Il movimento dell'autunno '92

IMPORTANZA E LIMITI
DI UNA TORNATA DI LOTTE

Indice


La borghesia è costretta dall'incedere della crisi mondiale del capitalismo a cercare di sovvertire i rapporti che si erano creati e consolidati tra essa e il proletariato nei decenni di sviluppo economico "pacifico". Un sovvertimento che attiene tanto alla sfera economica (salario, contrattazione, occupazione, stato sociale) che a quella politica (ristrutturazione della democrazia, riordino autoritario dello Stato).

Il proletariato è del tutto ignaro di come l'intero battage sulle questioni politiche abbia, in ultima istanza, lui come destinatario finale, dato che è innanzitutto contro le sue necessità e aspettative che lo Stato si va blindando. Diversamente, sul piano economico il susseguirsi dei provvedimenti governativi e padronali dall'estate dello scorso anno in avanti hanno aperto un improvviso squarcio di coscienza di classe nella grande massa. Sollecitata su quel versante in modo più chiaro, la classe operaia ha messo in campo, tra settembre e ottobre, un significativo movimento di lotta. Nel n° 25 del che fare abbiamo dato conto sia delle caratteristiche dell'attacco borghese che della risposta proletaria, delle difficoltà, dei limiti, degli aspetti positivi. Il tutto osservato secondo una prospettiva che non è quella dell'immediatismo, ma dell'inquadramento più generale nel corso di una ripresa dello scontro aperto tra le classi, di cui il recente movimento costituisce solo una ridotta -per quanto significativa- anticipazione, un piccolo. concentrato assaggio, cui manca gioco forza- più di un importante ingrediente, su ognuno dei versanti di classe.

Classe nazionale

Dal versante borghese è giunto, senza dubbio, un attacco generale dalla durezza inusitata, ma esso è ancora poca cosa se rapportato a ciò di cui il capitalismo nazionale ha bisogno per mantenere le sue posizioni economiche, politiche e militari nel marasma internazionale che avanza. Inoltre la borghesia ha, ancora, accompagnato il suo attacco con una politica "pro-operaia", sia richiamando il co-interesse operaio alla tenuta dell'econornia nazionale, che conservando ancora fette di stato sociale per gli strati meno abbienti, che mostrandosi attiva nella ricerca di tamponi all'esplodere del problema occupazionale. Nessuno di questi aspetti è di pura facciata, e a ognuno di essi viene tributata credibilità dalla coscienza non solo della massa. L'ideologia del "siamo tutti (nazione, paese) nella stessa barca" è più profonda di quanto la "disaffezione" dei "cittadini" verso lo Stato, conclamata dall'annaspante sociologismo sinistroide, lasci -a tutta prima- credere. Il nazionalismo non ha ancora manifestato le sue possibilità di sviluppo, ma esso è maturo, attende solo che lo Stato si depuri da una "classe" politica "marcia" e che forze come le Leghe abbandonino definitivamente il loro anti-nazionalismo regionalistico.

L'una e l'altra condizione sono nell'ordine delle cose, e non lungi dal realizzarsi.

La borghesia agita, dunque, con cautela il tema del nazionalismo; più esplicito di lei è, invece, il riformismo in tutte le sue sfaccettature sindacali e politiche. Non è un caso, né una forzatura; corrisponde esattamente a quanto il grosso della classe realmente pensa e crede. E' questo un prodotto oggettivo del sistema capitalistico e soggettivo di un riformismo che ha sempre rivendicato la funzione di governo alla classe, proprio in quanto classe nazionale.

I frutti futuri della peste nazionalistica, con l'acuirsi dello scontro inter-imperialistico, sono prevedibili (e già tutti scritti nella storia passata), ma essi infestano già oggi la lotta della classe proletaria. Lo stesso movimento dell'autunno 92 ha risentito di questo limite. Non solo perchè la sua avanguardia, anche la più "radicale", non ha mai sollevato lo sguardo oltre i confini nazionali (e quando ha provato a farlo si è opposta, per esempio, all'unità europea con argomentazioni ... nazionalistiche), quanto perchè ha affrontato tutto lo scontro preoccupata di non arrecare eccessivi danni all'economia 'Ai tutti", finendo -sia pure a malincuore con l'accettare la conclusione delle lotte decretata dai vertici sindacali per non costringere alle dimissioni il governo in un momento già tanto difficile per I' "azienda Italia" sui mercati internazionali.

L'orizzonte nazionale della coscienza proletaria è un dato oggettivo il cui superamento è possibile solo con la presenza e l'azione del partito rivoluzionario, la cui opera può essere fecondata dall'esplodere di contraddizioni che sospingano la massa ad abbandonare quell'orizzonte.

Non v'è dubbio che di materiale incandescente, in tal senso, se ne vada -non più solo sotterraneamente preparando.

Riformismo delle masse

Identico è il ragionamento sull'altro grande "limite" (li chiamiamo così non per intenderli al modo delle barriere che separino i rivoluzionari dalla classe, ma perchè li intendiamo come gli ostacoli che i comunisti rivoluzionari devono impegnarsi a far superare all'insieme della classe) del movimento d'autunno: la sua coscienza riformista. Non è un dato separato dal primo: l'uno e l'altro si tengono in piedi vicendevolmente.

Entrambi sono nella classe e non sono soltanto dei vertici e degli apparati sindacali e politici del riformismo.

Questa piccola annotazione è per i marxisti della massima importanza. Da essa ne fanno derivare il proprio atteggiamento nei confronti del proletariato, nel senso di tendere a guidarlo lungo l'acuirsi dello scontro di classe, reso inevitabile dal crescere dell'aggressività capitalista, ad abbandonare la sua coscienza riformista e, con essa, le organizzazioni riformiste. Chi non la vede non può che dedicarsi alle più inconcludenti ricerche, o "forzature soggettiviste" o -verificata l'inevitabile inutilità delle une e delle altre...abbandoni del fronte di classe.

Il movimento dei mesi scorsi ha messo sotto gli occhi di tutti la fine di un certo riformismo. Quello basato sulla possibilità di incrementare il benessere operaio -sia pure sempre in proporzione decrescente rispetto all'incremento di quello del capitale- e l'influenza proletaria sugli assetti politici generali. A meno che un nuovo conflitto mondiale non prevenuto, né interrotto o seguito, da alcuna rivoluzione comunista in nessuno dei grandi paesi imperialisti non riporti a una situazione simile a quella del 1945, la stagione della "crescita" è definitivamente chiusa e non è più rieditabile.

La scomparsa del riformismo della "crescita" non comporta la scomparsa pura e semplice del riformismo. Pure in fasi di recessione piena o di vera e propria depressione economica, tra soluzione capitalistica e soluzione proletaria si inseriscono mille varianti che cercano -unico fine- di conciliare una relativa difesa delle condizioni della classe con la sopravvivenza del capitalismo. In un quadro, però, -e questo sommamente interessa i comunisti rivoluzionari- di difficoltà sempre maggiori per lo stesso riformismo. Queste. e non altro, hanno cominciato a far capolino nell'auturmo'92, sospingendo una parte della classe -pur nella sua totalità schierata su posizioni interamente riformiste- a entrare in conflitto con i suoi stessi vertici, opponendo loro non il programma della rivoluzione, ma soltanto un modo più coerente e conseguente di impostare e condurre la lotta per obiettivi di difesa delle condizioni di vita ritenuti e dichiarati unitari da vertice e base: tutte le classi paghino equamente per le difficoltà economiche e finanziarie indotte dalla crisi.

Dissenso e organizzazione

La incoerenza, la "tiepidezza" dei vertici sindacali avevano già da tempo iniziato a produrre malumore nelle fila operaie. Questa volta dal malumore si è passati al dissenso organizzato, rappresentato dal movimento dei consigli di fabbrica unitari.

La funzione che questo movimento ha svolto è stata, per tutta una fase, positiva, raccogliendo gli insegnamenti che l'inizio delle lotte avevano dato: iniziativa che nasce da una parte della classe, ma che si rivolge a tutto il suo insieme. per generalizzare la lotta, per mettere in campo uno schieramento adeguato alla posta in gioco, senza rifiutare, anzi ricercando una centralizzazione anche se -come è ovvio date le circostanze- riconoscendo la guida ai vertici sindacali.

Dove altri vede il tradimento dei consigli (nel rivolgersi a CGIL-CISL-UIL) noi vediamo, invece, il passaggio obbligato per estendere il movimento di lotta. E' -tuttora, e finché non vacilleranno le fondamenta della coscienza riformista della classe -l'unico modo per coinvolgere nella lotta le migliaia di operai sindacalmente attivi in miriadi di industrie e, con essi, i milioni di lavoratori che rispondono alle sollecitazioni solo dei grandi sindacati, non perché stupidi o "arretrati", ma perché consapevoli, data la coscienza della scarsa forza nelle singole aziende e categorie, che solo un assetto unitario del fronte di lotta può consentirgli di credere nella possibilità di vincere (o. nel caso specifico, non perdere troppo). E una mobilitazione unitaria di tutta la classe e, attorno a essa, di buona parte del lavoro dipendente può essere -a tutt'oggi- garantita solo da CGIL-CISL-UIL.

Questa verità semplice, ma indigesta per molti, ha guidato il movimento dei consigli, consentendogli di ottenere dei relativi successi, nel tenere viva la mobilitazione contro il governo e inducendo nei sindacati problemi ben maggiori del semplice mugugno diffuso, nel mettere ai margini le alternative del tipo "quarto sindacato" e spodestando "Essere sindacato" -i cui maggiori esponenti sempre più spesso si perdono in fumose alchimie di ricerca di "nuove" confusissime sinistre, per di più con improbabili alleati verdi, retini, ecc. dal ruolo di unica opposizione interna ai sindacati.

Il punto più alto del movimento dei C. di F. è stato lo sciopero del 29 ottobre e la manifestazione di Milano, riuscita grazie alla forza di trascinamento che i Consigli ebbero, in quel momento, su parte della CGIL. Dopo di allora è andata scemando sia la disponibilità alla mobilitazione delle masse che la stessa capacità di mobilitazione dei consigli.

Nella massa dei lavoratori sono prevalsi ragionamenti e atteggiamenti non molto dissimili da quelli sostenuti dai vertici sindacali, e che, cioè, data la situazione di crisi generale, non era possibile ridurre oltre la quota di sacrifici dei lavoratori, che altre piccole modifiche e, soprattutto, l'aumento della quota dei sacrifici delle altre classi, si sarebbero potute ottenere con successive azioni di lotta. Naturalmente tutto ciò dipende dalla risolutezza dei sindacati, o meglio da quella che riusciranno a imporgli gli operai.

Molti altri lavoratori, non soddisfatti dei risultati raggiunti, avrebbero continuato la lotta, ma hanno visto nella decisione sindacale di interromperla il venir meno della possibilità di continuarla vittoriosamente.

Sugli uni e sugli altri cominciavano a pesare le dimensioni che andavano via via assumendo le minacce all'occupazione.

Ma anche il serbatoio diretto dei consigli -gli operai delle aziende di cui i consigli aderenti al coordinamento sono emanazione- iniziava a ridurre la sua disponibilità alla mobilitazione. Due mesi di lotta, con fabbriche che avevano fatto anche 56 giorni di sciopero, non erano riusciti a portare fino allo sciopero generale e alla sconfitta del governo. Altre lotte con lo stesso segno, ovvero per richiamare alla mobilitazione il resto dei lavoratori e dei sindacati. apparivano inevitabilmente. a quel punto, del tutto improponibili.

In sostanza l'obiettivo su cui il coordinamento era nato (portare fino in fondo la lotta al governo) si poteva considerare non raggiunto, né più raggiungibile all'immediato.

La presa d'atto di questa sconfitta ha costretto il movimento a domandarsi perchè il resto dei lavoratori non si erano incamminati sulla sua stessa strada. La risposta che, via via, è emersa come maggioritaria è stata quella di credere che la responsabilità sia da addebitare al ruolo oppressivo delle burocrazie sindacali, al fatto che esse non rappresentano più i lavoratori. se non per un potere riconosciutogli da puri atti formali, quali l'art. 19 dello Statuto dei lavoratori. Da questa risposta -falsa e comoda a un tempo- il coordinamento ha derivato la scelta di dedicarsi al referendum abrogativo di quell'articolo -o almeno di una parte-. In tale modo ha finito, suo malgrado, con l'avvicinarsi al terreno caro a Cobas e Flmu e a tutti quelli che fanno della "democrazia sindacale" un valore "in sé Il , giungendo al punto di desiderare non solo la scomparsa di CGIL-CISL-UIL ma di ogni forma di sindacato generale, nella convinzione che da ciò debba per forza di cose nascere un moto spontaneo di Il tutta la base" a riorganizzarsi nelle forme ritenute democraticamente più adeguate. Quale sarebbe la sorte delle sezioni meno forti della classe (ma è concepibile nel quadro di crisi che monta- che esistano ancora sezioni forti della classe, in grado cioè di difendersi da sole senza svendersi alle necessità aziendali?), quali sarebbero le sorti di intere categorie la cui forza contrattuale è zero (dipendenti di piccole aziende, di artigiani, lavoratori precari e precarissimi dei servizi e del terziario, ecc.) e che hanno ottenuto finora un minimo di protezione grazie unicamente alla forza fornita ai sindacati dalla classe operaia'? Sono domande che Cobas e Flmu rifiutano di porsi. I consigli cercano tortuosamente di tenerle presenti e propenderebbero per un quesito referendario che abroghi solo una parte dell'art. 19. tenendo in vita quella che al riconoscimento dei sindacati pone la condizione di aver firmato i contratti nazionali o aziendali. Dove essi cercano l'appiglio per tenere ancora in vita l'idea di sindacato generale, i Cobas vedono. invece, il rischio di lasciar scegliere ai padroni quale sindacato far vivere.

La diversità di intenti delle due posizioni non cambia il comune denominatore: l'abbandono all'illusione democraticista, al credere cioè che attuato il principio "una testa un voto" nascerebbero -pochi o tanti non importa- sindacati con linee politiche diverse da quelle attuali.

L'illusione porta, però, con sé anche il rischio di una vera e propria deriva.

Il proletariato sta iniziando a sperimentare non solo l'insufficienza di CGIL-CISL-UIL, ma l'insufficienza della sua stessa coscienza acquisita nei decenni precedenti. E' quella, più ancora di Trentin-D'Antoni-Larizza, a non consentirgli di dislocarsi su posizioni di coerente, autonoma difesa di classe.

Qui si apre un terreno di lotta politica su programmi, obiettivi, forme e tempi delle lotte rispetto al quale l'illusione democratica suona come vera e propria confessione di impotenza, come vero e proprio ritiro dal campo. Non è una scorciatoia: è una via che va da tutt'altra parte. E' una via. inoltre, del tutto arretrata in confronto alle necessità attuali: mentre la borghesia lavora per una sua maggiore centralizzazione. si sforza (e riesce) a muoversi come un sol uomo a sostegno del governo. il proletariato dovrebbe frammentarsi e decentralizzarsi, fronteggiare le compatte schiere nemiche disperdendo le sue, rinunciare alla lotta per cambiare strategie e capi, dichiarando di voler fare a meno delle une e degli altri qualunque siano.

Le tendenze che vanno prevalendo nel movimento dei consigli e che, pure, fermamente combattiamo. in nulla sminuiscono il significato delle lotte d'autunno né il valore che lo stesso Coordinamento dei C. di F. ha avuto.

Questo è consistito essenzialmente nel passaggio da un mugugno diffuso ma sterile a una prima precarissima e densa di limiti- forma di organizzazione operaia per condurre un'iniziativa diretta a far attestare l'insieme dei sindacati e l'insieme della classe su una linea di più coerente lotta di difesa dall'attacco della borghesia. E' il valore fondamentale di questa esperienza, che difendiamo al di là dei suoi esiti immediati, consci che il corso della ripresa di lotta di classe postula un'attivizzazione diretta delle masse su tutti i piani, compreso quello dell'organizzazione, e consapevoli, non di meno, che non si tratta di appassionarsi a questa o quella forma, tanto meno a quelle prodotte ai primi passi di un cammino che si annuncia asprissimo.

Ha un senso. dunque, puntare a mantenere e continuare l'esperienza dei consigli unitari solo se rimarranno solidamente su quel terreno di iniziativa tesa a tenere in vita uno schieramento di lotta generale e centralizzata contro l'attacco capitalistico. che senza abbandonare il terreno salariale comincia a farsi durissimo anche su quello occupazionale.

Attacco all'occupazione

Su questa seconda questione le difficoltà di risposta proletaria sono. se possibile, ancora maggiori che sulla prima. La tendenza prevalente è, per moto spontaneo e per attitudine sindacale, quella a ritenere il problema dell'occupazione fatto unicamente aziendale (quando non individuale), il che comporta una spontaneissima spinta ad affrontarlo tenendo conto delle necessità produttive e di mercato delle singole aziende. Su tale spinta si innesta, con assoluta naturalezza, la logica sindacale (e, più in generale. riformista) di compartecipazione e corresponsabilizzazione che produce i sempre più diffusi (non solo in Italia) accordi aziendali di scambio tra salario, condizioni di lavoro, orario, da un lato, e contenimento dei licenziamenti, dall'altro.

Il terreno dell'occupazione è, insomma, quello su cui è più necessario realizzare condizioni di lotta generalizzata e centralizzata, ma è, allo stesso tempo, il terreno su cui è più difficile realizzarla. Nello stesso movimento dei consigli hanno convissuto, senza unificarsi, la lotta generale su questioni salariali e quella in difesa dell'occupazione di una fabbrica i cui delegati erano all'avanguardia dello stesso movimento: la Maserati. Eppure la soluzione della vertenza-Maserati (garanzia dei livelli occupazionali) è stata possibile proprio grazie all'effervescenza del movimento generale contro Amato. Senza di esso, quella soluzione sarebbe stata impossibile. E' questa la riprova che va fatto per l'occupazione lo stesso identico percorso tentato contro la manovra, ossia la messa in campo di tutta la forza operaia per contrastare una politica capitalistica che, quando ricorre ai licenziamenti o ad altri ricatti sull'occupazione, non lo fa per colpire solo gli operai direttamente coinvolti, ma tutta la classe, scaricando su di essa le conseguenze della sua crisi e indebolendola nella sua organizzazione e nella sua tenuta unitaria. D'altronde, lo stesso governo si è incaricato di dare alla questione un più aperto carattere di classe assumendo provvedimenti di portata generale, come il "salario d'ingresso", il "lavoro interinale", ecc.

La durezza con cui l'attacco all'occupazione si va configurando rende, comunque, sempre meno credibile agli occhi degli operai, e agli occhi dello stesso riformismo, la risposta Il "caso per caso", azienda per azienda, e impone la ricerca di un programma più ampio e complessivo. In linea di massima la CISL e la UIL mostrano di condividere l'impostazione perseguita da Amato e dalla Confindustria, quella. cioè, di introdurre una maggiore flessibilità sia nel rapporto di lavoro che nell'erogazione del salario. In questo modo non si otterrebbe alcuna occupazione aggiuntiva, tuttalpiù si otterrebbe di limitare l'aumento della disoccupazione, ma il costo di questo (incerto) risultato sarebbe tutto sulle spalle della classe operaia che dovrebbe rinunciare alle "rigidità" conquistate in decenni di lotte e accettare di indebolire ulteriormente la sua forza e la sua tenuta unitaria.

La CGIL, invece, almeno per bocca di Trentin (v. l'intervista a "L'unità" del 2.2.93) propone di sviluppare un movimento generale di lotta per un "un piano straordinario di mobilitazione delle risorse pubbliche'' che renda realizzabili "veri e propri programmi di reindustrializzazione". Trentin non pensa, ovviamente, di negare la prospettiva di compartecipazione a livello aziendale, ma di sussumerla a livello nazionale. prospettando uno scontro di classe oltre che sull'allocazione (a protezione dell'industria e dell'occupazione) anche sul reperimento delle risorse. Per quanto riguarda questo. infatti, Trentin pur parlando di necessità di ulteriori sacrifici, esclude che debbano gravare ulteriormente sui pensionati, per i quali richiede che ci sia "la tutela integrale del potere di acquisto per il 1993", e sui lavoratori, per i quali rivendica la "restituzione integrale del fiscal drag entro il '93, onde attenuare quanto meno la caduta dei salari reali" e fa intendere che vanno aggredite le "ragioni vere" del "deterioramento" della "posizione competitiva" dell'Italia, ovvero, secondo lui, "la dispersione delle risorse del Paese verso la speculazione finaziaria". Il modo in cui realizzare questo reperimento è, evidentemente, quello che lo stesso segretario della CGIL va indicando dal settembre dello scorso anno come alternativa alla manovra del governo: prestito forzoso gravante su tutti i redditi ma da restituire dopo un certo numero di anni, imposta patrimoniale. nominatività dei titoli del debito pubblico.

Le formulazioni di Trentin -non nuove per il personaggio, né per la maggioranza. e la storia, della CGIL- non sono una boutade, né dei semplici esercizi verbali per rifarsi una verginità operaia, ma costituiscono la base solida (il che non equivale a: pienamente realizzabile) di un vero e proprio programma di lotta e di governo (tanto più, per il riformismo, credibile come lotta in quanto credibile come programma di governo). Non è un caso che, pur con ricorrenti polemiche tra i due sulle 'tattiche" parlamentari o sindacali, ci sia una grande affinità tra le proposte di Trentin e quelle che ha sostenuto Occhetto presentando, il 3 febbraio al Parlamento, la mozione di sfiducia ad Amato e delineando le linee programmatiche del suo "governo di svolta".

Quella che sottostà a questo programma è una logica che va pienamente nel senso di un riformismo "operaio" -borghese, di una politica, cioè, che mira a realizzare una tenuta delle condizioni della classe operaia nell'ambito della difesa e del rilancio del capitalismo nazionale, e che, anzi. rivendica agli operai il pregio di essere gli unici coerenti portatori del sentimento nazionale.

Corollario di questa politica è, inevitabilmente. la scelta di un maggiore protezionismo, sia sul piano industriale (come, altrimenti, garantire mercato alle industrie nazionali in un quadro di avanzante recessione?) che sul piano finanziario (viceversa, l'imposta patrimoniale e la nominatività dei titoli indurrebbero un massiccio esodo all'estero di capitali). Le sollecitazioni protezionistiche vanno, peraltro, crescendo magmaticamente anche in seno alla piccola-borghesia e a qualche settore della grande borghesia, come ha dimostrato. per esempio, il risorgere di una certa antipatia anti-tedesca sull'onda dell'orrore per gli episodi razzisti in Germania e nella ricerca di un responsabile delle difficoltà valutarie italiane, individuato nella Bundesbank (nota a margine: nel rispolveramento dell'anti-germanismo si è distinta soprattutto la "sinistra", in primis il manifesto). Potrebbero, dunque, le spinte protezioniste, in tutt'uno con il "rilancio dell'industria costituire un terreno di teorica alleanza tra classi (o spezzoni di classi) nazionali, alla maniera del tentativo -peraltro ancora confuso- di Clinton, al cui partito, infatti, Trentin, nell'intervista citata, idealmente si iscrive, e come lui tanti altri esponenti della 'sinistra" -Rifondazione inclusa.

Per l'occupazione, lotta generale

Il fatto che vadano emergendo elementi di un programma di lotta e di governo non comporta necessariamente la conseguenza che il riformismo si dedichi a esso con decisione, né sul piano del governo, tanto meno su quello della lotta. Basti vedere le indecisioni, le incertezze, i cambiamenti continui di opinione. di alleanze (e ... di umore) con cui Occhetto, e tutto il Pds. stanno affrontando questa fase difficile e confusa di "ristrutturazione della democrazia". Mentre sull'altro lato -quello delle lotte- è sempre pronta la scusa dei rapporti unitari con CISL e UIL per stemperare obiettivi e forme di lotta.

Ma tutto ciò non toglie che quegli elementi di programma possano apparire convincenti a una grandissima parte di operai e di lavoratori, rivivificando quel rapporto riformismo/masse, e, in specifico CGIL/ masse, dato continuamente per esaurito sia da alcuni campioni di "marxismo" che da tanti campioni di "operaismo" (e/o di democratismo, visto che ormai i due filoni appaiono del tutto indistinti, come la vicenda del referendum sull'art. 19 dimostra) più o meno scientemente a-marxisti (quando non apertamente anti-marxisti, in nome, magari, di una completa opposizione a Lenin).

Ove mai si confermasse e si estendesse, dunque, il passaggio da una lotta "caso per caso" a una lotta generale in difesa dell'occupazione (già iniziato con alcuni scioperi regionali) sarebbe oltremodo importante per il proletariato. Le difficoltà che militano contro questa evenienza, non ce lo nascondiamo, sono, comunque, molte e varie. Dello stato di vera e propria confusione in cui versa il Pds e, in buona misura, la stessa CGIL si è già accennato. A esso si aggiunge la difficoltà classica del riformismo a lanciare e sostenere fino in fondo uno scontro di classe che rischia, giunto ad un certo punto, di creare grandi difficoltà al "normale" svolgimento dell'"economia nazionale" e a introdurre una "eccessiva" lacerazione del tessuto "democratico". Né un grande contributo può venire da Rifondazione che si va, sempre più. orientando a lavorare non perchè riemerga una decisa lotta di classe, ma perchè gli operai si pongano al servizio di una "conservazione" e "rigenerazione" della democrazia. impegnandosi nella raccolta di firme a sostegno dei più svariati referendum, a iniziare da quello sull'art. 19, tramite il quale, evidentemente, il Prc spera di rilanciare la possibilità di dare vita a un suo sindacato che raccolga i pezzi già esterni a CGIL-CISL-UIL assieme a qualche pezzo ancora interno come "Essere Sindacato". Ma di difficoltà ne esistono, e non poche, tra gli stessi lavoratori. La grande disponibilità riversata nelle lotte contro la manovra di Amato e i ben miseri risultati ottenuti hanno contribuito a diffondere, ulteriormente, un senso di sfiducia e di impotenza, che, come sempre accade, non è rivolto solo contro i vertici sindacali, ma riguarda la stessa utilità della lotta. Questo senso di sfiducia va a sommarsi alle resistenze "tradizionali" a fare dell'occupazione un tema che esuli dai confini della singola azienda.

Superare la sfiducia nelle proprie forze e riprendere con fermezza un percorso di lotta, è, dunque, il primo essenziale compito cui i comunisti e tutte le avanguardie di classe devono dedicarsi, raccogliendo e fortificando quei segnali che, pure, vanno emergendo come nelle lotte sviluppate a Napoli dai lavoratori dell'Alenia e dai lavoratori messi in mobilità con la legge 223, o a Torino con il tentativo di unificare le lotte delle aziende in crisi. Se si affermasse, poi, un programma di lotta simile a quello delineato da Trentin, ai comunisti spetterebbe il compito, sul piano immediato:

- di denunciare i limiti dell'impianto compartecipativo, in virtù del quale un peggioramento delle condizioni di vita della classe operaia -anche se in quantità inferiore a quello provocato da un capitale libero di attuare le sue politiche- non è escluso, anzi, è inevitabilmente, presupposto, come presupposta è l'impossibilità di azzerare la disoccupazione:

- di lavorare a fare emergere un programma di difesa autonoma di classe, imperniato sulla rivendicazione di una riduzione drastica e generalizzata dell'orario di lavoro e di salario a tutti i disoccupati.

Quest'ultimo punto non è, per noi, l'equivalente di un programma da opporre alle lotte che le masse vadano facendo su altri obiettivi. Al contrario, prima condizione è che le lotte ci siano, che ci sia, cioè, una risposta di lotta da parte della classe, senza la quale qualunque programma (anche il più "perfetto") sarebbe puro esercizio verbale. Seconda condizione è che la risposta sia dell'intera classe (occupati, disoccupati, cassintegrati, lavoratori in mobilità, extracomunitari). A questo punto soltanto, grazie all'esperienza che le masse vanno facendo nello scontro, si può porre la necessità di verificare gli obiettivi e la logica che sottintendono. Quelle condizioni non sono, naturalmente, fatto temporale: i comunisti non rinunciano in nessun momento a sostenere e propagandare neppure il loro programma immediato; non lo pongono mai, però, alla stregua di una precondizione che, rimanendo irrealizzata, li induca a estranearsi dalla lotta.

I provvedimenti che Amato va assumendo sull'occupazione e la legge 223 possono e debbono costituire un primo terreno di mobilitazione unitaria della classe, e assieme alla lotta contro di essi deve cominciare a svilupparsi un fronte generale che faccia del tema della difesa dell'occupazione un obiettivo di lotta generale al pari -e contemporaneamente- della lotta contro le misure antisalario e anti-stato sociale.

Rimanga o no in vita l'esperienza dei consigli, si dedichino essi o no esclusivamente a pratiche firmaiole e schedaiole, non cambia per i comunisti rivoluzionari, e per le avanguardie che si collocano coerentemente su un terreno di classe, il compito. sul piano immediato, di lavorare alla sollecitazione e alla costruzione di un fronte di classe unitario di lotta di difesa, reso sempre più urgente e necessario. per lo stesso proletariato, dal procedere dell'offensiva capitalista.