PER UN FRONTE UNITARIO DI CLASSE
CONTRO L'ATTACCO PADRONALE E
GOVERNATIVO AI LAVORATORI

Indice

 


Il testo che qui pubblichiamo è stato diffuso dalla nostra organizzazione alla assemblea nazionale di "Essere Sindacato" tenutasi a Sesto San Giovanni il giorno 3 ottobre. Come si vedrà, andiamo direttamente alle questioni politiche nodali sollevate dal grande movimento operaio di lotta contro i provvedimenti del governo Amato, senza dilungarci nell'analisi di questi provvedimenti, data per acquisita. Crediamo che, per quanto questo testo avesse un preciso destinatario, ossia i militanti ed i delegati operai che si riconoscono in questa tendenza, discute problemi che sono di fronte a tutta la parte più combattiva della CGIL e del proletariato, non necessariamente organizzata in "Essere Sindacato". Il testo originariamente era completato da alcune parole d'ordine immediate: lotta per l'occupazione, per la difesa del potere d'acquisto dei salari, per il ripristino della scala mobile, per la pienezza dei diritti sindacali e politici della classe operaia, per lo sciopero generale contro il governo.


Non occorre spendere altre parole sulla sostanza dei provvedimenti del governo Amato. Ci è sufficiente l'esperienza che ne facciamo sulla nostra pelle e tutta la rabbia aggiuntiva che ci deriva dal dover, ancora una volta, constatare come a pagare siano sempre gli stessi proprio mentre si ciancia di "sacrifici comuni", "collettivi".

Quello su cui merita riflettere, invece, è la risposta che a questi provvedimenti ha dato la classe operaia, sulle potenzialità e le prospettive di essa ed anche sulle difficoltà che vi si sono frapposte sin dall'inizio e che, in ogni modo, cercheranno di ostacolarne i successivi sviluppi.

Già questa primavera, in Lombardia, si era avuto un assaggio di mobilitazione operaia, in particolare con lo sciopero generale dei metalmeccanici del 12 maggio che, a sua volta, faceva seguito a quello del 20 febbraio (limitato alle aziende in crisi) . Scioperi strettamente delimitati, è vero, ma fortemente partecipati, a testimonianza della coscienza operaia sulla natura degli attacchi padronali e della sua determinazione a farvi fronte. Poi è venuto, vera doccia a ciel sereno, l'accordo del 31 luglio, firmato (molto "responsabilmente") dai vertici sindacali a fabbriche chiuse nella speranza che le successive ferie ci avrebbero aiutato a digerire il rospo. Speranze deluse: la rabbia spontanea della base, incontrandosi con l'esistenza di strutture organizzate (dentro il sindacato e i partiti "operai") si è potuta esprimere a tempo e a modo, e questa è stata un'utile premessa della mobilitazione attuale, anticipando il fatto che gli accordi del 31 luglio, per quanto vergognosamente anti-operai, non rappresentavano che un "doveroso anticipo" sulle stangate a venire.

L'arrivo della stangata-Amato ha così fatto traboccare le piazze di operai decisi a battersi unitariamente nella perfetta comprensione della continuità tra accordi del 31 luglio e misure governative: L'imperativo che ne è derivato è stato il seguente: bocciare l'accordo-truffa del 31 luglio, bocciare in piazza il governo Amato. E, come condizione di ciò: riprendersi in mano il sindacato, costringere i suoi vertici venduti a dar conto delle proprie azioni alla classe operaia che essi pretendono di "rappresentare".

Questa decisa scesa in campo dei lavoratori ha lasciato dei segni inequivocabili. Tanto si è speculato su patate e bulloni tentando di esorcizzare l'insieme del movimento con lo spaventapasseri di un "nuovo pericolo terroristico" (cui non si ha vergogna di associare un intiero partito, quale il PRC, che pure non ci risulta troppo rivoluzionario, ma comunque colpevole di non stare zitto e buono al gioco). Valanghe di attestati di solidarietà a Trentin e di anatemi contro i suoi contestatori (e pronto invio di squadroni di polizia a controllare la piazza). Ma chi mai solidarizza con gli operai, colpiti ben altro che da un paio di ortaggi? E non è fin troppo facile accorgersi che dietro questo riscoperto grande amore per i sindacalisti "responsabili" c'è un disegno volto a svuotare la funzione stessa del sindacato, stati maggiori compresi, dal momento che il loro "senso di responsabilità" risulterà sempre impari alla bisogna e l'esistenza stessa di un sindacato, per quanto diretto da fedeli servitori dello Stato, rappresenta pur sempre un intralcio sulla via della normalizzazione globale della società a cui si sta mirando?

Nessuna speculazione su episodi marginali (che, in ogni caso, stanno a testimoniare il livello di esasperazione a cui proprio la svendita programmata degli interessi di classe ha portato) può nascondere, però, il fatto sostanziale che un movimento unitario di centinaia e centinaia di migliaia di lavoratori ha parlato con voce univoca ed ha costretto lo stesso Trentin a dover parlare della (per lui sciagurata) ipotesi di "uno, due, tre scioperi generali". Un cedimento al "terrorismo", o non invece la necessità non esorcizzabile di dover fare i conti con la "propria" base? Per nostra buona sorte, il proletariato ha dato dimostrazione qui di voler non indebolire il sindacato, ma rafforzarlo, riprendendone nelle proprie mani i destini (ciò che non era affatto scontato, e non lo è "per definizione" neppure per il futuro). Esattamente quel che preoccupa il padronato e la sua classe politica ed a cui dovrebbero guardare con ben altro animo dei dirigenti sindacali che, per quanto "miglioristi" marci, non stiano sul loro libro-paga.

Una potenzialità enorme si è dunque sprigionata da questa prima tornata di lotte, ma la partita è tutt'altro che chiusa e la strada che abbiamo davanti tutt'altro che spianata a nostro favore. Essa ci ha dato le condizioni necessarie per andare avanti, non la soluzione bell'e fatta dei problemi che ci troviamo di fronte. Se mai essa dovesse rifluire, anche solo provvisoriamente, tornando a delegare la difesa dei propri interessi ai vertici responsabili dell'accordo del 31 luglio od alle sorti del "dibattito parlamentare", si andrebbe incontro ad un vero e proprio disastro.

In primo luogo, dovrebbe essere evidente a tutti che, dato l'effettivo stato di crisi attuale, il governo non potrebbe concederci che dei piccoli "ritocchi", del tipo: "Ti rubo otto anziché dieci", apprestandosi in seguito a riprendersi anche simili "concessioni" con l'aggiunta degli interessi. Di fronte a ciò (perchè è ormai chiaro che la stangata "non finisce qui"), una ripresa della risposta operaia non sarebbe affatto automatica, o, perlomeno, non lo sarebbe nei termini unitari e di massa testati dal movimento attuale. In secondo luogo, è altrettanto evidente che nella società italiana si sta via via facendo strada, a tutti i livelli (dai vertici politici, fedeli eredi del "cossighismo" ad una base piccolo-borghese irresistibilmente percorsa da fremiti leghisti) , un processo di riorganizzazione autoritaria che sta attuando, per imporsi, primi consistenti esempi di mobilitazione di massa.

Ed occorre, allora, partire con idee chiare. A cominciare da quelle sulle condizioni effettive entro le quali si è concretizzata la manovra governativa.

Natura e prospettive della crisi

Su questo punto c'è una larga concordanza, almeno in apparenza. Tutti sembrano ammettere che dietro la stangata attuale non c'è una semplice "manovra" di padroni e papponi vari per appropriarsi di quote aggiuntive di profitto a nostre spese senza che ciò abbia qualcosa a che fare con lo stato reale dell'economia, ma una crisi vera che sta mettendo a dura prova la stessa capacità di tenuta del nostro capitalismo.

E, tuttavia, ciò non basta a definire né la natura né le prospettive della crisi in atto né, di conseguenza, un adeguato programma di risposta di classe di fronte ad essa.

Una versione molto diffusa, e particolarmente insidiosa, tende sostanzialmente a ridurre il tutto alle ruberie (autentiche) dei "politici" ed all'insipienza (presunta) del padronato nostrano a reggere competitivamente i livelli imposti dalla concorrenza internazionale nella prospettiva di un risanamento della macchina-Stato e dell'apparato produttivo per recuperare le posizioni perdute. Questa "spiegazione", perfettamente incardinata sulle esigenze "collettive" del capitale ha per effetto di mettere la sordina alle lotte ed all'organizzazione operaie su programmi che non stiano in sintonia con le "compatibilità" del sistema e addirittura spinge i lavoratori a confluire nella mobilitazione che va montando a sostegno di una riforma dello Stato che ha come obiettivo prioritario proprio quello di colpire politicamente ed economicamente il proletariato. Lotta alla Tangentopoli alla coda dello Stato come premessa del risanamento (obiettivo "comune" a gli onesti di tutte le classi)? Dovremmo quanto meno parlare di "illusione" (in effetti è di ben altro che si dovrebbe parlare!), perchè il fenomeno tangenti non è che l'aspetto "deviato" ed ultimo di una condizione perfettamente normale del presente sistema: la corruzione dei politici è un'arma dell'accumulazione capitalista che, attraverso il potere politico, riesce a drenare al proprio servizio le risorse "pubbliche". Anche Romiti contro questa vergogna? Se si tratta di tagliare le spese superflue fin qui connesse all'operazione, d'accordo. Ma per arrivare a cosa? Ad una "perfezionata" perpetuazione di questo furto, grazie proprio ad una più "limpida" funzione dei politici in quanto "comitato d'affari della borghesia". "Moralizzazione" e controriforma istituzionale, dal lato dei padroni, sono semplici sinonimi. Ed è a questo carro che dovremmo accodarci?

Certo, la "questione morale" interessa anche a noi, ma non nel senso che da essa facciamo discendere le cause reali della crisi attuale e meno che mai nel senso che attorno ad essa si potrebbe costituire un cartello di "tutte le forze sane della nazione", da Romiti a Cipputi. Essa c'interessa nell'esclusivo senso che spetta a noi, alla nostra autonoma mobilitazione su un programma di classe, mettere a nudo la vergogna "normale", "onesta", dei processi di accumulazione capitalista e le vergogne supplementari che ad essa si accompagnano. Ed ancora e più nel senso che siamo vitalmente interessati in primo luogo a far pulizia in casa nostra, per evitare che i nostri stessi rappresentanti fungano da longa manus del nemico di classe, nella certezza che un sindacato ed un partito di classe integri dall'infezione borghese costituiscono l'arma decisiva per affrontare e battere le forze borghesi che ci sfruttano e ci dominano.

Ma ci sono anche altre "spiegazioni" quanto alla crisi attuale. In un documento della FLM-U leggiamo che "le turbolenze dei mercati finanziari sono in larga parte dovute alla guerra che la Germania ha deciso di scatenare contro gli altri paesi per scaricare i costi della riunificazione tedesca" (a parte gli "accordi segreti tra i vari governi" per scatenare un "terrorismo economico" immotivato). Un buon motivo per schierarsi contro Maastricht in nome dell'... indipendenza messa a rischio del capitale italiano!

L'opposizione all'"Europa di Maastricht" è perfettamente legittima se con essa si vuole intendere il rifiuto della logica capitalista su cui tutti gli stati borghesi che vi partecipano vanno a costruirla in funzione anti-proletaria, sia che si viaggi in TGV sia che si proceda affannosamente sul secondo o terzo binario; e ciò nel nome di interessi comuni (per diseguali che siano). Ma per procedere su questa via occorrerebbe innanzitutto porre le basi di una lotta parimenti comune tra i proletari di tutta Europa, stringendo in primo luogo forme unitarie d'azione col proletariato tedesco (l'unico, non dimentichiamolo, che ha saputo sin qui non decampare d'un pollice dalle proprie postazioni) o altrimenti non rimane che far ricorso a qualche "nuovo" esperimento di "nazionalismo operaio" social-sciovinista impugnando la bandiera dell'"azienda Italia". "Vive la Nation!", come s'è visto e sentito in Francia alla festa dell'"Humanité", che pure a qualcuno è molto piaciuta! E lasciamo pur stare l'originale teoria che imputa la crisi italiana a turbolente manovre finanziarie tedesche, quasi non fossero note le ragioni strutturali di forza sul piano produttivo della Germania con cui è giocoforza per l'Italia trovarsi in posizione svantaggiata sul mercato internazionale! Potremmo noi sottrarci a questo gioco spietato? Sì, se, assieme al proletariato tedesco e ad ogni altra sezione del proletariato mondiale, sapremo infrangere le leggi del capitale. Certamente no se a questo terreno di lotta "programmaticamente" ci sottraiamo.

Le ragioni della crisi stanno altrove, e così i suoi destini futuri.

Esse stanno tutte nelle ragioni intrinseche derivanti dalla contraddizione crescente tra carattere sociale delle forze produttive e carattere privato dell'appropriazione, come da vecchia scuola, e non hanno per scenario in esclusiva l'Italia (per quanto possano esserne particolari le manifestazioni, a livello economico quanto a quello politico); investono bensì il mondo intiero e solo su questa arena possono essere affrontate e risolte.

Per decenni (i decenni della ricostruzione e del boom) il capitale imperialista ha messo sotto torchio la massa sterminata dei paesi del Terzo Mondo, sottraendo ad essi ogni tipo di risorse e portandoli così alla rovina per rilanciare alla grande l'accumulazione metropolitana. La capacità produttiva, con un rapporto sempre più squilibrato a vantaggio del capitale morto sul capitale vivo, è ingigantita oltre ogni misura. Ma proprio a questo punto si è tornata a manifestare anche ad Occidente, dopo essere stata a lungo scaricata sui paesi terzi, la contraddizione di cui si è detto. Il vulcano della produzione si scontra con la palude del mercato, che soffoca sotto un diluvio di troppe merci (troppe, sempre, non rispetto ai bisogni della società, ma alla solvibilità del mercato). La concorrenza internazionale assume aspetti sempre più parossistici. E vengono allora meno anche le possibilità della fase precedente di una qualche redistribuzione di briciole derivanti dai sovrapprofitti imperialisti nelle tasche del proletariato metropolitano (ciò che aveva contraddistinto la fase precedente, ormai definitivamente bruciata, di "libera contrattazione" salariale sulla base di una qualche forma di "patto sociale"). Tutte le praterie sono state dissodate; occorre ora, risorsa estrema, attaccarsi di nuovo al proprio proletariato stesso, bruciando le " riserve" che ad esso si erano attribuite, e mettendolo al giogo di peggiorate condizioni sul piano del salario, delle condizioni di lavoro, dei diritti politici.

Il primo eloquente segno di questo approssimarsi della crisi e dello scontro di classe aperto sin nel cuore delle metropoli è venuto dal destino riservato ai paesi dell'Est. Il "libero mercato" ha fagocitato nel suo girone infernale questi paesi (tanto poco socialisti, sia detto per inciso, dall'esservisi "spontaneamente" adattati), ma l'"integrazione" in esso, ben lungi dall'offrire una via d'uscita ai guasti precedenti della "stagnazione", li ha puramente e semplicemente condotti alla rovina, riproducendo in essi veri e propri rapporti di colonizzazione. Nell'esaurirsi delle capacità espansive del capitalismo, del mercato, questo è il destino riservato ai paesi più deboli, anche del secondo e non del terzo mondo!

In compenso, restano degli affari da mettere a frutto per chi ne ha i mezzi. Interi apparati produttivi "non concorrenziali" vengono accaparrati dal monopolio imperialista in cambio di pochi spiccioli (ne sa qualcosa la FIAT in Polonia o il capitale tedesco nella ex-Jugoslavia che esso ha contribuito a disintegrare). E vi è soprattutto una riserva di manodopera a buon mercato che qui si può sfruttare al meglio, in funzione del contenimento dei costi produttivi "in generale" e del ricatto contro la propria manodopera metropolitana "in particolare": nella "libera Croazia", ad esempio, i proletari sono costretti a campare con un salario che sta sotto le centomila lire al mese per padroni che, per lo più, non hanno nulla di croato. Altrettanto accade ai proletari messicani aggregati al "mercato comune" con gli USA per pompare profitti supplementari a questi ultimi e fungere da arma di ricatto contro i loro fratelli di classe statunitensi (come s'è visto nel caso emblematico delle agitazioni alla General Motors).

Da qui non si torna indietro. Non siamo in presenza di una "congiuntura sfavorevole", ma dei prodromi di una devastante crisi generale, internazionale del sistema capitalista, la cui prosecuzione ci metterà di fronte a sconvolgimenti di proporzioni tuttora inimmaginabili.

Ed allora: o nella battaglia difensiva che stiamo conducendo ci attrezziamo ad agire secondo quanto l'oggettività della situazione stessa c'impone, o saremo sconfitti due volte, tanto per quel che riguarda la posta in gioco immediata tanto, e più, per quel che riguarda i nostri destini futuri.

La questione di fondo non diciamo risolubile "subito", ma che da subito deve fungere da prospettiva è quella del potere, del rovesciamento degli attuali rapporti di forza tra le classi.E', per dirla in una parola ("sputtanata" da chi con essa non aveva mai nulla avuto a che fare, ma più che mai limpida ed attuale) la questione del socialismo, della riappropriazione del lavoro socializzato in funzione dei bisogni sociali collettivi e non del profitto.

Ed è quanto avvertono gli operai stessi implicitamente quando legano la questione della difesa sindacale delle proprie condizioni di esistenza alla questione politica del governo, ad ulteriore riprova che "nell'epoca della decadenza del capitalismo la lotta economica del proletariato si trasforma in lotta politica molto più presto di quel che fosse possibile nella fase del suo pacifico sviluppo".

L'operaio non si rassegna affatto ai moniti "miglioristi" sulla necessità, "nella presente congiuntura", di tener in piedi il governo Amato perchè se dovesse cadere subentrerebbe il peggio. Se c'è da lottare per i propri interessi, è inammissibile tentare di conciliare tale lotta col puntello, comunque mascherato e giustificato, ai responsabili della sua condizione. Se in piazza ci si batte per modificare dei rapporti di forza, questa modifica di necessità non si può arrestare lì, ma deve trovare una sua espressione a scala del potere politico.

Anni fa, la massa operaia esprimeva questa sua esigenza al grido di: "E' ora, è ora di cambiare, il PCI deve governare!", offrendo la propria forza intatta a servizio di questa prospettiva, da cui si aspettava (illusoriamente, lo possiamo dire) un reale avvio di processi di trasformazione sociale. Dopo l'esperienza "consociativista" molte di queste illusioni si sono bruciate, ma più che mai ne resta intatta l'esigenza di fondo: è venuta davvero l'ora di cambiare, oggi più che ieri.

Che risposta s'intende offrire ad essa ?

Governo, opposizione, potere...

Una buona fetta del movimento politico che si rifà alla classe operaia continua a non scostarsi di un millimetro dalle (sempiterne) tentazioni consociativiste, con l'aggravante che, rispetto ai tempi di Berlinguer, oggi non c'è all'ordine del giorno una qualche redistribuzione degli utili ed un'espansione dei diritti, ma la gestione di un attacco diretto tanto alle tasche quanto ai diritti del proletariato. Ed essi stessi lo dicono: non si tratta affatto di poggiare la prospettiva di un nuovo governo su mutati rapporti di forza di natura extraparlamentare (così come su fattori extraparlamentari di potere si reggono i governi borghesi), ma di trovare la via di un accordo, di un "patto", tra le esistenti forze parlamentari disposte ad affrontare "di comune accordo" i nodi e la gestione della crisi.

E quali sarebbero poi queste forze? Gli altri partiti dell'Internazionale Socialista, dal cui seno si è espresso proprio questo governo? La Malfa, il "riformatore" che tuona contro l'attuale "ceto politico" solo perchè scarsamente efficiente nell'esprimere le esigenze delle classi borghesi "produttive" e si prova a tirar dentro nel mucchio di un "governissimo" a tal scopo la benemerita Lega, anch'essa profondamente "riformatrice"? L'"uomo nuovo" Segni, alfiere di una risistemazione dell'esecutivo nel senso di una sua maggior libertà di fronte alle "spinte corporative" (leggi: al proletariato)? L'indefinibile e torbida Rete di Orlando? Il "contestatore" Pannella, che dagli scioperi di questi giorni ha tratto la fondamentale lezione che è ora di farla finita col "potere d'interdizione" delle piazze "incoscienti"? O coi Verdi, da sempre indifferenti alle sorti della "specie in pericolo" operaia?

Oppure si guarda a nuovi numeri elettorali? Ma, in questo caso, c'è solamente da constatare che, oggi come oggi, dalle urne uscirebbe non un messaggio di sinistra, bensì uno ancor più spostato a destra (e questo precisamente perchè, in assenza di una chiara e forte alternativa di classe, è inevitabile che la protesta delle varie classi sociali non salariate vada ad esprimersi nel senso sì di una contestazione dell'attuale "ceto politico", ma solo per rifarsi ancor più pesantemente delle prime misure di rigore che vengono a lambirle sulle spalle del lavoro salariato). Nella crisi, o un proletariato anche politicamente forte riesce a trascinarsi dietro le mezze-classi mostrando nei fatti di potersi candidare al potere, o la porta resta aperta a qualcosa di ben peggiore che le Leghe stesse.

Lo stesso ordine di problemi si pone per gli avversari del ventilato "allargamento della base governativa" (questo e non altro sarebbe il senso di un "nuovo governo" costruito sulle basi di cui sopra!. Ancora una volta, infatti, c'è da chiedersi: con chi e su che basi mettere in piedi un efficace "fronte delle opposizioni", la cui posta sarà pure in prospettiva quella del governo)? Gira e rigira, la frittata resta la stessa. Non ci entusiasmano affatto le "lettere aperte" agli altri partiti che vincolano la possibilità di condurre una efficace opposizione alla precondizione che sia trovato prima un accordo tra vertici di partiti difformi tra loro e ciò in vista di ... battaglie parlamentari. Sotto altra forma, è la stessa sostituzione dei giochi parlamentari (e dell'interclassismo) alla messa in campo di un'azione di forza e di un programma proletari.

E allora? Allora dobbiamo partire dalla constatazione che nessun governo "operaio" è oggi possibile per la semplice ragione che esso non potrebbe esser altro che l'espressione di una già avvenuta espropriazione del potere borghese: qualcosa cui mancano sin qui numeri e programma, cui manca il partito.

Ogni "alternativa" di governo, nelle condizioni attuali, sarebbe un'alternativa nell'ambito e negli interessi delle classi borghesi, quand'anche vi entrassero a far parte partiti "operai". Questo però non significa che su questo piano non ci sia nulla da fare. Al contrario. Ciò che possiamo sin d'ora ottenere, se sapremo usare la nostra forza, è un esecutivo borghese espressione di una diminuita capacità di ricatto e sopraffazione nei nostri confronti. Non un governo "migliore" da sostenere o su cui sospendere il giudizio, ma condizioni migliori per noi nel lavoro che ci si prospetta innanzi ed il cui scioglimento ultimo è: o potere borghese o potere della classe operaia.

Le condizioni di una vera unità sindacale

Il terreno su cui dobbiamo rimanere anche e per porre correttamente la questione del governo è quello dell'organizzazione e della lotta unitaria sindacale. Significa ciò scartare i temi politici? Tutt'altro. Significa solo dare ad essi le necessarie fondamenta di classe: o la questione politica, la questione del governo e del potere ha per sua premessa il fronte unico di classe o ad essa necessariamente si risponde coi fronti unici interclassisti, "democratici", parlamentaristici, borghesi e rappresentanti "operai" armoniosamente assieme (per tirarci assieme altre fregature).

L'organizzazione sindacale è il primo stadio della coscienza e della pratica associativa dei lavoratori; essa raccoglie assieme i lavoratori per la loro comune condizione di sfruttamento economico (cui l'oppressione politica naturalmente si accompagna) e su questa base li avvia a formarsi una coscienza di classe. Nell'organizzazione e nelle lotte unitarie i lavoratori discutono e fanno -eccome!- politica. Il cemento comune che qui li unisce al di là delle diverse appartenenze politiche o persino dell'agnosticismo politico offre anche le basi della necessaria ricomposizione politica del proletariato. Il contrario dell'apoliticismo, ma anche il contrario del falso politicismo "pro-operaio" che si fonda sul fronteunitarismo tra partiti e classi che nulla hanno a che spartire con i nostri interessi.

Ciò che dobbiamo presentemente difendere e sviluppare è, perciò, l'unità nella lotta del sindacato. Un sindacato confederale, centralizzato (centralizzato ad un programma di classe innanzitutto), non una miriade di sindacati e sindacatini, magari "purissimi", categoriali e localistici: ad un capitalismo sempre più concentrato e centralizzato si può efficacemente rispondere solo accettando la sfida sullo stesso piano.

Per ragioni di principio siamo contrari ad ogni "spontaneismo", più o meno autentico, decentratore, settorialista o, peggio, localista, "federativista". La rottura organizzativa può anche esserci , in certe situazioni, imposta, mai supinamente accettata o addirittura teorizzata e praticata quale illusoria (e suicida) via d'uscita al forcaiolismo dei vertici confederali. Si deve concretamente reagire in positivo al processo di disgregazione che si è aperto e potrebbe approfondire rispetto al quadro unitario confederale. Ma ciò significa non contrapporsi a chi, bene o male, ha tentato di dare una risposta in termini organizzativi (od organizzativisti) a problemi che ci sono comuni, riguardano noi tutti, e meno che mai imputare ad essi la causa prima della rottura (che va sempre attribuita alla politica distruttiva dei nostri vertici). Significa, ben al contrario, mostrare ad essi dove sta una prospettiva unitaria per uscire dall'attuale marasma. E significa di conseguenza la capacità di uscire noi per primi da una logica che riguarda prioritariamente gli equilibri di vertice sindacali o si riduce a fumose alternative che si esauriscono nelle stanze dei direttivi sindacali. La questione dell'unità sindacale, che è politica prima che organizzativa, deve, per affermarsi, tornare ad essere gestita dai protagonisti dello scontro, e questo significa qualcosa anche per "Essere Sindacato"!

Su chi, correttamente, ha deciso di rimanere nella CGIL e condurre qui e da qui la necessaria battaglia unitaria di classe è oggi investito da una grossa responsabilità. La centralità della CGIL può essere riaffermata solo a patto di non lasciarsi chiudere entro i confini delle sue "regole istituzionali", ma di rendersi al contrario capaci di proporre in concreto un programma di battaglia in grado di convogliare su di sè la disponibilità, che esiste!, dell'insieme decisivo della massa, sia che aderisca alla CGIL, sia che si sia messa in "congelamento" rispetto ad essa, sia ancora che abbia preso la strada dell'"auto-organizzazione" al di fuori o persino contro di essa. Un programma di lotte generali che coinvolgano tutto il proletariato, quello dei settori in crisi e quello dei settori tuttora "al riparo", quello occupato e quello disoccupato, quello indigeno e quello della nuova immigrazione "extra-comunitaria". Lo sciopero generale, che in nessun caso possiamo lasciar subordinato al "gradimento" di CISL-UIL od a quello dei Trentin intenzionati ad usare l'indisponibilità dei compari gialli per esorcizzarlo, costituisce il primo terreno di prova di questo programma.

La prospettiva di una "riconversione" della dirigenza della CGIL ad un programma di classe è fuori discussione. Peggio ancora sarebbe farne una precondizione per la lotta. Altro è il senso che deve avere l'azione delle forze di sinistra che si oppongono al processo di "istituzionalizzazione" del sindacato all'interno dello Stato.

Non possiamo neppure predeterminare quali saranno i passaggi organizzativi futuri. Non è affatto escluso che l'apparato blindato oggi alla guida della CGIL, i cui interessi sono fortemente intrecciati a quelli dello Stato e che da quest'ultimo è sorretto, costringa domani alla scissione. Il problema, però, non è organizzativo. Qui ed ora si tratta di creare le condizioni per battere sul terreno di massa la politica che si esprime nei vertici della CGIL, così da arrivare preparati ad ogni e qualsiasi soluzione che sul terreno "organizzativo" ci dovesse essere imposta.

Su queste basi ci dobbiamo mostrare pronti ad assumerci la responsabilità di proclamare, organizzare, dirigere la lotta. I cardini di essa ci sono dettati materialisticamente dalla situazione: nessuna compatibilità tra gli interessi operai e quelli delle classi borghesi e del loro Stato; nessuna "compartecipazione" ai sacrifici ; la crisi capitalista la paghino i capitalisti: ad essere tagliati devono essere i meccanismi dello sfruttamento intrinseci al sistema capitalista, ad essere reciso dev'essere il potere borghese!

E' troppo? E' musica dell'avvenire (ammesso che questa musica la si voglia ascoltare)? Noi semplicemente diciamo: se non ci s'incardina sin d'ora attorno a questo programma, che siamo ben lungi dall'intendere in maniera ultimativa (tutto e subito, o niente) non ci resterà alcuna anche minima trincea da poter difendere in futuro!