"Perseguire la via di Maastricht permetterà finalmente all'Europa occidentale di superare la propria divisione in tanti stati in concorrenza reciproca e di costruire invece un'autentica e fraterna comunità sovranazionale. Al particolarismo nazionalista subentrerà un solidale spirito europeo. Certo, all'inizio si tratterà di fare dei sacrifici, anche pesanti, per armonizzare le economie e permettere il gran passo, ma dopo, di questa nuova situazione, tutti ne beneficeranno: l'imprenditore come l'operaio, il commerciante come il disoccupato, il ricco come il povero. Tutti europei tutti felici".
Ad occhio e croce questo, fino a non molto tempo fa, era il ritornello della borghesia democratica ed "europeista".
Il "socialismo" era stato appena sconfitto ad Est ed ecco subito il capitalismo che celebra con ancor più forza e sfarzo la sua assoluta "superiorità" travolgendo qui, nella vecchia Europa occidentale, un puntello fondamentale del marxismo : non più concorrenza, conflitti e guerre tra i capitali e gli stati nazionali; non più selvaggia e antisociale anarchia nella produzione delle merci; ma integrazione sovranazionale e (udite, udite) armonia economica.
Il recente riesplodere, in tutta la sua evidenza, della crisi del capitalismo internazionale (crisi che da un ventennio cova in modo sempre più turbolento) con la tempesta valutaria e monetaria che ha sconvolto l'Europa ha provveduto a fare giustizia di tutte queste infami fandonie che tanto affascinano molte "anime candide" della sinistra nostrana. Altro che superamento dei confini e dei limiti statuali, altro che convergenti strategie economiche. Le borghesie nazionali, con i loro stati e governi, sono sempre più agguerrite e "l'una contro l'altra armate". "Mors tua vita mea": è questo l'asse centrale intorno al quale ruotano (e diversamente non potrebbe essere) le loro politiche e le loro iniziative.
Sono una serie di fatti e di necessità che hanno spinto e contraddittoriamente spingono i vari capitalismi nazionali del vecchio continente sulla "via di Maastricht". Primo: il tentativo di difendersi comunemente dalla concorrenza sempre più acuta e globale delle merci e dei capitali extra-europei; l'immaginata ed inseguita "area europea del libero scambio" è nient'altro che il tentativo di proteggere e ritagliare per sé una fetta importante del mercato internazionale rendendolo di difficile accesso agli altri concorrenti (analogo e speculare significato ha per gli USA il recente "accordo" con Canada e Messico sull'altra sponda dell'Atlantico).
Secondo: cercare di accrescere la propria consistenza politica ed anche militare al cospetto del Giappone e soprattutto degli USA nella crescentemente acuta contesa inter-imperialistica. Terzo, ma non di minore importanza, il tentativo da parte di tutte le nazioni europee di contemperare e contenere la forza e l'esuberanza della Germania unita nell'ambito di ipotizzate "regole certe" al fine di imbrigliarne e limitarne la capacità autonoma d'azione, e, contemporaneamente, da parte tedesca la volontà di far sentire il suo crescente peso senza pero', almeno per il momento, urtare troppo la suscettibilità dei "partners occidentali".
Che la cosiddetta "unione europea" non sia il frutto d'un matrimonio d'amore supportato da luminose spinte ideali, ma che si tratti d'un puro matrimonio d'interesse e di "riparazione" lo dicono ormai pure i borghesi. Nel mezzo della "tempesta valutaria" di settembre autorevoli voci governative e della Banca d'Italia (ma, stiamone certi, la stessa musica s'è sentita in tutta Europa) hanno affermato a chiare note che, anche se nulla o scarsissima si stava dimostrando al momento delle difficoltà la "solidarietà europeista" e stava al contrario prevalendo l'"egoismo" nazionale, la veloce messa in atto dei dettami di Maastricht (magari apportando qualche modifica) era indispensabile proprio per porre freno al caos politico ed economico ed alle oscure forze (cosi questi dotti e saccenti signori chiamano i ferrei ed immodificabili meccanismi di funzionamento del capitalismo) che lo generano. Dunque che il matrimonio sia di "convenienza" lo ammettono anche Amato, Kohl, Major e Mitterrand, ma che questo vivrà, se si realizzerà, di liti sempre più furibonde, di lacerazioni e di divorzi carichi d'odio lo stanno dicendo e sempre più lo diranno i fatti nudi e crudi.
Ai lavoratori il governo Amato non parla più di "necessari sacrifici" in vista d'un radioso futuro europeo", ma molto più prosaicamente ( e carognescamente) di "sacrifici da sobbarcarsi oggi per evitarne di peggiori domani". Guai a non arrivare con le carte in regola all'appuntamento comunitario : perdere il treno per l'Europa significherebbe rischiare di finire a ridosso dei paesi del "terzo mondo", vedere centinaia di migliaia di posti di lavoro distrutti, andare verso il tracollo assoluto. Per evitare tutto ciò gli operai devono tirare la cinghia fino a .... soffocare. Intanto è sempre più nella Germania e nella politica finanziaria della sua banca centrale che, meschinamente e strumentalmente, viene indicata la causa dell'agitato e tempestoso clima economico internazionale: è la Bundesbank infatti (a sentire la crescentemente cialtrona propaganda nostrana) che perseguendo una politica tesa alla difesa dei propri interessi nazionali sta mettendo alle corde le economie dei paesi meno forti; ed è sempre essa che con il proprio particolarismo produce tensioni e sconvolgimenti finanziari. Al capitalismo teutonico insomma si rinfaccia ipocritamente la "colpa" di badare ai propri "egoistici" interessi, come se i capitali nazionali di tutto il mondo potessero fare altro che non perseguire il loro particolare profitto ed i loro specifici e concorrenziali interessi.
Tutti uniti, quindi, grida la borghesia nostrana, sfruttati e sfruttatori (costi quel che costi) per "salvare" la "nostra" economia nazionale e per fronteggiare e marcare "stretto" dall'interno della nascitura (?) Europa unita il colosso tedesco. Per il proletariato l'esca questa volta è certo meno appetitosa, ma non per questo meno infida e pericolosa.
Di sicuro chi "abbocca", e di gran gusto, all'esca è il PDS. Questo partito, coerentemente con la sua ideologia che fa della collaborazione interclassista tra "settori onesti" della società il perno per una "ripresa ed un rilancio del paese", si fa anch'esso sponsor d'una piena e veloce attuazione del trattato di Maastricht che, certo, è da "rivedere e correggere" (come il caffè con l'anice) qua e là, ma che non può assolutamente essere messo in forse. Mentre non disdegnano di associarsi alla nazionalistica canea anti-tedesca (alcuni passi del comizio di Occhetto il 5 settembre a Milano sono stati in questo senso sciaguratamente esemplari), i capi del PDS sanno soltanto indicare ai lavoratori la necessità ed urgenza di cooperare pienamente con la parte "sana ed onesta" (che di norma è poi quella che si rivela sempre la più virulentemente anti-proletaria) dell'imprenditoria nazionale per remare, tutti assieme, verso il porto europeo unica garanzia per la "nostra" economia e, la cosa "ovviamente" va da sé, per gli operai.
Mentre soprattutto tra il carognesco "ceto medio produttivo" si fa largo in tutto il continente un sentimento dichiaratamente sciovinistico e nazionalistico di aperta ostilità verso "l'unificazione comunitaria" il recente referendum francese ne rappresenta un chiaro esempio per il timore d'una "comunità" dominata dallo strapotere del marco; qui da noi una parte della sinistra fa rullare i suoi tamburi contro il trattato. I vertici di Rifondazione Comunista e qualche sparuto gruppo della ex estrema (si fa proprio per dire) sinistra affermano, non senza una certa foga, che il trattato di Maastricht va respinto in toto. È a causa dei dettami di questo che, secondo costoro, i lavoratori stanno subendo il violento attacco governativo e padronale; ed inoltre l'attuazione di Maastricht sancirebbe, sempre a dir loro, senza più vie di scampo, la creazione d'una Europa schiacciata dal "tallone di ferro" germanico.
Quest'area di sinistra soffre d'una vera e propria ossessione, ancor più acuta di quella che "patiscono" i nostrani europeisti, del "pericolo tedesco" : è la Germania il virus negativo da isolare e da mettere nella condizione di non nuocere (la cosa, se non contenesse elementi potenzialmente disastrosi per la lotta operaia, sarebbe addirittura - nella sua imbecillità - spassosa). "All'Europa dei padroni contrapponiamo l'Europa dei popoli" grida Garavini, "all'Europa del profitto rispondiamo con l'Europa ecologica e sociale" fanno eco starnazzanti settori di riciclato verdume italico. Tutti costoro immaginano di poter effettivamente fronteggiare la progressiva, ed oggettivamente inevitabile, centralizzazione ed aggressivizzazione del capitale internazionale (di cui Maastricht non è la causa, ma solo un contraddittorio effetto) proponendo un'"architettura europea" progressista e tollerante.
Costoro non vogliono e non possono capire che il capitalismo è questo e nient'altro che questo; che la "liberalità socialdemocratica europea dei primi anni 70 (liberalità comunque sempre zuppa del sangue delle masse sfruttate del Sud del mondo), di quando cioè la crisi non aveva ancora azzannato direttamente la metropoli, non è più riproponibile. Costoro sono irrimediabilmente voltati con la testa all'indietro a guardare, malinconici e disperati, un passato - tra l'altro affatto glorioso - non più rieditabile. Avere questo passato come meta contro l'arroganza delcapitalismo imperialista significa nei fatti indicare al proletariato una politica imbelle e rovinosa.
Dicono che questa fantomatica "Europa dei popoli" riuscirebbe ad avere un ruolo alternativo nello scacchiere internazionale : fungerebbe da contrappeso "progressista" alla potenza americana ed al rampantismo giapponese e, una volta sedati gli "eccessi tedeschi", potrebbe operare sul panorama mondiale con effetti di equità estremamente positivi soprattutto per i paesi del "terzo mondo". Poveri sciagurati illusi : mentre l'imperialismo mostra ovunque i suoi acuminati artigli, voi, novelli San Francesco che rese mansueto il lupo, pensate che a colpi di ipotetiche indignate proteste popolari, di improbabili referendum anti-Maastricht e di qualche chiassata parlamentare si possa riformare la iena capitalistica trasformandola in un docile strumento di benessere per l'umanità.
E poi chi dovrebbe costruire questa "Europa dei popoli" ? A mezza bocca e neanche troppo convinti di voi stessi, rispondete che questo è compito d'un variegato (ma che bel termine!) blocco sociale composto dagli operai, dai lavoratori, dal ceto medio progressista (bella questa!), dall'intellettualità democratica (sic!), dall'imprenditoria onesta e sana (ci risiamo!), dai giovani e dalle donne (queste poi non mancano mai, quando si cerca di riempire con un nome evocativo, un discorso maledettamente vuoto di contenuto). Insomma un deleterio ed improponibile minestrone patriottico-popolar-progressista di vecchia e consunta memoria. Idee, queste, non solo becere e fantasiose, ma anche e soprattutto estranee e dannose per gli interessi operai immediati e storici.
La violenta offensiva padronale e governativa in atto in tutta Europa è generata dall'oggettivo (ed unico possibile) modo di funzionamento del capitalismo : essa non è generata dal trattato di Maastricht e non sarà la sua pronta applicazione o, viceversa, il suo fallimento a fermarla o smussarla.
Crisi generale del capitalismo mondiale, conseguente accanito aumento della concorrenza inter-imperialistica : ovunque la medicina borghese è la stessa. Licenziamenti, chiusura di fabbriche "non produttive", ritmi di lavoro massacranti, tagli al salario ed ai servizi sociali essenziali, attacco all'organizzazione operaia ed all'agibilità sindacale, ristrutturazione in senso reazionario degli apparati statuali : dalla Francia alla Germania, dall'Italia all'Inghilterra la musica non cambia. Di contro a ciò innumerevoli e diversificate "sirene" borghesi, "democratiche", riformiste operano per indirizzare il proletariato su scorciatoie fasulle e disastrose. Tutte queste voci, con gradi di intensità e consapevolezza differenti, contribuiscono ad istillare nella classe operaia il veleno suicida dello sciovinismo nazionalista per cui c'è sempre innanzitutto un nemico "esterno" (qui da noi comincia ad essere il "tedesco", in Germania, stiamone sicuri, questa parte tocca all'"italiano" o al "giapponese") contro cui compattare tutte le classi del paese ed in nome della lotta al quale "remare" tutti nella stessa maledetta direzione.
Mille ottime e valide ragioni hanno quegli operai che vedono in Maastricht e nelle "sue conseguenze" un duro e reale attacco alle proprie condizioni di vita e lavoro e che, quindi, intendono battersi contro di esso; ma per preparare al meglio una valida difesa di classe e non rischiare di cadere in pericolosissime illusioni è necessario che Maastricht non venga scambiato per un'"escrescenza patologica" sul corpo, magari potenzialmente "sano", del capitalismo, ma che sia visto per quello che effettivamente è: conseguenza politica dell'inevitabile processo di concentrazione internazionale del capitale.
E allora: vada la denunzia di questo trattato purché sia chiaro che, Maastricht o non Maastricht, il capitale tende ad accentrarsi e ad agguerrirsi sempre di più; e che se la classe operaia affidasse le proprie possibilità di difesa alla stipula o alla revoca di trattati tra gli Stati capitalistici sarebbe come consegnarsi mani e piedi legati ai propri macellai. Il proletariato non deve farsi trascinare in queste maleodoranti sabbie mobili : esso non ha né un'Europa più o meno ufficiale, né una più o meno "alternativa" per cui battersi; esso ha "solo" la necessità di prepararsi al meglio per il futuro inevitabile urto frontale, per la vita o per la morte, col capitalismo internazionale. Perché ciò avvenga è necessario che in ogni lotta (di "minima" difesa o di "grande" portata che sia) la classe operaia metta al centro della sua azione la difesa intransigente dei propri interessi di classe separati e contrapposti innanzitutto a quelli della "propria" nazione e del "proprio" capitalismo. Solo per questa via l'operaio francese, quello italiano, quello tedesco e quello inglese potranno vigorosamente e fraternamente riconoscersi come un'unica classe internazionale e cosi' eseguire la sentenza emessa dalla storia, e fin troppo rimandata, di condanna a morte del capitalismo mondiale.