Stati Uniti
La "corsa" alla Casa Bianca non è stata certamente un gioco delle parti. un ricambio rituale ed orchestrato fra repubblicani e democratici. Nelle presidenziali americane si sono effettivamente scontrate due opzioni diverse della borghesia statunitense sul come e con chi superare le difficoltà dell'economia americana e rimettere in "carreggiata" l'imperialismo yankee. Due opzioni sulle quali ha senz'altro pesato, a favore di quella perorata dai democratici, tanto lo shock subito dalla piccola e inedia borghesia in seguito alla rivolta di Los Angeles, premonitrice di ben altri sommovimenti sociali, quanto il rapido impoverimento di ampi settori della piccola borghesia americana assieme alle illusioni e le aspettative di consistenti strati operai e proletari, duramente colpiti dalla politica economica dei due precedenti governi repubblicani. Illusioni però, e soprattutto aspettative dì miglioramento delle proprie condizioni di vita. L'adesione offerta a Clinton, ha l'esplicito senso di una rivendicazione, indice e presupposto di interessi di classe che vanno divaricandosi.
Ma nella fase attuale di crisi acuta del capitalismo mondiale, di aperta guerra economica fra gli Stati, negli USA come in Europa, la borghesia è costretta ad assumere ed imporre amare ricette al proprio proletariato. nel cercare di difendere e di conquistare quote di mercato. L'essenza della "Clintonomics" non potrà discostarsi di molto dall'operato della borghesia americana nel corso degli anni '80 e vedrà continuare l'attacco alla propria classe operaia, l'intensificarsi dello sfruttamento del proletariato latino-americano e delle masse del terzo mondo ed infine l'acutizzarsi del processo di polarizzazione sociale in atto non solo negli States ma su scala mondiale.
Le speranze che l'elezione di Bili Clinton alla Casa Bianca aprisse la strada ad un nuovo New Deal di rooseveltiana memoria e ad una fase di minore aggressività internazionale dell'imperialismo USA non è durata che pochi giorni. Se a novembre molti fra i nostri riformisti, progressisti, democratici plaudivano alla vittoria di Clinton e si lanciavano in arditi paralleli storici fra "Bill", Roosevelt e Kennedy, a dicembre i dati forniti sullo stato delle finanze federali USA, smorzavano molti entusiasmi ed a gennaio le dichiarazioni di Clinton di incondizionato appoggio alla decisione di Bush di bombardare l'Iraq, lasciavano affiorare parecchi dubbi sulle nuove tendenze "pacifiste" del Pentagono.
A rendere più "credibili" le promesse elettorali di Clinton di rilanciare l'economia statunitense attraverso faraonici programmi di spesa pubblica, la detassazione di piccole imprese, la creazione di un sistema sanitario nazionale, la creazione di nuovi posti di lavoro etc. etc. sono arrivati i promettenti dati sulla "ripresa" dell'economia americana. Ripresa del "made in USA". nel settore manifatturiero. automobilistico. chimico. elettronico. Se si confrontano i principali indicatori relativi a questi ultimi mesi solo gli Stati Uniti registrano una produzione industriale del + 1.5% davanti al -8% del Giappone ed al -5.1% della Germania.
Ancora una volta però questi indici positivi. ottenuti attraverso profonde ristrutturazioni e licenziamenti e con l'impiego di manodopera a basso costo nelle fabbriche decentrate in Messico. non costituiscono un reale conforto per le prospettive dell'economia statunitense. Senza dubbio l'imperialismo statunitense sta lucrando gli effetti della rendita di posizione acquisita attraverso il proprio rinnovato impegno politico e militare in tutte le aree del mondo, nonché dalle difficoltà dei concorrenti internazionali (vedi la situazione giapponese, il tramonto della "integrazione europea" e l'aspra lotta nel definire spazi e limiti nell'ambito dell'"arca di libero scambio" del vecchio continente), ma è estremamente indicativo il fatto che il modesto incremento dei suoi indici di produzione fa capo alla pesante diminuzione di quelli degli altri paesi imperialisti. Ciò dimostra ulteriormente come ogni punto acquisito dagli Usa, negli spazi di mercato internazionali, costituisce un punto perduto dai concorrenti.
Non siamo di fronte ad un allargamento dei consumi e della richiesta di merci da parte della struttura economica statunitense e mondiale. La voce attiva della ripresina attuale è infatti costituita per gli Usa dalle esportazioni (e tra queste la vendita delle armi ne costituisce una parte importante), mentre il mercato interno non presenta sintomi di espansione dei consumi. Anche l'aumento relativo delle vendite di automobili all'interno del paese fa capo alla perdita relativa di quote dell'industria giapponese (la bilancia commerciale degli USA continua comunque a registrare un deficit di 81 miliardi di dollari). Quindi: i relativi vantaggi attuali dell'economia statunitense non solo non costituiscono un "traino" per l'economia mondiale, ma acuiscono la concorrenza e la conflittualità tra gli imperialismi: si inseriscono e non costituiscono una controtendenza alla complessiva e sempre più profonda crisi di sovrapproduzione del mercato mondiale. Non ha senso parlare di una ripresa dell'economia mondiale in generale riferita ad un singolo paese (anche se questo è il paese imperialista più forte), dimenticando che da più di un secolo l'economia capitalistica è un'economia planetaria.
Inoltre. su quali basi questa ripresa sta avvenendo'? I reali vantaggi ottenuti per esempio dall'industria automobilistica USA sono avvenuti attraverso il decentramento delle proprie fabbriche nelle favorevoli terre messicane. favorevoli ovviamente per il bassissimo costo della manodopera di lì. E per il proletariato all'interno? Riduzione dei salari e migliaia di licenziamenti. .
Altro che sogno americano di un nuovo sviluppo: ormai anche nel cuore dell'imperialismo mondiale la caduta dei profitti non può essere contrastata senza colpire la classe operaia. La vera natura del capitalismo si mostra con aspetti terrificanti (basti pensare ai milioni di poveri od ai tassi di mortalità infantile negli USA) anche al proletariato che ha potuto maggiormente godere dei vantaggi dei sovrapprofitti imperialisti, aprendo un fronte interno di classe ed unificando le sorti della classe operaia statunitense a quella del proletariato internazionale.
Ma al contrario di quanto oggettivamente va maturando, le schiere dei clintoniani europei ("Unità" e "Manifesto" in prima fila) si innamorano del progetti neo rooseveltiani di Clinton e preannunciano la possibilità che di nuovo l'imperialismo statunitense ritrovi quegli equilibri interclassisti che cancellino "l'oscurantismo del liberismo sfrenato di Reagan e soci". Il cardine di questa "nuova via", "nuova primavera", celebrata con ampie manifestazioni populiste, sarebbe costituito dalla nuova "politica sociale" e dall'intervento statale più "equilibrato" in economia. New Deal, appunto.
Sarebbe interessante ricordare a coloro che celebrano questa eventualità come una possibile svolta positiva degli equilibri mondiali, che fu proprio la politica di sostegno alla domanda interna che gettò le basi di quella "ripresa americana" che non sfociò certo nel rilancio dell'accumulazione capitalistica, ma nella 'cura" distruttiva della sovrapproduzione costituita dal 2° conflitto mondiale. Ma ci rendiamo conto che le immagini confortanti di Hilary e Bill contornati da una schiera policromatica di ministri e collaboratori di ogni razza è un richiamo troppo forte per gli animi ex sessantottini.
Per le prospettive rivoluzionarie la domanda è un'altra: può la borghesia statunitense supportare attraverso l'intervento statale un nuovo e generale accorpamento delle classi in vista del l'inasprimento della concorrenza imperialista? Il contenuto del vecchio e nuovo "New Deal'' è infatti tutto nel nazionalismo populista che lo anima. La unica e vera differenza sta nel fatto che quello attuale non può adoperare quegli strumenti di sostegno artificioso della domanda che Roosevelt mise in campo negli anni trenta. li disavanzo federale USA è stimato nel 1993 in 327 miliardi di dollari con una previsione per il 1998 di circa 400 miliardi di dollari. Ciò dimostra che la controtendenza alla caduta del saggio di profitto costituita dal sostegno statale all'economia non è una novità che può scoprire Clinton. Si pensi ad esempio che Bush ha incrementato del 44% gli aiuti finanziari alle attività di ricerca "pro competitività" e che la sostanza della "ripresa drogata" del liberista Reagan è stata tutta nel sostegno finanziario dello Stato e dal corrispondente aumento del debito statale americano.
Clinton dunque eredita uno strumento che da lunga pezza il capitale ha usato per contrastare la caduta dei profitti, consumandone l'efficacia. Uno strumento ormai ingolfato che ha raggiunto per quantità e qualità limiti che ne fanno nei maggiori paesi imperialisti non già una controtendenza alla crisi, ma una ulteriore contraddizione. L'entità enorme del debito statale statunitense è il frutto del suo utilizzo dispiegato nel passato ed il sintomo che l'aumento della valorizzazione del capitale non è sufficiente a ripagarlo. Per il capitale statunitense è sempre più necessario frenarne l'aumento. indirizzando l'intervento statale verso il sostegno diretto al capitale e tagliando le spese sociali. Questa volta la "primavera clintoniana" non potrà essere la "primavera" di tutte le classi.
Il disavanzo federale USA, ossia un debito globale superiore al 96% delle entrate annuali al netto delle imposte, condiziona, quindi, fin da ora il programma economico della nuova Amministrazione statunitense. Per dimezzarlo, dicono, ci vorrebbero 4 anni di crescita economica tra il 4,4% ed il 4,8% ("Sole 24 ore" del 7.1.1993). Ed ancora prima di essere ufficialmente insediato alla Casa Bianca, Clinton già si rimangiava una serie di promesse fatte durante la campagna elettorale. Richard Darman, dell'ufficio di Bilancio di Bush, notava come, con un indebitamento complessivo di queste proporzioni, "il nuovo governo non potrà fare a meno di attaccare le voci di crescita per l'assistenza pubblica e sanitaria che contano per quasi il 50% del bilancio".
E mentre la borghesia statunitense plaude alla competitività degli USA nel settore dei semiconduttori, ed i produttori di Detroit sono fiduciosi sul futuro dell'auto americana, l'IBM annuncia altri 25 mila licenziamenti, in aggiunta ai 40 mila dell'anno scorso, la Ford, avendo denunciato un passivo di 7 miliardi di dollari. si appresta a nuovi tagli occupazionali e la General Motors si appresta a chiudere 9 stabilimenti (che occupano 18 mila lavoratori, 2 impianti di assemblaggio e 7 impianti di componentistica).
Si infrange su queste cifre la possibilità dell'Amministrazione democratica di perseguire uno degli obiettivi della clintonomics: cooptare una parte della classe operaia americana nella competizione internazionale, riproporre un patto sociale interno che rimetta in carreggiata il capitalismo USA. Ma si infrange soprattutto perchè sempre di più la possibilità di tenuta dell'economia USA sarà condizionata al suo interno dalla capacità della borghesia di continuare l'attacco al proprio proletariato, in perfetta e più perfezionata sintonia con le linee tracciate dalle precedenti amministrazioni repubblicane, ed al suo esterno dalla sua capacità di difendersi e conquistarsi importanti quote del mercato mondiale. Magari facendo appello a quel "nazionalismo positivo" che sta assurgendo a nuova ideologia degli anni '90 contro quello, "superato", dei "Chicago Boys". Il "Mondo Economico" del 23.1.1993 realisticamente notava che: "Il Presidente Clinton è stato eletto per ristrutturare l'economia americana non per sfruttarne anzitempo il potenziale di ripresa" che tradotto significa che Clinton non potrà che continuare ad attaccare la propria classe operaia, puntare al massimo sfruttamento della forza-lavoro messicana e continuare a "portoricanizzare" vaste sezioni della mano d'opera immigrata, i "trabajadores sin papeles" (lavoratori senza documenti), che orinai costituiscono un dato strutturale del mercato del lavoro americano.
Di conseguenza anche l'integrato e cooperativo sindacato americano costituisce un ostacolo alle necessità di ristrutturazione del capitalismo americano. Per reggere la sempre più agguerrita competizione internazionale, la borghesia statunitense necessità di una totale flessibilità della manodopera, del suo totale disciplinamento, di alti livelli di efficienza e produttività e soprattutto del totale annullamento politico ed organizzativo della classe operaia. Tra i produttori automobilistici di Detroit il modello organizzativo imposto in fabbrica è il "NUMMI" giapponese. Fabbrica senza sindacato, con altissimi livelli di produttività e flessibilità, abolizione della "classificazione delle mansioni", delle limitazioni di qualifica, dei diritti di anzianità. Ed infine, tanto per chiarire come la borghesia americana intenda integrare la sua classe operaia, il "Newsweek" del 7.12.1992 si auspicava che si arrivi, presto, ad una legge che regolamenti il diritto di sciopero".
La politica popolare di Clinton sarà, dunque, estremamente selettiva, contribuendo ulteriormente a quel processo di polarizzazione sociale in atto ormai da parecchi anni. E' possibile che il nuovo governo riesca ad attivizzare ampi settori del ceto medio al suo programma di "risanamento economico" della nazione. Ma il suo appello al fronte interno, il suo tentativo di compattare un ampio schieramento interclassista, sostegno del "nazionalismo positivo", è destinato già da ora a fallire. Poiché già da ora i benefici promessi si scontrano con la necessità della borghesia di "contenere", tagliando la spesa pubblica, perchè il bilancio delle spese militari -al di là di contingenti ritocchi- non può subire riduzioni strutturali, perchè il promesso investimento annuo di 40 miliardi di dollari in nuove infrastrutture non sarà certo indirizzato nella costruzione di scuole. asili. ospedali, edilizia popolare ma in "progetti avanzati" a diretto beneficio del capitale. perché lo stesso mercato unico con Canada e Messico. oltre a garantire maggiori profitti, già presenta il conto della risposta della classe operaia messicana e le premesse di un futuro intreccio tra la lotta degli sfruttati messicani e quella dei proletari americani, tutt'altro che beneficiari del nuovo "sunbelt" messicano.
Non è un caso che la prima visita pubblica di Clinton sia stata quella a Carlos Salinas de Gortari, a Città del Messico, per definire con il presidente messicano i "dettagli" sull'area di libero scambio definita dagli accordi N.A.F.T.A.. 360 milioni di consumatori, un PNL attorno ai 9mila miliardi di dollari, un mercato inesauribile di materie prime e forza lavoro a basso costo. Accordi che sanciscono e non "costruiscono" un'integrazione economica esistente già da tempo; lunghi tratti delle zone di frontiera tra il Messico e gli USA erano diventati da anni luoghi di economia integrata, vere e proprie "città doppie" di quelle statunitense, come San Diego-Tijuana o Bronwnsville-Matamoros. Ma in ogni caso gli "accordo costituiscono un salto nei rapporti storici tra il Messico e gli Stati Uniti: sia nella intensificazione dello sfruttamento imperialista del paese centroamericano, sia nelle forme in cui si sviluppa il depredamento imperialista, sia negli sviluppi che questo avrà nello scontro di classe in Messico e nelle relazioni tra il proletariato messicano e statunitense.
Gli accordi N.A.F.T.A. si prefiggono di raggiungere due obiettivi:
- sfruttare in maniera sistematica il basso costo della forza lavoro messicana ed impossessarsi del controllo diretto delle materie prime del paese e del suo impianto produttivo di base (sul modello di quanto è già accaduto in Argentina);
- porre un argine alla concorrenza europea e giapponese creando un mercato unico e protetto dalle merci della concorrenza, che utilizzava proprio il Messico per aggirare gli ostacoli protezionistici posti dagli Stati Uniti.
Per raggiungere tali obiettivi gli accordi sanciscono l'abrogazione di ogni misura di tutela delle merci e dell'economia messicana. annullando nei fatti dazi doganali, imposte sul valore aggiunto prodotto dalle industrie statunitensi in Messico, lanciando la corsa all'accaparramento delle risorse industriali messicane tramite le privatizzazioni delle industrie statali. Gli "accordi", inoltre, sanciscono la necessità di liberalizzare definitivamente lo sfruttamento della manodopera, abrogando tutte le garanzie sindacali, patrimonio storico della classe operaia messicana.
Econ sempre maggiore difficoltà che la stessa borghesia messicana parla di potenzialità degli accordi N.A.F.T.A. nello sviluppare l'economia del paese, paragonando il mercato unico fra CanadaUSA-Messi co ad un nuovo "Sunbelt", ossia a quel processo di rapida industrializzazione ed urbanizzazione che si sviluppò nel sud degli Stati Uniti dopo la seconda guerra mondiale. Sempre più evidentemente gli accordi si mostrano per quello che veramente sono: incremento dello sfruttamento selvaggio, disgregazione della economia messicana, frantumazione sociale e miseria.
Ma anche questa nuova fonte di "respiro" per l'asfittica economia degli States presenta molte incognite per i predoni imperialisti. Innanzitutto, al contrario di quanto è avvenuto per altri paesi dell'America latina, il "sacco del Messico" avviene in un periodo di acuta crisi economica che coinvolge gli stessi States. L'avanzata imperialista in Messico non può limitarsi al solo drenaggio di risorse attraverso gli strumenti classici della finanza e del debito. La crisi è giunta al punto tale che la caduta dei profitti non può essere contrastata dalla sola rapina telecomandata degli istituti finanziari, ma occorre impegnare in loco pezzi del proprio apparato produttivo. il "sogno" di un nuovo mercato per le merci statunitensi si scontra con le contraddizioni più temibili per il capitale USA:
- la resistenza e la presenza di una classe operaia organizzata;
- la nascita di nuovi settori operai messicani unificati fisicamente al proletariato americano dall'appartenenza alle medesime aziende.
Per la prima volta il contatto tra il proletariato statunitense e quello degli sfruttati dell'America latina non avviene solo attraverso la manodopera clandestina ed emarginata (di cui la rivolta di Los Angeles ha dato concreti segni di presenza), ma tra lavoratori delle stesse fabbriche. E soprattutto i destini dei due settori del proletariato sono indissolubilmente intrecciati da un attacco che colpisce entrambi. "L'unica alternativa per la difesa degli interessi degli operai americani è quella di sostenere le lotte dei lavoratori messicani". Non sono parole nostre, ma quelle di un sindacalista statunitense. E questo è un segnale più che indicativo di come la conflittualità delle masse latino-americane sia sempre più vicina al cuore del sistema imperialista. La contraddizione che genera il loro sfruttamento è sempre più vicina ad esplodere non solo nelle proprie terre martoriate, ma proprio negli States. E ciò turberà non poco i sonni della borghesia yankee, perchè la primavera che l'aspetta non sarà quella dell'abbraccio fraterno delle classi. ma quella del risveglio della conflittualità del proletariato in unione sempre più stretta con gli operai e le masse sfruttate messicane e di tutta l'America Latina.