A monte della bufera valutaria che ha squassato il sistema monetario europeo c'è un nuovo aggravamento dello stato dell'economia reale internazionale. I movimenti reciproci tra le monete, infatti, sono sempre un riflesso di quanto avviene nel mondo del capitale e delle merci, pur se, evidentemente, retroagiscono a loro volta su di esso.
Il dato fondamentale con cui il capitalismo mondiale, e per primi i mercati finanziari, sono costretti a fare i conti è il nuovo blocco della ripresina statunitense post-guerra del Golfo, a cui s'aggiungono il marcato rallentamento della produzione in Germania ed il cronicizzarsi o l'acuirsi di dinamiche recessive in un'area sempre più vasta dell'Occidente, che va dalla Gran Bretagna e dall'Italia fino al non più inossidabile Giappone.
Tale situazione si spiega con l'inesorabile ritorcersi sulla metropoli di quegli stessi meccanismi che hanno finora consentito il rinvio della esplosione della crisi generale del capitalismo nel "centro" del sistema.
Richiamiamoli brevemente, cominciando dal soffocamento dei paesi dominati nelle spire del debito estero.
Sotto la sferza del FMI i paesi del Terzo Mondo maggiormente indebitati, o meglio: le masse supersfruttate di essi, stanno pagando cari e amari i crediti accordati ai "propri" stati. Secondo una stima fornita da "Le Monde diplomatique" del settembre '92, tra il 1983 ed il 1990 il flusso netto di capitali che gli stati usurai hanno pompato dai paesi poveri è stato pari a 150,5 miliardi di dollari: l'equivalente, in termini reali, di due volte il totale degli anticipi fatti dagli Usa all'Europa con il piano Marshall! Una autentica manna per l'imperialismo. Con conseguenze leggermente diverse, però, sul ciclo capitalistico.
Allora i sovrabbondanti mezzi di investimento della superpotenza yankee poterono, sulla base delle immani distruzioni provocate da un trentennio di guerre e di depressione, mettere in moto un ciclo di grande sviluppo. Oggi, proprio per l'eccesso di produzione che ne è derivato, la stessa mostruosa torchiatura del Sud del mondo non solo si rivela insufficiente a disinceppare l'economia mondiale, ma quanto sta facendo andare in cancrena una fetta crescente delle aree "periferiche" del complesso dell'accumulazione capitalistica mondiale.
Per garantire l'esazione degli interessi "dovuti" agli stati imperialisti, i piani di "riaggiustamento strutturale" del FMI stanno infatti decurtando e disgregando, quando non devastando, la struttura produttiva, già di per sé tanto carente e squilibrata, dei paesi destinatari, i quali vengono gettati in una spirale di recessione, di dissesto, di impoverimento di massa, che intacca prima la loro capacità di acquisto sul mercato mondiale e poi anche la loro capacità di esportazione e di pagamento del debito. Un autentico circolo vizioso che ora va sempre più comunicandosi allo stesso Nord del mondo.
Certo, su queste rovine l'Occidente incamera profitti da sogno. Mantiene basso il prezzo delle materie prime. Smantella, un pezzo dietro l'altro, l'industria nazionalizzata del Terzo Mondo, appropriandosela a quattro centesimi. Aggioga strettamente al proprio carro gli stati "periferici" presi in ostaggio, impiegandoli nel ruolo di spietati esattori per conto del capitale imperialista. E nell'immediato, -e sappiamo quanto l'accumulazione capitalista viva della congiuntura immediata-, tampona le falle che l'insolvenza degli stati superindebitati aveva provocato nel proprio sistema bancario, specie in quello nordamericano.
Ma proprio a seguito dei successi fin qui riportati, i paesi imperialisti vengono ora investiti dal rimando deflazionistico, depressivo della caduta del potere d'acquisto dei paesi che il FMI e le istituzioni consimili hanno davvero "riaggiustati" per le feste (nel 1990 il valore globale delle loro importazioni dai paesi dell'Ocse era inferiore a quello del 1981).
Di più: lo stesso puntuale pagamento degli interessi, tanto vitale per la stabilità sociale della mega-Tangentopoli imperialista, diventa a rischio, dal momento che esso presuppone una struttura produttiva in grado, se non di espandersi, per lo meno di tenere, e questa, a sua volta, quella continua messa a frutto di capitali produttivi che risulta sempre meno praticabile nei paesi molto indebitati verso l'estero, proprio in ragione dell'onere esterno che li schiaccia. Per non dire, poi, dell'ingigantirsi di quello che è un pericolo ancora più grave per gli stati usurai: l'inasprirsi degli antagonismi di classe, la montante ostilità delle masse supersfruttate del Sud verso l'imperialismo.
Un meccanismo al fondo non troppo dissimile, benché giunto meno in profondità e non ancora pienamente consolidato, sta rovesciando lo sfondamento dell'imperialismo ad Est in una delle cause non secondarie dell'impantanamento del capitalismo a scala internazionale.
Dopo l'"indimenticabile '89", destinato a restar tale in un senso appena un po' diverso da quello della propaganda borghese, quasi tutti i paesi ex-"socialisti" hanno sperimentato livelli di caduta della produzione da "Grande Depressione". Tra il 1989 ed il 1991 abbiamo un -34% per la Polonia, un -38,9% per la Romania, un -4O% ed oltre per Albania e Croazia, un -22,3 per la Bulgaria, cifre negative intorno al -10% per Cecoslovacchia (prima della scissione) e per l'Ungheria. E per la stessa Russia (di gran lunga la più dotata di capacità di risorse e di resistenza tra le repubbliche ex-"sovietiche") si calcola per il 1991 ed il 1992 una contrazione media annua del prodotto industriale intorno al 20%.
Si tratta di un verticale collasso degli apparati produttivi, fortemente esasperato da Ovest con le opportune misure atte a favorire il "tanto peggio tanto meglio", che comincia a farsi sentire, e come, anche sull'Europa. Sebbene i vasti spazi dell'Est siano spalancati come mai lo furono in passato, i commerci con l'Est languono al punto da trascinare all'ingiù moneta e produzione dei paesi ad essi più fortemente legati, ancorché solidi, quali quelli scandinavi.
Viceversa, nulla s'è visto a tutt'ora di quel decollo verso il benessere promesso dai padroni dell'Ovest e dai neonati regimi demo-liberisti che avrebbe dovuto ridar tono anche allo stentato corso dell'accumulazione mondiale. Ovunque il primo tempo, quello della rimozione del vecchio "sistema", si prolunga, e il secondo tempo, quello della "ricostruzione" e dello sviluppo, continua a rimanere lontano.
In realtà gli stati imperialisti (con la sola eccezione della Germania) stanno centellinando, in parte per scelta, in gran parte per necessità, i propri investimenti, mirando a profittare sino in fondo dell'avanzante processo di latinamericanizzazione dell'Est. Basti un dato: nel 1992 la Russia ha ricevuto dall'intero Occidente crediti per un ammontare totale pari a meno di 1/5 di quelli svincolati dalla sola amministrazione Bush a favore di Israele.
Ma mentre le banche e i monopoli occidentali continuano a ricattare al ribasso borghesi e proletari dell'Est, costringendo gli uni e gli altri, bongré malgré, a reagire conformemente ai rispettivi ed opposti interessi di classe, la lacerazione senza fine (non la lacerazione in sé e per sé, evidentemente, che è andata tutta a beneficio dell'imperialismo) della vecchia trama di mercato e statuale edificata dallo stalinismo, il dissesto delle più basilari infrastrutture iniziano a diventare un serio impedimento ad una messa in valore dei territori "liberati" che non sia affidata a tempi biblici. E tanto più lo saranno in futuro se non riuscirà a prendere vigore e ad imporsi ad Est l'istanza di una ristrutturazione più "razionale" e meno in balìa del "mercato internazionale" (anche in questa ipotesi, però, non mancherebbero di certo le complicazioni per le attese dei profittatori "neo-coloniali" d'Occidente. Anzi...).
Di conseguenza, sullo stesso debito dei paesi ex-"socialisti", a quei dì impeccabili pagatori, s'addensano ormai le incognite della ricontrattazione e, soprattutto, della ripresa degli scioperi operai.
Dunque, come esito di due decenni di scaricamento della crisi sui paesi dominati e
sulla semi-"periferia",il mercato dei beni di consumo e, ancor prima,
quello dei mezzi di produzione va restringendosi a Sud e ad Est. A ciò si
aggiunge, ed è un fattore di peso ancora maggiore, un terzo contraccolpo negativo sulle
possibilità di rilancio dell'economia mondiale, costituito dalla stagnazione
del mercato anche al Nord collegata alle politiche anti-welfariste degli anni '80.
"Stiamo tornando ad un mondo com'era nel 1930: estrema ricchezza, estrema povertà", ha scritto l'economista americano Krugman in riferimento agli Stati Uniti. Nulla di diverso sta avvenendo, con qualche anno di ritardo, in Europa. Nell'intero Occidente, in effetti, i frutti dell'incremento della produttività del lavoro sono stati, nel passato decennio, interamente estorti alla classe operaia dal capitale e dalle mezze classi parassitanti sul salariato. Ma la stagnazione prima, e la riduzione poi, della massa dei salari e del salario individuale, se hanno permesso un forte recupero del saggio di profitto, si vanno tramutando col tempo in un altro ostacolo alla crescita.
Il trasferimento di valore e di ricchezza dal proletariato alla borghesia ed agli strati suoi accoliti, l'accrescimento della capacità di consumo delle pur non esigue classi improduttive non sono bastati a dar corpo ad una domanda solvibile tale da esaurire l'offerta. Anche per questa ragione l'anomala dissociazione tra saggio del profitto e tasso di sviluppo della produzione, propria degli anni '80, non poteva durare, e sta per l'appunto risolvendosi, negli ultimi due anni, in una nuova discesa congiunta di produzione, investimenti (1) e profitti (questi ultimi in calo, nel 1991, del 41% per le corporations statunitensi e del 15-20% per quelle giapponesi).
E questa discesa non può più trovare nell'aumento del debito statale un efficace freno, dal momento che, specie in paesi come l'Italia (e comunque là dove il suo incremento viaggia ad un ritmo superiore a quello del reddito nazionale), l'indebitamento pubblico agisce non da oggi (lo segnalammo già nel n. 3 del "Che fare") come concausa di difficoltà per l'accumulazione.
Un "New Deal" alla rovescia nel rapporto tra imperialismo e Terzo Mondo, nonché -all'interno delle metropoli- tra borghesia e proletariato. Programmi FMI di "selvaggia austerità" anche per i paesi ex-"socialisti" che soppiantano le favole degli infiniti "piani Marshall" cartacei...Nessuna propaganda rivoluzionaria avrebbe potuto disegnare in modo più nitido l'antagonismo crescente tra il formidabile potenziale delle forze produttive e le antisociali necessità del profitto capitalistico, tra una produzione sempre più socializzata e mondializzata ed un'appropriazione della ricchezza sociale più che mai privata ed accentrata.
E' una nuova, caotica, universale impasse della produzione capitalistica (a cui si sottrae, per il momento, soltanto la vituperata Cina di Deng, proprio a misura che non si lascia "aprire" più di un tanto dalla pressione dell'imperialismo) che non poteva non trasmettersi dall'economia reale ai circuiti monetari e finanziari, che del pluslavoro operaio in essa prodotto si nutrono.
I cambi della lira rispetto al marco tedesco nel dopoguerra |
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1955 |
149 |
1960 |
149 |
1965 |
156 |
1970 |
172 |
1975 |
266 |
1980 |
471 |
1985 |
650 |
1992 |
da 742 a 985 |
E' a far data dal 1971-1974, gli anni in cui si sono intrecciate la prima grande crisi monetaria e la prima notevole caduta generale della produzione e dello scambio di merci del dopoguerra, che i mercati borsistici, monetari, finanziari hanno conosciuto un'inaudita espansione ed integrazione. Effetto e, a sua volta, propellente dell'instabilità del capitalismo, questo processo ha portato alla formazione di un unico immenso mercato mondiale dei capitali, sorto dalla fusione dei diversi mercati fino ad allora parzialmente transennati da barriere nazionali e da tradizionali divisioni di compiti tra banche, borse e imprese.
Ne è uscita enormemente rafforzata la potenza sociale del capitale finanziario. Dopo la "rivoluzione finanziaria" degli anni '80, infatti, questo può giovarsi di un vero e proprio sistema direttamente mondiale di pompe aspiranti (aspiranti sangue e sudore della classe operaia), che risucchia a ciclo continuo i capitali ed i risparmi dei cinque continenti e li centralizza nelle mani di un piccolo gruppo (da 30 a 50, a stare ad Hamilton) di onnipotenti società finanziarie. Società che si sovrappongono alle vecchie istituzioni finanziarie e che, combinandosi con esse, esercitano una vera e propria dittatura sull'economia mondiale.
Per avere un'idea delle dimensioni di questa centralizzazione, si consideri che sul mercato globale dei capitali si muovono quotidianamente qualcosa come 3.000 miliardi di dollari, all'incirca il prodotto nazionale annuo del Giappone, ripartiti fra transazioni valutarie (2), prestiti internazionali, commercio di obbligazioni, titoli azionari e di stato, nuovissimi contratti a termine (futures) e opzioni (il cui valore complessivo, alla faccia del crack del 1987, è cresciuto del 500% in cinque anni), etc. etc., con le stagionate borse ridotte quasi a fanalino di coda di questo frenetico "capitalismo d'azzardo". Borse la cui capitalizzazione, peraltro, si è, dal 1971 al 1990,moltiplicata per dieci passando da 929 a 9.865 miliardi di dollari...
E per avere un'idea della rapidità della centralizzazione, si guardi quale progressione ha avuto il giro d'affari del mercato delle euro-valute, che viene preso a prototipo del "nuovo" mercato finanziario sottratto ad ogni controllo nazionale: 1,5 miliardi di dollari nel 1958, 105 nel 1972, 1.020 nel 1982, 2.640 nel 1989...
Un simile smisurato rigonfiamento dei circuiti finanziari corrisponde al tentativo, caratteristico di un capitalismo sempre più infognato nelle proprie contraddizioni, di forzare in modo artificiale il processo di valorizzazione al di fuori della produzione. Un folle sogno da rentier, che finisce metodicamente in periodici, improvvisi sconquassi del mondo del "capitale fittizio", minato alla base sia dalla ineliminabile tensione con il mondo antagonistico della produzione di merci, che dagli altrettanto ineliminabili conflitti inter-capitalistici.
Infatti, come la mondializzazione del capitalismo in generale (Lenin insegna), pure la cosiddetta globalizzazione dei mercati finanziari e monetari è soggetta ad una spinta antitetica. Che esprime ad un tempo una tendenza unificante, realmente "internazionalistica", e la tendenza diametralmente contraria alla segmentazione ed alla rottura del mercato mondiale, che prorompe dall'ineliminabile conflitto tra capitalismi nazionali. E così, in campo monetario esiste, è vero, un solo mercato, ma della cooperazione tra le varie monete, dello statuto paritario tra le monete nazionali promesso a Bretton Woods e della moneta unica mondiale che avrebbe dovuto essere annunziata dai diritti speciali di prelievo, non c'è neppure l'ombra. Anzi, la sola moneta nazionale (il dollaro)che per un trentennio ha potuto godere di fatto di questa posizione in quanto moneta d'uso internazionale, si è vista mettere in discussione la sua incontrastata supremazia proprio con il progredire dell'integrazione sovranazionale.
Riacutizzarsi della recessione e conseguente inasprimento a tutti i livelli (incluso quello monetario) della concorrenza inter-capitalistica, in un quadro di permanente ipertrofia ed instabilità dei mercati finanziari e di indebitamento generale: l'esplosiva interazione di questi fattori ha dinamitato in un solo giorno (il 16 settembre) la faticosa costruzione monetaria europea durata 13 anni.
Non è la prima volta che lo SME è sottoposto a scossoni. Dal 1979 sono avvenuti, all'interno del sistema monetario europeo, ben 12 riallineamenti. Quello che fa della crisi monetaria in atto la più grave dell'ultimo ventennio è la sua ampiezza (ossia il numero ed il peso specifico delle monete coinvolte), la sua profondità (per le monete deprezzate le perdite di valore sono dell'ordine del 15-20% in un mese, con il corrispettivo riapprezzamento delle monete vincenti), la sua simultaneità per paesi pur caratterizzati da "fondamentali" non omogenei, la straordinarietà delle misure di contenimento (si pensi ai tassi svedesi al 500%) ed infine i suoi effetti: l'uscita di due paesi come la Gran Bretagna e l'Italia dallo Sme e la rimessa in discussione non soltanto del traguardo conclusivo della moneta unica europea, ma anche dell'unione monetaria che doveva prepararla, nonché del processo di "unificazione" politica.
Da destra (con qualche eccezione, poiché vi è rimasto un pizzico di materialismo ed una certa simpatia per storici "assi") a "sinistra" (qui pressoché all'unanimità, con il "Manifesto" che si guadagna una segnalazione in fatto di lettura soggettivistica dei fenomeni economici e di bordate anti-tedesche) si afferma all'unisono: causa della crisi è l'"egoismo" della Germania, la sua proterva volontà di tenere alti i propri tassi di interesse. Che penosa mistificazione!
La rivalutazione della moneta tedesca è faccenda non certo dei mesi più recenti, bensì del lungo periodo (si osservi la tabella sul rapporto marco-lira negli ultimi trenta-quaranta anni riportata qui a fianco). E dipende per l'essenziale non dalla contingente politica dei tassi "decisa" dalla Bundesbank, ma dal costante rafforzamento dell'economia tedesca a fronte delle economie europee ed extra-europee concorrenti, dalla espansione della fetta di mercato mondiale coperta dalla industria e dalla finanza germanica.
Fino al 1989 l'area del marco inglobava pienamente "soltanto" il fiorino olandese, il franco belga ed il franco svizzero, esercitando una minore influenza sullo scellino austriaco e sul franco francese. Dopo il 1989 l'area di circolazione (e semi-dominio) del marco è cresciuta d'un balzo: "in Ungheria, in Croazia, in Slovenia, in Polonia e in Cecoslovacchia si usa ormai prevalentemente la moneta tedesca", rileva Prodi su "L'Unità" del 16 settembre. E aggiunge: "In Europa, ormai, i prezzi sono calcolati in marchi", e "gli spostamenti delle masse monetarie sono il riflesso dei nuovi rapporti di potere". Orbene, dopo avvenimenti di tale portata, dopo la riunificazione della Germania, era realistico che i rapporti di cambio tra le monete (bloccati all'interno dello Sme dal gennaio 1987) ne restassero immuni?
Il corso dei cambi tra due o più monete nazionali rispecchia nell'insieme (chiaro: non meccanicamente ed in ogni singolo momento) i rapporti esistenti nel campo dell'economia reale tra i rispettivi paesi. Detta in volgare: "a economia forte, moneta forte". Nei tredici anni di esistenza dello Sme il marco ha conosciuto otto apprezzamenti e la lira sei deprezzamenti.
Il livello dei tassi di interesse, poi, non è determinato dalla volontà di Tizio o di Caio, bensì -alla fin fine- dal mercato, dalla legge della domanda e dell'offerta, e può incidere soltanto sulla velocità e sull'ampiezza dei movimenti valutari, mai causarli autonomamente ed a dispetto di tutti gli altri fattori (primo tra di essi lo stato della struttura produttiva). Del resto: al momento del crollo delle loro monete non avevano, forse, Gran Bretagna ed Italia un tasso reale di interesse doppio rispetto a quello tedesco, da tutti deprecato come "insostenibile"?
Ancor più mistificante e idiota è blaterare di "egoismo" della Germania e dei suoi massimi banchieri. Che cos'altro è il mercato capitalistico, a cui tutti naturalmente si prosternano, se non il terreno della cannibalesca competizione tra capitali per lo sfruttamento del lavoro salariato? Quando mai è stato e può essere altro da questo? E che, lo si scopre oggi che le monete, al pari delle economie da esse "rappresentate", sono in continua concorrenza tra loro fino alla guerra aperta, e che in tale ritornante guerra non esiste altra regola se non quella dei nudi rapporti di forza?
Dunque: i mercati monetari hanno travolto il sistema delle parità europee fissato in sede politica, dando sfogo ad una fortissima e squilibrante pressione speculativa (e ripristinando marxisticamente il primato del "movimento economico della società" sui governi, sugli stati e sulle stesse banche centrali). Lo hanno fatto al solo modo in cui sanno operare: con anarchia, con violenza. Tanto maggiori, quanto più spasmodica è diventata, a causa della crisi, la ricerca capitalistica di nuove occasioni di profitto.
Secondo la propaganda a chiaro sfondo sciovinista che sciaguratamente tanta eco trova anche a "sinistra" (quella stessa "sinistra" che in primavera non sentimmo alzar la voce quando la Bundesbank tentò di sbarrare la strada al grande movimento degli scioperi opponendo ad esso le ragioni del marco, cioè del capitale...tedesco e non), sarebbero super-marco e super-Banca germanica a minacciare le sorti alquanto malcerte dell'economia mondiale.
Noi diciamo, invece: non è stata (non può essere) una singola istituzione, una singola "volontà" o una singola moneta a provocare in solitario il terremoto valutario in corso, come non lo fu nel collasso borsistico dell'ottobre 1987 o del 1929.E neppure, come piace ad un certo "anticapitalismo" moraleggiante, dei misteriosi geni del male che da chissà quali tenebre tramano illegali disegni contro le buone, democratiche regole del mercato e contro la povera Italia. No: a provocarlo, sono stati proprio i mercati finanziari, ossia l'onoratissimo, "democraticissimo", legalissimo, signor capitale finanziario, ben compreso quello di casa nostra, con fior di italici patrioti in testa. L'accaduto è frutto, uno dei frutti, del modo di essere del capitalismo che, marcendo, non può fare a meno, anzi ha la necessità di strozzare le forze produttive (è a questa barbara necessità, in fondo, che si riducono tutte le crisi)che non riesce più a tenere sotto controllo.
Troppo astratto? troppo generico? volete personificare? Pensate allora alle grandi società finanziarie, alle banche, alle multinazionali, alle consorterie di governo (c'è bisogno di far nomi?) che monopolizzano i capitali liquidi e li spostano freneticamente da un "luogo" all'altro, da un "impiego" finanziario all'altro, senza guardare in faccia a nulla e a nessuno, pur di lucrare uno 0,10% in più. Avevano visto una buona opportunità d'incasso e l'han sfruttata. Tutto qui.
E non veniteci, poi, a raccontare, di complotti opera di speculatori-outsider senza volto. Nella fase imperialista del capitalismo, il centro dell'attività della classe capitalistica, e per primo dei grandi capitalisti, va sempre più spostandosi dalla produzione alla speculazione, che questo piaccia oppur no agli apologeti del capitalismo o a certi "anticapitalisti" che si perdono a fantasticare su impossibili ritorni ad un capitalismo meno centralizzato e meno parassitario.
Dopo la recente tempesta monetaria in Europa, le possibilità che ha il sistema capitalistico di tenere a freno le proprie contraddizioni si sono di certo assottigliate. Un nuovo scatto nel processo della crisi capitalistica è avvenuto. Non ci interessa affatto stare a divinare sugli sviluppi immediati a venire, né parteggiamo, come i nostri lettori sanno, per l'istantanea precipitazione delle cose.
Nulla potendosi escludere, è da mettere anche nel conto che, ove si combinassero un effettivo, pur limitato, risveglio dell'economia statunitense (con i connessi vantaggi per il giro d'affari del Giappone), una tenuta del traballante binomio franco-tedesco, un primo momento di inversione del continuo incasinamento della situazione in Russia e nell'Est, una graduale apertura senza cataclismi dei due colossi del Terzo Mondo -Cina ed India- su cui sta concentrandosi la furiosa pressione dell'imperialismo, si potrebbe determinare una nuova (apparente) pausa nel corso catastrofico obbligato del capitalismo mondiale. Anche in questa eventualità, però, non avremo una ripetizione di quanto avvenuto negli anni '80, né sul piano economico-sociale, né su quello politico.
La crisi capitalistica ha fatto un nuovo passo in avanti ed in profondità verso il centro del sistema e perciò verso il centro del proletariato internazionale, la classe operaia della metropoli, con un forte inasprimento sia dei contrasti inter-imperialistici (3) che dell'aggressione capitalistica al proletariato.
La fase soft dei sacrifici operai è finita. Gli spazi di una redistribuzione "riformatrice" sono ridotti al minimo. Inizia un periodo in cui la borghesia cercherà di imporci, anche con dosi sempre più massicce di repressione, una disciplina lavorativa e sociale draconiana.
Non a caso Amato e soci parlano di "economia di guerra", sostenuti pienamente non soltanto dai borghesi di qui ma dai mercati finanziari, e cioè dai capitalisti, e dai governi di tutta Europa. La vicenda italiana non parla solo dell'Italia...
E come qui da noi, ovunque provvedimenti tanto anti-proletari quanto non s'erano "mai visti" da una o due generazioni, s'accompagnano alla somministrazione sistematica, ossessiva della droga sciovinista. Che i lavoratori non vengano inquadrati nei ranghi della "nazione" soltanto con la violenza, ma anche con la bastarda lusinga che potremo tornare "tutti insieme" ai bei tempi dell'affluenza se riusciremo a battere nella "guerra economica" (nella guerra...) le nazioni concorrenti, i proletari nostri compagni di classe di altre nazioni...Vecchi scenari già troppo noti!
Stanno maturando le prime precondizioni di uno scontro di classe destinato ad assumere, non diciamo oggi né domani, ampiezza ed intensità "mai viste"...almeno dal 1917-1923 in qua. Altro che un secondo, magari più teso, '68! Non è tempo per autonomi "protagonismi studenteschi", né per rigenerazioni della democrazia che non siano rivolte contro la classe operaia. Comincia un "gioco" per giocatori duri e con una posta realmente epocale.
Provocato dal capitale, il proletariato metropolitano torna in campo. Gli scioperi generali in Italia, in Grecia, in Spagna. Il grande movimento di lotta in Germania. La ricomparsa di durissimi conflitti operai (certo ancora molto isolati) negli Stati Uniti della Los Angeles ancora fumante. Gli scioperi in Polonia, in Slovenia, i "musi neri" rumeni, il gigante proletario russo che sta per levarsi...E poi laggiù, sempre più vicine, le fiamme del movimento insurrezionale degli sfruttati del Sud, indomiti...
"Non è che l'inizio", dicono i borghesi.
"Non è che l'inizio", lo sappiamo bene noi proletari rivoluzionari.
Rintuzzare gli assalti del fronte borghese. Ritrovare la piena fiducia nelle nostre forze. Coalizzarle, unificarle, centralizzarle. Contrapporre all'infame prospettiva sciovinista l'internazionalismo proletario. Riconquistare il nostro programma. Rifondare il Partito Comunista. Cammino aspro, lungo. Già cominciato!
(1) E' particolarmente indicativo, a riguardo, il recentissimo rapporto della Industrial Bank of Japan; indicativo perché si riferisce ad un paese, il Giappone, che non ha pari in fatto di elevatezza degli investimenti (cresciuti nei secondi anni '8O ad un tasso annuo che è andato ripetutamente al di sopra del 20%). In questo rapporto si rileva un calo degli investimenti generalizzato nell'anno fiscale '91-'92 che si accentuerà nel '92-'93, in particolare nella industria manifatturiera. Per quest'ultima, al -11,8% dello scorso anno seguirà un -12,9% nell'anno fiscale in corso (iniziato a marzo), con alcuni settori, quali la chimica, le macchine elettriche, la carta al di là del 20%. Si tratta del quadro di previsioni più pessimistico da quando (1969) il rapporto viene redatto (v. "Financial Times", 6.10.'92).
Anche per l'Europa, peraltro, la prospettiva si presenta per i prossimi anni tutt'altro che brillante. Un rapporto Isco-Eurofed prevede per gli anni 1992-1997 una discesa estesa a quasi tutti i paesi europei del tasso annuale di crescita dei capitali fissi. In Italia si passerà dal 5,7% degli ultimi sei anni al 3,8%, in Francia dal 5% al 3,1%, mentre la flessione più forte si avrà proprio in Germania, dove si passerà dal 7,8% degli anni recenti al 2,9%. Insignificante il movimento in controtendenza della Gran Bretagna, dal 2,4% al 3,1% (v. "L'Unità", 10.10.'92).
(2) Per avere un'idea dell'entità della speculazione, si consideri che, a seconda delle stime, dal 9O al 99% del valore di queste transazioni (il cui ammontare quotidiano va dai 600 ai 1.000 miliardi di dollari) non è legato in alcun modo alla compravendita di merci.
(3) Le anticipazioni in tal senso non mancano. Si pensi allo scatenamento senza precedenti delle tensioni inter-europee. Al tentativo statunitense di blindare (con il trattato imposto a Canada e Messico) il centro-nord America contro i concorrenti europei e giapponesi. Alla corsa del Giappone a fare altrettanto, impresa quant'altra mai improba e dirompente, in Asia, e così via.