Lubiana - Varsavia - Mosca... |
E' durata poco l'illusione dei borghesi che la "fine del socialismo" ad est potesse determinare la fine della lotta di classe. Ovunque il proletariato di quei paesi "liberati" dal capitalismo sta riorganizzandosi. Attraverso quali travagli, quali passaggi? Questo è (pianto i marxisti debbono saper leggere e interpretare per cogliere il senso di marcia del movimento attuale e tesserne i fili in direzione della ricomposizione internazionale del proletariato. Per la rivoluzione, per il socialismo.
Il 18 marzo scorso si è attuato in Slovenia un primo sciopero generale "di avvertimento". Si tratta di un primo momento di svolta nel rapporto tra le classi in questo paese, destinato a segnare non solo i passi futuri del proletariato di questo paese, ma ad influenzare il movimento delle regioni vicine. Un momento, aggiungiamo, sulla strada della ricomposizione dell'insieme dell'esercito internazionale del proletariato.
Un'analisi attenta di questo episodio ci sembra importante per comprendere da dove materialmente (tanto da un punto di vista oggettivo quanto da quello soggettivo) ricomincia il nostro cammino nei paesi del l'Est, in condizioni e con caratteristiche tuttora distanti da quelle dei paesi occidentali, ma altrettanto inequivocabilmente nella direzione deterministicamente segnata di una ricongiunzione in avanti di queste due frazioni (i famosi "pulcini spaiati" di cui Lenin) del proletariato internazionale. Ogni semplificazione, ogni schematismo parolaio, ogni forma di impressionismo immediatista ci porterebbero fuori strada e ci renderebbero impotenti a svolgere i nostri compiti in relazione a questo obiettivo finale.
Cominciamo con gli antefatti.
La bandiera dell'"indipendenza nazionale" (statuale) slovena aveva trovato eco, va riconosciuto, anche nella locale classe operaia. Se mai si è dato il caso di una mobilitazione nazionalista e sciovinista da parte della classe operaia slovena (a differenza di quanto verificatosi per certi settori di quella croata), è anche vero che essa aveva pazientemente, e fors'anche fiduciosamente, accettata l'idea di una Slovenia "libera e sovrana", fosse pur anche da conseguire attraverso una soluzione consensuale anziché militare (o pseudo-militare), e ne aveva delegato l'attuazione alle forze politiche (prima delle quali, non a caso, l'ex-Lega locale di Kucan, con la sua accorta mescolanza di demagogia nazionalista e demagogia operaista). Recidendo i legami con gli altri stati della Jugoslavia ci avvicineremo all'Occidente, era la promessa. E i proletari sloveni, interessati ad allinearsi all'Occidente quanto alle proprie condizioni di vita, ci hanno creduto c sono stati ad aspettare
Come mai? Le ragioni sono presto dette. La prima di esse sta nell'oggettiva posizione occupata dalla Slovenia nell'ambito del mercato comune (combinato e diseguale al suo interno) jugoslavo. Grazie ad essa, il paese aveva assunto a passi sempre più accelerati (in particolare all'indomani della super decentralistica costituzione del '74) un ruolo anomalo di regione relativamente iper-sviluppata, ed era facile ai demagoghi "dimostrare" che, sganciando questa locomotiva dal resto del convogliojugoslavo liberandola dai gravosi oneri" pagati al centro belgradese, si sarebbero fatti ulteriori miracoli, con una provvidenziale ricaduta di "briciole" anche per la classe operaia locale. D'altra parte, la vicinanza ed i contatti con Italia ed Austria, interessatissime allo sganciamento, faceva intravedere come obiettivo a portata di mano l'allineamento agli standard di questi paesi, tanto più considerando la dichiarata "disponibilità" dell'Occidente ad "aiutare" la Slovenia a realizzarlo.
Orbene, nessuna forza sindacale e politica spiegava come equalmente l'essor sloveno fosse spiegabile proprio ed esclusivamente in quanto settore di punta di un mercato "combinato e diseguale " interno (oltretutto protetto da talune provvide misure difensive nei confronti della concorrenza estera). Il messaggio era esattamente l'opposto, proprio a partire dall'ex-Lega: i "nostri" indici economici mostrano che possiamo e dobbiamo, utilmente per "tutte" le classi, liberarci dai meccanismi centralistici di" spoliazione" di Belgrado che ci rapinano di "buona parte" dei "nostri profitti". (E, contestualmente, la replica che veniva da Belgrado non pareva accettabile, basata com'era su speculari controdeduzioni in chiave puramente nazionalista o di uno "Jugoslavismo" di pura facciata, senza connotato alcuno di classe).
Ed ancora: il sindacato ufficiale sloveno legato alla Lega prima del l'indipendenza cominciava ad aprirsi - entro determinati limiti - al rivendicazionismo operaio, se ne assumeva la rappresentanza attiva (talora facendosi persino promotore di talune richieste normative e salariali particolarmente sentite dalla massa), legando tale ritrovato attivismo operaio aduna prospettiva nazionalistica ("tanto più potremo fare da soli, tanto più avremo anche noi operai qualcosa da guadagnare"). Data la rottura di continuità di un'organizzazione politica e sindacale marxisticamente orientata, era scontato che simili sirene potessero giocare indisturbate il loro ruolo.
Di qui il ridursi dei settori più avanzati del proletariato ad appoggiarsi alla versione "più a sinistra" del quadro politico sloveno che intanto andava "democraticamente" ridefinendosi (e di cui solo in seguito si farà la dura esperienza). L'aspettativa delegata all'ex-Lega e relativo sindacato era: si vada pure avanti verso una "buona" indipendenza dalla Slovenia, si proceda ad una "buona" ristrutturazione privatistica dell'economia che ci porti in tasca qualcosa di più, e siano intanto preservate e potenziate le misure sociali lasciateci dal regime precedente. Illusioni micidiali, possiamo ben dirlo, ma entro le quali i settori più avanzati del proletariato già operavano una prima confusa distinzione tra sé e le altre classi (pur in una fase in cui non s'erano potuti saggiarne i robusti appetiti antiproletari). E, sotto questo aspetto, è indicativo il fatto che in Istria - regione in cui il proletariato è più compatto e ricco di tradizioni - si siano mantenute amministrazioni "rosse", a differenza che altrove (a cominciare dalla burocratica e terziarizzata Lubiana).
La delusione doveva essere ben presto cocente. All'indipendenza di fatto, conseguita già prima della commedia militare della scorsa estate, si è subito accompagnato un duro giro di vite ai danni dei lavoratori salariati. Le espropriazioni dei diritti autogestionari (per ristretti e formali che essi fossero già diventati nel tempo) non veniva compensata da alcuna contromisura "sociale", al contrario! Nel frattempo, la rottura del mercato interno jugoslavo evidenziava immediatamente la fragilità delle pretese capacità competitive rispetto all'Occidente dell'apparato produttivo sloveno. Di qui l'inizio, dapprima strisciante e poi a ritmi accelerati, di una disoccupazione prima ignota e la caduta senza freni dei salari reali (basti un solo dato: al 1° gennaio 1991 il "reddito" medio dei lavoratori dipendenti sloveni era valutato a 595 marchi mensili; un anno dopo, esso era sceso a 395! Fate pure un po' di conti ).
Tanto basta a spiegare come, nonostante l'infausto ingresso della "democrazia" politica in campo sindacale con la costituzione di organismi sindacali ricattatoriamente legati al nuovo regime "post-comunista" per dividere e disciplinare la classe operaia, già alla vigilia della proclamazione dell'indipendenza una decina di migliaia di lavoratori abbia trovato la determinazione di venire a manifestare la propria protesta dinanzi alla sede del parlamento lubianese con la significativa richiesta di una "politica sociale" contrapposta alla "politica delle armi".
Si trattava di un primo chiaro segno di scollamento tra proletariato e neoregime. Nulla ancora di eversivo. E, difatti, i sindacati, più o meno liberi, potevano ancora utilizzare l'episodio per proporre minimalisticamente la stesura di un "patto sociale" governo-classe operaia. Anche a questo proposito, però, occorre non giungere a semplificazioni fuorvianti. Cosa sia in Italia il "patto sociale" lo sappiamo fin troppo bene. Il paragone con la Slovenia '91 deve essere fatto con le pinze: chiaro che per i sindacalisti si trattava di tener fermo il legame tra interessi operai ed interessi del capitale, ma la loro richiesta di "patto sociale" significava anche, nella situazione concreta, opposizione al tentativo dell'esecutivo di fissare dall'alto le regole del gioco, amministrando aumento della disoccupazione e deprezzamento dei salari senza alcun'altra regola che quella del più sfrenato liberismo. In queste condizioni, esigere un "patto sociale" significava perciò rivendicare il diritto operaio alla tutela dei propri "diritti acquisiti " ( sotto il "socialismo"), mettere un freno di liberismo anti-welfare state dei nuovi padroni. Questo, sopratutto, era quello che sentivano i lavoratori al primo stadio della propria ripresa organizzata di lotta.
La fase successiva è stata segnata dall'emergere dei primi scioperi locali o di categoria, a partire da situazioni tuttora "periferiche" rispetto al cuore centrale della classe (scuola, sanità, informazione ) mentre i pourparler governo-sindacati intorno al "patto sociale" venivano sempre più ad impantanarsi nel rifiuto del potere di addivenire ad alcuna transazione col proletariato. Lotte parzialissime, dunque, ma che suonavano la sveglia, come da noi immediatamente inteso, al passo successivo.
Ed eccoci giunti a quello sciopero generale di marzo che segna un vero e proprio salto di qualità. Con dei limiti? Certo, e saremmo degli inguaribili fanfaroni se non lo ammettessimo (e dei vuoti ultimatisti se da ciò ne derivassimo una svalutazione). E parliamo subito di questi limiti, che lasciamo al futuro di bruciare. Primo: le sole due ore di durata e la sua frammentazione organizzativa secondo orari diversi. Secondo: la reclusione degli scioperanti entro i "propri" recinti aziendali per partecipare ad assemblee sindacali con l'esclusione delle manifestazioni di piazza. Terzo (e soprattutto): la generale ritrosia a considerare gli aspetti politici connessi alla lotta in corso e l'incertezza sugli obiettivi futuri.
Detto ciò, dobbiamo però valutare sino in fondo il decisivo passo in avanti compiuto. Primo: la formulazione di rivendicazioni generali comuni per l'insieme della classe, occupati e disoccupati. I sindacati esigono che la paga garantita (per gli occupati, n.) ammonti a 17.000 talleri (250.000 lire circa, tanto per chiarirci la situazione!, n.), che venga garantita la sicurezza sociale e materiale dei lavoratori, aumenti l'occupazione e venga rilanciato lo sviluppo economico. Il prezzo del lavoro deve essere concordato tra lavoratori e datori di lavoro e non fissato (al ribasso, n.) in maniera amministrativa La paga garantita venga adeguata ogni mese al tasso di inflazione nel caso che questo superi il 10% ("La Voce del Popolo", 17marzo). A ciò si aggiunga la richiesta di un salario minimo garantito per i disoccupati. Secondo: la messa in atto del classico metodo di lotta dello sciopero per tutte le categorie, non accettando limitazioni quanto ai "servizi essenziali" ed infischiandosene - anzi, facendosi un punto di forza - dei "danni immotivati" recati all'"economia nazionale". Terzo: lo scavalcamento da parte di settori operai dei limiti fissati dai sindacati (che pure avevano a scopo "dimostrativo", organizzato dei blocchi stradali in talune situazioni), con l'estensione, qua e là, dell'agitazione all'intera giornata lavorativa e l'organizzazione spontanea di manifestazioni in piazza.
non si fermerà quiL'esito dello sciopero non era scontato in partenza. Il governo aveva dato il via ad una campagna di terrorismo psicologico contro lo sciopero. I mass-media si erano subito accodati. Il "Delo" scriveva che lo sciopero "provocherà più danni che vantaggi se verrà impiegato per costringere il Governo a dare via libera alla crescita delle paghe" (Se E per cos'altro esso si sarebbe mai potuto impiegare?). Inoltre, la Confederazione dei sindacati indipendenti (indipendenti dalla classe operaia) legata al governo si era affrettata a dissociarsi dall'agitazione. E questo spiega anche le riserve del sindacato realmente indipendente, preoccupato di saggiare l'ampiezza della risposta dei lavoratori prima di passare ad azioni più incisive.
E, invece, l'esito è stato estremamente positivo, con una partecipazione allo sciopero pressoché totale, con dei vuoti soltanto nelle aziende in pericolo di smobilitazione, dove più forte si è potuto manifestare il ricatto di capi e capelli (con minacce di licenziamento sicuro per chiunque si fosse azzardato a partecipare all'azione) e, per le stesse ragioni, nel settore privato a basso tasso occupazionale del commercio e dei servizi. Come scriveva "La Voce del Popolo" del 19 marzo, "se il blitz di avvertimento era inteso a tastare il polso ai lavoratori, allora il governo sloveno dovrebbe cominciare seriamente a preoccuparsi ". O, parafrasando Marx, se il vero risultato degli scioperi è l'unità della classe operaia, possiamo dire che un grosso risultato è stato già conseguito e ben promette per l'avvenire.
La reazione del governo, presieduto dal democristiano-austriacante Peterle (oggi dimissionario), ha mostrato due facce: da una parte esso ha minacciato misure di ritorsione "nei confronti degli scioperi che non hanno base legale, ed ha puntato il dito contro le riduzioni di corrente ed i blocchi stradali" (ib., 20 marzo) quale esempio di sovversivismo anti-democratico (ci poteva mancare?); dall'altra ha dovuto accettare la fine del blocco dei salari nominali secondo un tetto prestabilito, senza peraltro assumere alcun impegno quanto al salario minimo per i disoccupati. Nel secondo caso, la resa si combina con il tentativo di approfittare di questa stessa rivendicazione salariale per scardinare l'unità operaia lasciando la porta aperta alla concorrenza tra settore e settore, tra azienda ed azienda (e sta qui un'altra anomalia che i sindacati dovranno provvedere a correggere), essendo tuttavia costretto ad ammettere il principio secondo cui "il prezzo del lavoro deve essere concordato tra lavoratori e datori di lavoro", "liberamente" (il che non è poco se i sindacati sapranno misurare nel prosieguo in maniera non aziendale, ma collettiva). Nel primo caso, le minacce si sono subito rivelate come una bolla di sapone di fronte alla determinazione unitaria dei lavoratori.
Ne è una riprova la seguente dichiarazione di Boris Mazalin, presidente dei sindacati costieri, che rilancia la sfida: "Siamo appena agli inizi in queste forme di lotta per cui alcuni meccanismi vanno perfezionati. Mi riferisco al coordinamento ed ai mezzi impiegati in quest'ambito" (ib., 19 marzo). Sarà difficile per qualsiasi governo sloveno non tenerne conto: i lavoratori sloveni hanno imparato a maneggiare le proprie armi e ad ogni radicalizzazione repressiva corrisponderebbequasi obbligatoriamente una controradicalizzzazione di lotta, sicché ogni singolo frammento della classe colpito dalla repressione chiamerebbe a raccolta l'insieme di essa. Non per una generica "solidarietà" con "altri", ma per ragioni di difesa collettiva.
Se qualcosa può frenare provvisoriamente il movimento, questo non è il timore di ritorsioni da parte del potere, ma le incertezze quanto alla prospettiva politica più generale. Il problema della certezza del lavoro e di salari decenti è risolvibile attraverso semplici aggiustamenti amministrativi da parte di un governo di "buona volontà" o non implica, piuttosto, la messa in causa dei presupposti su cui si sta costruendo il neo-capitalismo sloveno legato (come si merita!) al carro dell'Occidente? Il rivendicazionismo immediato in Slovenia ha qualche attinenza o no con la "questione jugoslava" e, più in generale, balcanica? Al momento, certe superstizioni sono dure a morire. Gli sviluppi della guerra jugoslava, che ha raggiunto (non ultima spiaggia, purtroppo!) la Bosnia-Erzegovina, induce la massa operaia a non ripensare le ragioni del secessionismo sloveno, ma a giudicarlo in qualche modo provvidenziale (visto e considerato, oltretutto, che il passaggio all'indipendenza non si è accompagnato ad una guerra vera e propria, né all'istituzione di regimi dittatoriali e sciovinisti alla maniera di quello croato). "Ci siamo salvati a tempo dalla bufera", è il sentimento ricorrente. E quanto alle difficoltà economiche ed ai passi indietro nelle condizioni di vita, da un lato li si mette nel conto dell'"eredità" precedente, dall'altro si dice: "Dobbiamo ricominciare da zero, e questo è sempre difficile. I risultati verranno dopo". In più, il ruolo dell'Occidente nel ridimensionamento della "spettacolare" economia slovena e di chi per essa sputa sangue non è ancora pienamente visibile.
Da questo insieme di elementi di immaturità (che i fatti oggettivi s'incaricheranno in futuro di mettere in condizione di maturare, senza che mai diciamo "automaticamente"), deriva l'illusione che una qualche forma di "welfare state" possa essere assicurato da una "svolta a sinistra" nella compagine governativa. I proletari sloveni hanno esattamente individuato nella coalizione Demos la rappresentanza degli interessi borghesi più aggressivi. Dalla sinistra si aspettano ora un soffio vivificatore di "sensibilità sociale". Il nesso di fondo tra destra e sinistra, al di là delle indubbie ed ovvie differenze di atteggiamento quanto alla gestione di certi margini nella redistribuzione degli oneri, sfugge tuttora ad essi. Le "scintille di coscienza" politica tardano a sprigionarsi. E tuttavia quel che è fondamentale è che nella lotta contro il governo di destra il proletariato sloveno abbia saputo gettare sul piatto la propria forza indipendente ed affermare la propria incompatibilità con un dato sistema di sfruttamento. Questo è gia un risultato, che non andrà perso ora che ai Peterle sono succeduti i rappresentanti "di sinistra" del capitale. E' essenziale, intanto, che al cambio della direzione politica i proletari abbiano dato il loro contributo non accodandosi da "cittadini" ed "elettori" alle manovre parlamentari, ma da combattenti sul fronte di classe. (E chissà che una prossima volta essi non debbano imporre al proprio sindacato la lotta, di fronte alle prove offerte da un governo di sinistra, anziché esservi chiamato!).
Ad indicare lo spostamento di umori tra i lavoratori e l'affiorare di primi elementi di raccordo tra rivendicazionismo e programma, ricordiamo un manifesto della SDP, apparso a pagamento sul "Delo" del 17 marzo. In esso, dopo anni di sbornia liberistica condita da inconsistenti promesse per gli operai, si torna a parlare di "diritto all'autogestione".
Attenzione. Non si riesuma qui il mito titoista della "proprietà sociale". Le leggi di mercato sono apertamente riconosciute e considerate, anzi, alla base di ogni possibile sviluppo. L'orizzonte del capitalismo è, quindi, eternizzato. Quello che si chiede è che a partecipare alla gestione capitalista delle imprese sia il proletariato stesso, da legittimo proprietario di esse, in quanto è esso che le ha costruite. Di qui il richiamo all'"azionariato operaio" a titolo gratuito o semi-gratuito (semplice "risarcimento" del lavoro svolto!).
Questo ideale di un proletariato in funzione di capitalista collettivo è destinato a bruciarsi prima ancora di potersi concretamente esprimere. Le leggi del l'accumulazione non permettono uno sparpagliamento del capitale in mille rivoli. Esigono, al contrario, massime concentrazione e centralizzione e, come si è visto, ciò significa che a tanto non basteranno neppure gli sforzi più sagaci e tenaci della classe capitalistica slovena, dovendo venire "in soccorso" le annate capitalistiche dell'Occidente. Ciò significa che la via è chiusa ad un capitalismo nazionale indipendente; tanto più lo è di fronte ad un autogestionarismo nazionale indipendente.
Quello che di positivo si può ricavare dal manifesto in questione è la coscienza che si fa strada tra i proletari di venir crescentemente espropriati e di dover reagire a ciò. La lotta in merito a ciò verrà decisa non sul terreno delle rivendicazioni proprietarie, ma su quello dei rapporti di forza tra le due categorie antagoniste lavoro salariato-capitale.
In questo senso possiamo anche ritenere positivamente interessante il richiamo al "diritto all'autogestione" che non è un programma praticabile (e tanto meno "operaio"), ma che, riflettendo e stimolando trai lavoratori la coscienza dell'espropri azione che stanno subendo, pone l'esigenza e la possibilità di un programma di classe degno di questo nome: espropriazione degli espropriatori (padroni locali e padroni d'Occidente, e, all'altro capo: proletari sloveni con i proletari degli altri paesi).
Il contagio è generaleSu questo stesso tema è interessante una notazione di K.S.Karol ("Il Manifesto", 27 febbraio) dalla Polonia:
"Quando nacque nel 1980, Solidarnosc aspirava all'autogestione delle imprese. Dieci anni dopo, questa ambizione non è nemmeno menzionata nel programma del suo governo. Sembra però che essa sopravviva nella memoria collettiva degli operai, che in questa o quella azienda non si contentano più di un ruolo puramente formale nei comitati di impresa, licenziano il direttore e ne esigono l'assunzione per concorso", anche se "sarebbe esagerato parlare di una nuova forma di democrazia industriale".
Lasciamo da pane le chiacchiere sulla "democrazia industriale" propria di certa sinistra intenta a recuperare dalla destra l'insegna "non tutti proletari, ma tutti proprietari ". Questa volontà di pesare, di decidere, da parte del proletariato va letta piuttosto come il segno di dispiegata presenza in forze del fronte proletario internazionale, dimostra che si fanno più ravvicinati i tempi tra rivendicazionismo immediato e la rivendicazione politica di tutto il potere nelle mani dei lavoratori. Questo voleva dire l'Internazionale Comunista con l'affermazione che ci siamo definitivamente lasciata dietro l'epoca delle riforme e s'è aperta quella della rivoluzione.
Persino nella difficile situazione croata, e forse non senza rapporti con la prima spallata slovena, si manifestano orientamenti analoghi.
Qui la situazione, per i proletari, è peggiore che mai. I "redditi" mensili (quando il lavoro c'è e viene regolarmente retribuito, come non avviene per una buona parte dei casi) si aggirano sulle 100.000 lire, quanto basta per il pane, il latte e ben poco altro a contorno. In più, qui le agitazioni sindacali sono formalmente inibite in nome di un onnipresente "stato di guerra". Il sindacato di regime, in forza dei poteri di rappresentatività ad esso concessi per legge e, ove non basti, di un'opera di "convincimento" di tipo mafioso, spadroneggia indisturbato. Di partiti di opposizione che osino rivendicare le libertà sindacali nei fatti, ponendosi apertamente contro la legge, non ce ne sono. Eppure, nonostante tutto ciò, una protesta organizzata comincia a farsi sentire.
Sui muri delle grandi città operaie sono di recente apparse delle scritte del tipo: "Indipendenti, ma affamati", che bene esprimono il grado di affezione delle masse lavoratrici verso il regime (del quale inizialmente si erano pure accettati i furori nazionalistico-sciovinisti anche da parte di fette di proletariato colpite dalla crisi e portate scaricarne gli effetti più sul "concorrente" di altra schiatta che contro il "proprio" sistema di potere borghese). Ma, quel che più importa, è che, pur provvisoriamente costretta in una situazione di semi-immobilità, una Unione dei sindacati autonomi è riuscita a prendere corpo e ad esprimersi tra le poche maglie "legali" lasciate aperte dal regime.
Per il momento, la testimonianza più efficace della sua presenza si è avuta tramite la raccolta di firme a petizioni, tanto entro le aziende che nelle piazze, da inviare al governo. Nonostante tutte le contrarie pressioni, si calcola che a Pola, solo per fare un esempio, il 60% dei lavoratori abbia aderito a questa forma di protesta, incontrando la simpatia e l'appoggio di altri strati di popolazione colpiti dalla crisi (e in ciò noi vediamo il preannuzio positivo della possibilità da parte del proletariato di non rimanere isolato, ma di mettersi alla testa di un più vasto movimento "popolare" a direzione classista).
Se ancora a questo soltanto può limitarsi la risposta operaia, è chiaro che essa vale non nella sua dichiarata intenzione di voler "dialogare" col governo, ma in quanto tessitura dei fili necessari per poter, al momento opportuno, scendere direttamente in campo. E quando ciò potrà darsi, una piattaforma di partenza sarà già pronta allo scopo. Quello che nel movimento sloveno è apparso solo in abbozzo, qui è detto in maniera "paradossalmente" molto più esplicita. Il Sindacato autonomo contesta in fatti che la trasformazione delle aziende sociali viene portata avanti senza coinvolgerei diretti interessati, quindi i lavoratori. La maggior parte si trasformano in statali (consegnati cioè nelle mani di una improvvisata ed iperfamelica "borghesia di stato", n.) e quelle che diventano proprietà privata vengono svendute a basso costo (vuoi a settori borghesi privati prosperanti all'ombra nello stato, vuoi del capitale straniero, di cui, più che in Slovenia, si avverte qui l'ingombrante presenza, n.). E' vero che a norma di legge parte delle azioni vengono offerte scontate ai lavoratori, ma la nostra realtà è tale che a questi non resta che scegliere se acquistare il pane o le azioni! In base ad alcuni calcoli, i lavoratori potrebbero acquistare appena il 2% delle azioni. Il Sindacato autonomo si pone quindi una logica domanda: perché comperare quello che è già nostro? ( ) I beni appartengono ai lavoratori ed a questi ultimi dovrebbero venir ripartite gratuitamente le azioni".
Ancora una volta: ovvio per noi che nulla di quanto creato dal lavoro operaio appartiene agli operai stessi se non si scioglie la questione del potere politico e della rivoluzione sociale. Ma altrettanto chiaro che il rivendicare come nostro quanto da noi creato prelude ad uno scontro antagonista di ampia e decisiva portata. Gli spazi di mediazione tra le classi si vanno progressivamente bruciando non perché ne sorga prima la coscienza, ma perché una coscienza di classe, per difficile che ne sia la gestazione, dovrà porsi a questo livello reale, connesso alla struttura del meccanismo di sfruttamento e di domino capitalistici. Perla stessa ragione è sicuro che, quando lotta aperta ci sarà, essa non potrà limitarsi entro la cornice croata, esattamente perché questa cornice di fatto non comprende più il quadro reale dell'economia "croata". Battersi contro Tudjman e la sua banda, o chiunque ne rilevi il posto, significherà di per sé battersi contro la presenza dominante del capitale occidentale (tanto economicamente che politicamente). Più che mai l'esigenza internazionalistica torna a bussare insistente...
Se allarghiamo la nostra visuale all'ex-URSS possiamo sin d'ora vedere in atto le stesse tendenze di fondo, pur nella estrema complicazione di situazioni legata ad uno spappolarsi della Federazione di cui siamo bel lungi dall'intravedere la fine.
Dall'insieme dell'Est viene fuori questo quadro unitario, di cui qui abbiamo inteso cogliere la logica di fondo e la dinamica (tuttora ai suoi primi assaggi) che ne consegue. Su questi fattori deve basarsi l'impegno militante dei marxisti. I rivoli della lotta di classe, nei vari paesi, ed in particolare tra Est ed Occidente, sembrano scorrere separati, ma il loro distinto senso di marcia conclude alla loro riunificazione in un'unica fiumana lavica. E non basteranno tutti gli artifici borghesi (i peggiori tra i quali sono quelli di certa sinistra prospettante "aiuti" e "rispetto dell'indipendenza" per l'Est) a preservare la Zafferana capitalista dall'inondazione.