerra aveva portato gli operai a richiedere con forza un maggiore riconoscimento sia sul piano salariale che su quello dei diritti e della stessa partecipazione al potere. La borghesia pur contrapponendosi a tali richieste trovò non drammatico (per lei) consentirgli, in quel momento, un riconoscimento parziale, considerato che la situazione economica generale continuava a promettere "bel tempo". Le stesse "classi intermedie" avevano assunto nei confronti delle rivendicazioni operaie un atteggiamento di simpatia, considerandole utili a sé stesse per conquistare, a loro volta, una maggiore partecipazione al potere economico e politico, conseguente a un allargamento della democrazia. All'oggi queste condizioni sono già radicalmente mutate, e sono sulla strada di un ancor più radicale mutamento. La crisi economica sospinge verso una polarizzazione sociale, in cui il polo proletario è sempre più abbandonato dai precedenti (interessati) alleati e, per di più, la nuova situazione che si va determinando diffonde, per ora, tra le stesse fila proletarie confusione e sfiducia. I rapporti di forza non sono più quelli di allora. Lo scontro di classe dell'autunno l'ha, per ultimo, ampiamente dimostrato (a chi voglia, naturalmente, vederlo. Gli altri potranno, pure, continuare a fantasticare che la "sconfitta" sia stata unicamente dovuta al "tradimento" dei vertici sindacali). Una qualunque nuova legge in materia di rappresentanza sindacale sarebbe, dunque, sicuramente peggiorativa delle attuali. La fiducia che i Consigli ripongono nell'intervento del Parlamento è, quindi, assolutamente infondata: né questo Parlamento, tanto meno quello che seguirà alle elezioni con il maggioritario, produrrà mai una legge che favorisca l'organizzazione sindacale come organizzazione autonoma del proletariato. Tutta l'effervescente attività messa in campo dalla borghesia per farla finita con il "consociativismo", con l' "assistenzialismo", con il "corporativismo" (intendendo con questo la pressione operaia a difesa delle proprie condizioni di vita e di lavoro, non certo le attitudini sindacali di settori di pubblico impiego o delle varie categorie professionali) ha mirato (e mira) a distruggere persino quella forma di blanda organizzazione di classe costituita dal vecchio PCI -e, in maniera ancora più edulcorata, dall'attuale Pds- e dal sindacato confederale. Figurarsi se le varie forze borghesi o piccolo- borghesi (Pannella ha messo al secondo posto del suo programma l' "abolizione dei sindacati") saranno disposte a retrocedere di un millimetro da questo attacco.
Qualche dubbio deve essere, in verità, venuto anche ai Consigli se questi mettono in conto di dover supportare la loro proposta di legge con un movimento di massa. E' questa un'idea quanto mai irrealistica. Il (comunque) grande movimento d'autunno-inverno non è riuscito a bloccare la manovra del governo Amato, non è riuscito a ottenere dal Parlamento neanche una qualche parziale modifica di quelle misure. Come potrebbe un movimento, sicuramente meno grande e coeso (quale quello che i Consigli da soli potrebbero mettere in campo) spuntare una legge sulla rappresentanza sindacale che restituisca potere di autonoma organizzazione di classe e di "interdizione" al movimento dei lavoratori?
Una legge sulla rappresentanza sindacale, tuttavia, è nell'ordine delle cose, e con essa la scomparsa dell'art.19. Tra i programmi della borghesia rientra certamente quello di minare alle fondamenta anche il "sindacato confederale", che essendo, per aspirazione e nei fatti, sindacato generale, è, per il capitale, troppo suscettibile di trasformarsi in sindacato di classe. Infatti un sindacato che si rivolga alla generalità degli operai e dei lavoratori, quando anche lo faccia su obiettivi limitatissimi, rischia, anche suo malgrado, di trasformare la lotta dei lavoratori di un'azienda, di una categoria, di una zona (tutte tollerabili per il capitale, in quanto facili da contenere e da sconfiggere) in lotta di una classe (e che classe!).
E' ben vero che, come si è visto innanzi, la proposta dei Consigli non è certo rivolta a ottenere un sindacato di classe. Le loro preoccupazioni sono tutte assorbite dal livello di democrazia presente; quel che conta è di avere la certezza che i rappresentanti sindacali di azienda siano eletti con procedure che rendano tutti i lavoratori elettori ed eleggibili, e che queste strutture sindacali abbiano un potere contrattuale autonomo. La loro proposta di legge è, difatti, tutta incentrata su questo, tralasciando completamente di interessarsi di come debba sopravvivere un "sindacato generale", e introducendo, anzi, alcune misure che ne renderebbero problematica la sopravvivenza. In questa accentuazione del "decentramento democraticistico" c'è un rischio reale, seppur inconsapevole, di incontro con quelle istanze borghesi che tollererebbero un sindacato aziendale, categoriale, di professione, localistico, regionalistico; tutte forme che potrebbero reggersi sul massimo di democrazia, purché siano completamente assoggettabili al "bene supremo dell'azienda e della nazione", e tanto più vi sono assoggettabili, quanto più deboli causa proprio la loro parcellizzazione.
L'affermarsi in ambito operaio dell'aziendalismo o di ogni altro tipo di frammentazione è quanto di più pericoloso possa esserci nel momento in cui il capitale punta a unificarsi e centralizzarsi in massimo grado, ma è una tendenza che si va, purtroppo, rinforzando -a causa soprattutto della sfiducia introdottasi negli operai in anni e anni di strategie sindacali dense di cedimenti- e rischia di essere la premessa di un nuovo arretramento generale della classe.
Il rischio inconsapevole di incontro tra l'istanza democraticista di parte operaia e quella frammentazionista di parte borghese è reso maggiore dalla fiducia che viene riposta nel Parlamento e nello Stato. Un fiducia che è ancora più grande di quella che si ripone nelle proprie forze. Al Parlamento, e a tutti gli "altri" cittadini, si richiede, infatti, di regolare in modo più "democratico" la rappresentanza sindacale dei lavoratori, invocando dallo Stato una legge che sia contro gli attuali vertici sindacali. Ciò che non si riesce a imporre loro con i rapporti di forza all'interno della propria classe, lo si cerca di imporre in virtù di una legge dello Stato!
Anche sulla questione dei "rapporti di forza" all'interno del proletariato, o, più in generale, tra i lavoratori, i Consigli oscillano tra due posizioni contraddittorie. Da un lato sono convinti che CGIL-CISL-UIL non abbiano più alcuna vera rappresentatività, tranne quella che gli sarebbe garantita dall'art. 19; dall'altro sono costretti ad ammettere che tutte le piazze d'autunno-inverno sono state riempite soltanto dai tre sindacati confederali, e che persino le manifestazioni indette come Consigli unitari, in tanto hanno avuto una riuscita (relativamente) di massa, in quanto si erano schierati e mobilitati per esse pezzi interi di strutture territoriali della CGIL. Non fa eccezione, da questo punto di vista, neanche la manifestazione del 27 febbraio, anche se, in quel caso, prevalse di più l'impegno di Prc e Pds rispetto a quello (che pure ci fu in modo importante) delle strutture della CGIL.
Finché si trattava di cercare di organizzare la spinta alla continuazione della lotta contro Amato, taluni temi rimanevano in sottofondo, e nelle analisi delle manovre governative comparivano spezzoni di ragionamento tendenzialmente classisti. Via via che il movimento di massa ha diminuito la sua attività e per i Consigli si è trattato di argomentare l'iniziativa referendaria, ha cominciato a venir fuori tutto l'antico armamentario democraticista. Questo armamentario è, innanzitutto, indinspensabile per colmare un vuoto di programma politico; che "gli spazi del riformismo" si vadano chiudendo è consapevolezza che appare, qui e là, anche nel movimento dei Consigli e in Essere Sindacato, ma del tutto oscura (quando non consapevolmente e decisamente rifiutata) è, per gli uni e gli altri, l'unica alternativa, rivoluzionaria e di classe, che comincia, ormai, a essere posta all'ordine del giorno. Ma quell'armamentario è anche indinspensabile a colmare il vuoto di azione che si para innanzi a gruppi, pur combattivi, di operai e militanti della sinistra più "radicale" allorquando sperimentano la loro impotenza nel voler sinceramente contrastare la deriva del riformismo sindacale e politico senza aver alcuna chiarezza delle cause di fondo e senza alcun reale programma in grado di rilanciare e unificare la lotta e l'organizzazione della classe operaia. Così nel tentativo di contrastare la deriva altrui, si prepara il terreno per quella propria.
Riconoscere i limiti del movimento dei Consigli non comporta, per noi, alcuna modifica del giudizio che abbiamo dato sul ruolo oggettivo avuto da questo movimento nel raccogliere, in un ambito di discussione e di iniziativa verso tutta la classe, quella avanguardia operaia che è andata accumulando un dissenso sempre più profondo nei confronti di un sindacato vieppiù preoccupato delle "compatibilità" e sempre meno occupato a organizzare una difesa delle condizioni di lavoro e di vita dei lavoratori. Questo ruolo è stato svolto al di là della coscienza che risiede nella testa di ognuno degli esponenti del movimento. Quella coscienza ha dato tutto il suo contribuito, però, nel determinare un repentino esaurirsi delle spinte classiste iniziali e nel rafforzare un orizzonte votato al più estremo e inconcludente (per la classe operaia) democraticismo.
Al di là delle sorti di questa esperienza, rimane per gli operai la necessità di costituire una propria linea di resistenza basata su contenuti di classe, in grado di mobilitare l'intero schieramento proletario, di unificarlo e di organizzarlo, facendo i conti, su questa base, con la logica e la linea dei sindacati ufficiali, nel fuoco di una battaglia politica su obiettivi, lotte, programmi, assieme alla quale dar vita e rinforzare la propria autonoma organizzazione sindacale e politica.
Per essa non servono le firme, né le schede. Meno che mai le leggi dello Stato!