Pur se isolata e tra mille insidie, la classe operaia, attaccata, è scesa in campo
La serie dei colpi è stata di quelle che manderebbero a tappeto anche il pugile più solido: manovra economica da 30mila miliardi a luglio, morte definitiva della scala mobile alla fine dello stesso mese grazie al consenso dei sindacati, svalutazione della moneta, leggi-delega su previdenza e sanità e finanziaria '93 (entrambe per rastrellare 93mila miliardi), e a condire il tutto l'annuncio che...non è che l'inizio. Non è stato il primo colpo scaricato sugli operai. Per oltre 10 anni, anzi, è stato tutto un susseguirsi di attacchi al salario, all'occupazione, all'organizzazione sindacale e politica della classe operaia. Mai però il segno era stato così netto e così concentrato e, soprattutto, mai un governo si era mostrato così determinato ad andare fino in fondo nello smantellare le barriere di difesa salariale e dello stato sociale.
La rabbia che covava già da lungo tempo è, quindi, esplosa dando vita ad un movimento di lotta la cui ampiezza e durata ha stupito solo i teorici -tanto presenti anche a "sinistra"- della scomparsa della classe, vuoi come entità economica vuoi come entità politica. Non certo poteva stupire chi in tutti questi anni non si è scostato di un millimetro dalla strada di analisi e di lotta indicata da Marx oltre un secolo fa. Non ci aspettiamo da alcuno il conferimento di medaglie -né sopporteremmo di vedercene attribuite o di autoattribuircene-, la nostra battaglia continua e, in una certa misura, si fa ancora più dura e impegnativa e per contribuire alla tenuta di questo movimento, e per trarre da esso quelle lezioni essenziali per tutta la classe nella sua lotta attuale e futura.
Il 18 settembre, subito dopo l'annuncio della manovra governativa, decine di migliaia di operai scesero in sciopero in molte città su tutto il territorio nazionale senza che vi fosse alcun accordo preventivo. Occuparono strade e ferrovie, protestavano contro il governo, ma, soprattutto, lanciavano un messaggio chiaro e deciso ai vertici sindacali: è ora che passiamo alla lotta aperta! CGIL-CISL-UIL risposero in modo quantomai travagliato a questo messaggio. Probabilmente -di certo, CISL e UIL- si sarebbero sottratte volentieri a questo compito se la decisione operaia non fosse stata così forte e netta.
Nella speranza di contenere la lotta negli alvei di una protesta utile, tutt'al più, a rinforzarle nella contrattazione di qualche ritocco alla manovra, decisero una serie di scioperi generali su base regionale. Quegli scioperi hanno avuto una riuscita enorme, gli operai hanno riempito le piazze e hanno detto in modo inequivocabile di volere una lotta seria per il rifiuto della manovra governativa e dell'accordo del 31 luglio.
Già qui, nella genesi di questa fase di lotta, ci sono alcune indicazioni fondamentali di cui fare tesoro.
La prima è che una avanguardia della classe operaia -e solo un'avanguardia- scende in piazza "spontaneamente" per reagire all'attacco che viene portato a tutta la classe. La discussione sulla purezza della "spontaneità" non ci interessa più di tanto. Che dietro molte mobilitazioni ci fosse qualche settore della CGIL (e, spesso, più della maggioranza che di "Essere Sindacato"...) non inficia in nulla la nostra tesi e che, cioè, il "la" alla lotta lo dà un settore della classe cui le condizioni oggettive (grandi aziende o concentramenti territoriali di piccole e medie aziende) e soggettive (maggiore tenuta della conflittualità e della organizzazione sindacale interna) consentono di avere una maggiore coscienza della propria forza o, meglio ancora, dell'inevitabile ricorso ad essa, fosse solo per garantirsi una difesa delle proprie condizioni di lavoro e di esistenza.
Ma, secondo fondamentale passo, questa -che possiamo a pieno titolo chiamare- avanguardia operaia, oltre che consapevole dell'inevitabile ricorso alla lotta, è stata consapevole che l'attacco della borghesia era generale e che solo una risposta generale di tutta la classe avrebbe potuto determinare le condizioni di un serio tentativo per bloccarlo.
Non è considerazione di poco conto, e dovrebbero mandarlo a memoria soprattutto quanti ritenevano che la strada da percorrere per rimettere in questione l'accordo del 31 luglio avrebbe dovuto essere quella di ripartire dalla contrattazione aziendale. Qualcuno, pare, abbia colto la critica -non perchè nostra, è ovvio, ma perchè di massa-, a stare almeno all'intervista di Bertinotti su Liberazione del 2.10.92, dove si dice che "Quella sorta di autonomizzazione aziendale o localistica che sta prendendo la crisi del sindacalismo confederale...è sproporzionata di fronte al disegno dell'avversario di classe".
Terzo concretissimo passo: per ottenere una generalizzazione della lotta, per far scendere in campo tutta la classe operaia, e per cercare di allargare il fronte a tutti gli altri lavoratori dipendenti, bisogna imporre ai sindacati di assumere la direzione della lotta. La restante massa dei lavoratori, quella che, pur avendo raggiunto lo stesso livello di rabbia, non era scesa in piazza il 18 settembre, attendeva un segnale per scendere in lotta: il segnale che alla testa della lotta si collocava una direzione che poteva dare -almeno teoricamente- garanzie di unità e di ampiezza del movimento, oltre a poter gestire la conseguente fase di trattativa col governo.
Una volta assicuratosi questo passaggio, generalizzazione e, quindi, centralizzazione della lotta, gli operai dell'uno e dell'altro settore hanno aderito in massa agli scioperi e hanno detto -uniti- nelle piazze che al sindacato, a quella direzione necessaria e richiesta, non davano una delega a trattare su un foglio bianco, ma che volevano, quantomeno una modifica profonda della manovra governativa e che, questa volta, sarebbero stati attenti a controllare tutti i passaggi della trattativa.
La conseguenza che traiamo da questi svolgimenti non è quella che, per dare un carattere generale alle loro lotte, gli operai dovranno rivolgersi sempre a CGIL-CISL-UIL, o sempre a queste CGIL-CISL-UIL, o a questa CGIL. La conseguenza che traiamo è un'altra: la classe operaia ha bisogno -e il futuro sviluppo della lotta tra le classi confermerà ancor più questa esigenza- di una organizzazione centralizzata e forte e che -seconda, ma non meno importante, conseguenza- finché avrà anche un solo motivo di pensare di poter influenzare, indirizzare, orientare le organizzazioni esistenti lo farà fino in fondo.
Chi segue la nostra stampa sa che noi non consideriamo gli attuali sindacati un "feticcio" intoccabile in cui rimanere costi quel che costi, né tantomeno un "involucro" da cui uscire al più presto pena un apocalittico disastro. A decidere di come la classe riconquisterà la sua organizzazione di classe saranno le condizioni dello scontro e il livello di lotta e di auto-organizzazione delle masse operaie. Quel che è sicuramente escluso è che alfine di risolvere tale questione sia utile darsi a costruire fin d'ora "quarti" o "quinti" "purissimi" "sindacatini" aziendali o localistici, il cui rischio di separazione dalla massa è molto più congruo di qualche pallida possibilità di parziale successo aziendale o locale, e il cui parziale successo rischia di essere ricercato con la rincorsa ai settori più arretrati della classe (v. certi accenti -neanche tanto vagamente- "leghisti" di alcune posizioni dell'FLMU).
Un'altra lezione che va assunta da questa fase di lotta è che qualcosa di serio, di profondo, sia mutato rispetto a prima. Non solo perchè la manovra del governo Amato è più dura di ogni altra precedente, non solo perchè promette di essere solo la prima di una serie di ben più gravi misure, ma soprattutto perchè, mai come questa volta il governo ha risposto no su tutta la linea alle proteste e alle proposte sindacali, fino ad arrivare alla richiesta di fiducia sulle leggi-delega (sanità, previdenza, pubblico impiego, finanza degli enti locali) che, oltre a imbavagliare i sindacati, ha imbavagliato anche il Parlamento (si, d'accordo, basta poco per farlo!) e le sue 1045 proposte di emendamento.
Giustamente gli operai hanno colto la pesantezza di questo passaggio e hanno ripetuto in molte città -il 9 ottobre- le stesse (grandi) mobilitazioni spontanee di venti giorni prima.
Il governo Amato ha segnato, così, un autentico punto di svolta. A chiudersi è l'epoca della "mediazione", quella in cui al proletariato, e ai sindacati, si concedeva in virtù della loro forza di discutere -e spesso di ammorbidire- le misure "anti-crisi".
All'individuo Amato non vanno meriti particolari, egli si è fatto fedele e notarile interprete di una situazione -nazionale e internazionale- che non consente più a tutt'intera la borghesia di operare rinvii nello sferrare un duro attacco al proletariato. La forza del governo Amato consiste nella cruda necessità che ha costretto la borghesia -pur al suo interno ancora incerta e divisa su come riorganizzare la sua rappresentanza politica per i tempi a venire- a unirsi come un sol uomo per avviare il "risanamento del deficit pubblico e, innanzitutto, realizzare un ulteriore travaso dal salario verso il profitto e la rendita.
La borghesia ha dato, dunque, a se stessa prova di sapersi unire contro il proletariato, e questo le ha fornito uno stimolo maggiore anche a risolvere l'altro corno dello stesso problema: la ristrutturazione della sua rappresentanza politica e quella (ad essa strettamente legata) autoritaria dello Stato. Non è un caso se nello stesso periodo che il proletariato riempiva le piazze la DC trovava la forza di nominare un nuovo -stavolta "onesto"- capo, che la Lega Nord cominciava a saggiare la piazza non più solo per semplici comizi ma per attivizzare gli "onesti" commercianti e artigiani del Nord contro le "imposizioni fiscali di Roma" (e, in ultima istanza, contro il proletariato), che La Malfa iniziava a corteggiare la Lega, che Segni riempiva il Palasport di Roma con 15mila galvanizzati afioionados -sotto il benevolo sguardo di quell'altro campione antiproletario di Don Sturzo.
Il proletariato, mai come questa volta, si è trovato solo, senza interlocutori nelle altre classi o mezze classi (v. persino la propensione verso la manovra di Amato di alcuni economisti del PDS, oltre quella, scontata, dei "miglioristi") e con un governo deciso a fare muro alle sue richieste. Le stesse classi medie di piccola-borghesia nel marasma attuale, prodromo tenuissimo di quello a venire, si sono schierate dietro al carro del capitale e della rendita, con tutti i loro rappresentanti politici, dai "moralizzatori" alla Orlando, ai "democraticissimi" alla Pannella, propostosi a capo dell'aggressione -solo verbale per ora- agli operai in lotta in nome della crociata contro uno sfascio economico prodotto -a dire di questo porco- dal "consociativismo", ovvero dalle "eccessive" richieste operaie e sindacali dei decenni trascorsi.
La lotta delle classi di va facendo vieppiù aperta: le forze sociali e politiche si vanno, di conseguenza, decantando. Non tutto è già risolto, né tutto è già definito, ma, di sicuro, negli ultimi recenti tempi sono stati fatti passi avanti significativi nel senso della polarizzazione sociale e politica. Attorno alla classe operaia il clima è andato mutando: dalla precedente simpatia, alla successiva freddezza, alle attuali prime chiare espressioni di ostilità.
Con il mutare di questo clima si vanno anche riducendo gli "spazi del riformismo", quelli che avevano consentito -fino ad ora- di affermare, sia pure relativamente, alcuni bisogni economici, sociali e politici di parte operaia in un quadro di tenuta e rafforzamento del sistema capitalistico.
La riduzione di questi margini di mediazione ha messo a dura prova tutti i capi riformisti, sia in campo sindacale che in quello politico.
In campo sindacale la CISL e la UIL hanno cercato di contenere al massimo le lotte, quando non le hanno sabotate direttamente, puntando soprattutto alla riuscita dello sciopero riservato al pubblico impiego. Non v'è dubbio che in questo settore hanno la loro più significativa presenza, né vi è dubbio che stanno tentando in tutti i modi di non legare le sorti di questo a quelle della classe operaia, sia cercando di associarlo il meno possibile agli operai nella lotta, che cercando di ottenere un trattamento differenziato sul piano economico e normativo. Ma per quanto flebili siano i legami di CISL e UIL con gli operai esse non hanno potuto sottrarsi dal raccogliere la protesta e la volontà di lotta che veniva dal basso.
A maggior ragione non avrebbe potuto sottrarsi la CGIL. La presenza di questa organizzazione nella classe operaia è ancora forte, non tanto per il numero di iscritti, quanto perchè viene tuttora vista dagli operai il "loro" sindacato, quello a cui ci si può rivolgere con la speranza di essere ascoltati e ci si deve rivolgere con la pretesa che ascolti. E la CGIL ha ascoltato. Dietro di lei, anche se con un orecchio solo, hanno ascoltato pure CISL e UIL.
Gli eventi successivi hanno preso una piega sempre più difficile per le direzioni sindacali. Dalle piazze è via via cresciuta una pressione a rigettare la manovra e l'accordo del 31 luglio, a non subire un ricatto di Amato "o la manovra o la crisi di governo", a indire forme di lotta più incisive e generali. A questa ondata crescente CGIL-CISL-UIL non han potuto opporre nessun risultato concreto: la manovra è rimasta in piedi e il governo ha rifiutato qualunque proposta di modifica proveniente dai sindacati. Lo schema precedente con gli scioperi che riuscivano a modificare, sia pure parzialmente, le finanziarie era rimasto valido fino all'anno scorso quando si era riusciti ad evitare l'addizionale IRPEF del 4%. Oggi si è frantumato, costringendo i sindacati a indire nuove mobilitazioni fino allo sciopero "quasi generale" del 13 ottobre.
Ma non è da credere che il sindacato, in particolare la CGIL, abbia unicamente assecondato la volontà di lotta della base operaia, che si sia solamente uniformata ad essa, magari -come qualcuno dice- solo per consentirle di sfogarsi (...in uno sciopero generale -"farsa"- con milioni di lavoratori...). Al contrario, il disagio della CGIL e la voglia di lottare che cova anche nel seno di buona parte della maggioranza che fa riferimento a Trentin (molto meno nella cricca di Del Turco&C.) è reale, e nasce dalla contraddizione che tutto il "riformismo" comincia ad avvertire pesantemente per quel senso di impotenza che scopre all'improvviso nel non riuscire a realizzare anche modesti miglioramenti -o una difesa- delle condizioni dei lavoratori come ci riusciva, invece, in un quadro di tenuta del sistema capitalistico.
In fatti la CGIL da un lato ha dovuto tener conto della pressione operaia e ha formulato un programma di rivendicazioni che, pur essendo al di sotto delle richieste della base, era ben diverso dalla logica del 31 luglio; ma, dall'altro lato, pur a questo edulcorato programma, da cui era scomparsa, nel frattempo, la proposta di patrimoniale, il governo ha opposto una sfacciata noncuranza. Come se non bastasse, il governo ha celermente approfittato degli aspetti duri assunti da alcune contestazioni di piazza ai vertici sindacali per introdursi pesantemente e violentemente nei cortei del due ottobre a Roma. Chi in questi fatti (Il Manifesto in testa) ha visto una regia a 4 mani (governo-sindacati, con i sindacati alla guida o su un piede di parità) non ha capito, né forse voleva e vuole, che per la borghesia comincia a diventare intollerabile persino questo sindacato, nonostante la sua provata fede nel capitale e le sue continue prove di "responsabilità" nazionale. Sicuramente i sindacati avevano richiesto e concordato una presenza della polizia (una decisione comunque gravissima, presa formalmente per difendersi da una fantomatica minaccia di "Autonomia", in realtà perchè preoccupati che la protesta dei lavoratori potesse assumere una dimensione dirompente), ma ben difficilmente avevano concordato quel tipo di intervento bestiale, pienamente coerente, invece, con l'intenzione borghese di bastonare i "critici" del sindacato per ammonire il sindacato e la classe che la piazza, anche la piazza del sindacato, è sotto la giurisdizione della polizia. L'andamento degli scioperi del 13 ottobre e le dichiarazioni dei vari leaders sindacali dopo questo (perfino un D'Antoni a Milano ha chiesto dal palco alla polizia di rimanere fuori della piazza nonostante le contestazioni che stava ricevendo) dimostrano esattamente quella tesi.
La vita si fa più difficile per il riformismo, ma i suoi legami con le masse non sono destinati a sparire in fretta. Sicuramente non sono già scomparsi, come pensano quanti vedono nel rapporto vertici sindacali-base solo contrapposizione solo imposizione ingannevole degli uni sull'altra. Al contrario il legame è ancora molto forte. La stragrande maggioranza degli operai è convinta di dover lottare per non essere la sola a pagare per il "risanamento" economico, non contesta i sacrifici in sé, ma contesta di doverli fare da sola, vuole che tutti gli altri ceti sociali partecipino "con equità" -il che vuol dire "chi più ha, più dia". Un Trentin si muove sulla stessa lunghezza d'onda, come d'altronde l'insieme del riformismo sindacale e politico. I fili che uniscono la classe operaia al riformismo sono ancora fittissimi e si rescinderanno solo dopo un lungo travaglio di esperienze, di salti e di rinculi. Ma -ed ecco una ulteriore lezione- queste giornate di lotta ne hanno già delineato l'itinerario: la contestazione ai vertici sindacali era indirizzata a imporgli una maggiore coerenza su quel terreno che pure era, abbiamo visto, del tutto comune per quanto attiene alla logica di fondo. Coerenza nel formulare il programma, coerenza nel sostenerlo, coerenza nell'organizzare la lotta per imporlo. Non è differenza di poco conto già oggi. Avrà peso ancora maggiore nei domani vicini e lontani che riproporranno all'ordine del giorno la stessa questione.
Sotto la spinta delle lotte il PDS e il PRC sono stati investiti da un alito nuovo e, entrambi, hanno accentuato il loro riferimento agli operai e ai lavoratori.
Per il PDS le lotte operaie potrebbero costituire un elemento forte per porre la sua candidatura al governo del paese in quanto unica forza che potrebbe dare garanzia ai lavoratori di una politica basata sull'equità dei sacrifici. E segnali che andavano in quella direzione dal PDS ne sono inizialmente venuti. La proposta di "governo di svolta" era, però, già qualcosa di molto fumoso e ambiguo: potrebbe mai un governo con La Malfa e Segni assumere come condizione fondamentale la difesa del salario dei lavoratori? Ad ogni buon conto Occhetto, tanto per non crearsi ulteriori difficoltà, ha pensato bene di rimandare la richiesta di crisi di governo a dopo la delineazione del governo subentrante. Date le difficoltà nell'organizzarlo, chissà che nel frattempo la manovra non sia già stata approvata...
Il PRC, dal canto suo, ha trovato nelle lotte nuove conferme per la sua politica di "fronte delle opposizioni di sinistra", non perchè rifiuti l'ipotesi del governo con forze solidamente borghesi (cos'altro sono la Rete o i Verdi o quel suino già citato?), ma per rimandarla ad un momento più favorevole, cui la "sinistra" dovrebbe arrivare dopo essersi rinforzata in un esercizio, appunto, dell'opposizione che tenga conto delle istanze operaie e della difesa...della costituzione.
L'atteggiamento dei due partiti concorrenti nel campo operaio (e del "popolo") è unificato dalla stessa contraddizione. Da un lato entrambi invocano le lotte, dall'altro, entrambi, sperano che si chiudano presto senza mettere in crisi le rispettive strategie di alleanze interclassiste.Il PDS le invoca nella speranza di recuperare quel consenso elettorale che è andato perdendo, e nella speranza di avere una spinta verso il governo, ma se realmente andasse al governo su quel programma di "difesa del salario e dello stato sociale" rivendicato dalle lotte operaie e sotto la pressione di esse, si aprirebbe un conflitto terribile con la borghesia che renderebbe ancora più problematiche le sorti dell'economia nazionale. Meglio allora rimandare a momenti di maggiore calma operaia, augurandosi che agli operai sia rimasta almeno...la voglia di votare PDS.
Il PRC invoca le lotte nella convinzione di potersi accreditare come unico partito cui gli operai possano dare fiducia, ma il suo quadro di riferimento è del tutto parlamentaristico e istituzionalistico, se è vero che, a movimento ancora pienamente in piedi, già inizia a lanciare la proposta di referendum sull'accordo del 31 luglio, il che equivale a dare il movimento già per sconfitto e a predisporre il modo per raccogliere i frutti sul piano elettorale, sottomettendo la questione operaia all'approvazione...delle altre -e avverse- classi, oltreché ad utilizzare la forza operaia per rivitalizzare la democrazia e...difendere la costituzione.
Se il riformismo sindacale è in forte difficoltà, quello politico sbanda del tutto. Eppure la "questione del governo" non è stata assente da questo movimento. Essa si è posta come risposta a due quesiti simili, ma di taglio diverso. Il primo: chi può dare garanzia di vera equità? Il secondo: di chi possiamo fidarci nella gestione delle ulteriori risorse che ci sottraggono coi sacrifici? Mentre il primo conduce verso una risposta del tipo "sinistre al governo", anche se solo associate ad altre forze, ma in posizione favorevole, il secondo conduce verso una ancor più interclassista risposta del tipo "governo degli onesti". Questi quesiti sono, indubbiamente, rimasti ai margini di questo movimento, ma, pure, un ruolo lo hanno giocato come contraltare al ricatto che una lotta troppo dura contro Amato genererebbe una "crisi al buio", o al timore che le lotte non avrebbero "sbocco politico". E un ruolo anche maggiore potranno giocarlo in futuro.
Ma se dal riformismo sindacale si preparano al proletariato amare delusioni, quelle in preparazione da parte del riformismo politico non saranno da meno...
La classe operaia ha dimostrato, dunque, di essere in grado di mettere in campo una grande forza. E pure tutta questa forza potrebbe risultare non sufficiente a bloccare l'attuale attacco della borghesia. E questo perchè ha affrontato questo svolto impreparata; ha scoperto solo sul terreno dello scontro di trovarsi di fronte un avversario più determinato del passato, reso più forte dalla consapevolezza di non poter rinviare oltre l'attacco. Ha verificato all'inizio dello scontro di non potersi più fidare completamente delle sue direzioni pur forgiate e sperimentate in decenni di lotte dal bilancio sostanzialmente positivo sul terreno immediato, ma di dovere esercitare su di esso un controllo più assiduo e stringente. Si è trovata per la prima volta praticamente da sola; tanti ceti sociali o rappresentanti politici che prima la blandivano, oggi le girano le spalle, o, addirittura, passano decisamente nel campo avverso.
Ma, anche nell'ipotesi di conclusione di questo movimento senza risultati tangibili, la lotta non sarà stata affatto inutile. Da essa sono emersi insegnamenti preziosissimi per il futuro, di cui tutta la classe farà tesoro, al di là di fenomeni di riflusso che sono sempre nell'ordine delle cose, anche nel caso in cui questi fenomeni diventassero drammatici, da un profondo diffondersi della sfiducia e della passivizzazione fino ad un consenso alle Leghe.
La lotta di classe non finisce qui, né oggi. Anzi, "oggi" è iniziata una fase nuova e più dura da cui il proletariato non potrà sottrarsi, seppure lo volesse ardentemente. In questa fase il proletariato entra anche capitalizzando le esperienze dell'oggi: ricorso alla forza di tutta la classe, generalizzazione e centralizzazione delle sue strutture allo stesso livello di quelle dell'avversario, diffidenza, suscettibile -a determinate condizioni- di divenire rifiuto, verso il riformismo e i suoi capi. Esperienze che al proletariato derivano anche da un passato che, nonostante tutto, la borghesia non è riuscita a smantellare completamente.
Sarebbe ancor meglio se di questi insegnamenti facessero buona memoria anche le avanguardie della classe, sia quelle reali che presunte, evitando di rincorrere scorciatoie organizzativistiche, ed evitando anche di illudersi su soluzioni democraticiste (come quella emergente di referendum abrogativo dell'articolo 19 dello Statuto dei lavoratori) che finiscono con l'affidare all'avversario di classe la regolamentazione della struttura di lotta proletaria. Le occasioni per mettere in pratica le esperienze di questo movimento non mancheranno neanche all'immediato. Anzitutto per la prosecuzione di esso: la lotta deve continuare, senza di essa la sconfitta è sicura, e deve continuare la pressione e il controllo sul sindacato, con l'obiettivo di giungere ad un ritiro della manovra e senza farsi prendere dall'urgenza di indicare chi altro debba pagare al posto degli operai: paghino i padroni!
Ma non mancheranno neanche nuove occasioni di attacchi generali in cui mettere a frutto l'esperienza acquisita per partire da un livello più alto. Ma, sarà anche nelle altre questioni, come i probabilissimi attacchi all'occupazione che giungeranno di qui a poco, in cui andranno travasati gli stessi insegnamenti: non più risposta fabbrica per fabbrica, non più frammentazione locale o settoriale, ma lotta generale, diretta da un'organizzazione centralizzata, cui dettare gli obiettivi e da controllare tramite il protagonismo di massa, fino a che questo protagonismo non diventi esso stesso organizzazione e direzione.
Non più semplicemente una lotta nazione per nazione ma un fronte unitario internazionale del proletariato, in campo anche in altri paesi contro lo stesso attacco capitalistico.