Maghreb, Medio Oriente e oltre

LA "MAREA ISLAMICA" TORNA A SALIRE,
E CHIAMA ALLA SOLIDARIETA'ED ALL'AZIONE
IL PROLETARIATO DELL'OCCIDENTE

Indice


All'indomani della liberazione" del Kuwait, questo giornale scriveva: "La guerra del Golfo ha reso più fondo il solco tanto tra l'imperialismo e l'esercito dei supersfruttati dall'imperialismo, quanto quello tra le classi sfruttatrici e le masse lavoratrici arabe" e dell'intero mondo islamico. E proprio per questa ragione, aggiungevamo, essa sarebbe stata "madre di grandi sconvolgimenti rivoluzionari", anche in considerazione del fatto che l'aggressione dell'Occidente alle masse oppresse di quell'immensa regione era soltanto agli inizi.

Ad appena un anno di distanza, la realtà del Maghreb, del Medio Oriente e dell'ex-URSS già offre molteplici elementi di conferma della nostra previsione. Ne facciamo qui una rapida carrellata, partendo dagli ultimi avvenimenti algerini, tra tutti i più significativi e densi di conseguenze. Ed anche i più mal compresi "a sinistra", tant'è che li si legge come un arretramento ed una sconfitta del movimento di classe, mentre non è così. Quel che muore con l'FLN, infatti, non è la rivoluzione algerina (e tanto meno la rivoluzione anti-imperialista), ma soltanto le sue illusioni ed i suoi fronzoli.

In Algeria

In Algeria lo strombazzatissimo passaggio alla democrazia si è concluso, al suo primo atto, con l'instaurazione della legge marziale. Essendo uscito dalle sovrane urne un vincitore ad essi sgradito (il FIS), i superdemocratici padrini delle "libere elezioni" hanno deliberato, senza esitazioni di sorta, di schierare i carri armati. Centinaia di morti, decine di migliaia di arresti, campi di concentramento nel deserto. Naufraga così, nella repressione di massa, il regime borghese dell'FLN nato dalla rivoluzione anticoloniale del 1962. E si infrange con esso l'ambizioso tentativo imperialista di esportare in Nord Africa il sistema democratico di oppressione degli sfruttati, che si riconferma sempre più un "privilegio" esclusivo dei paesi dominanti.

Questa linea di deriva del nazionalismo algerino era inscritta nella sua natura di classe, oltre che -evidentemente- in un ciclo storico sfavorevole allo sviluppo della rivoluzione proletaria[1].

Checché se ne disse e se ne dica, a destra e a manca, la rivoluzione algerina non fu, sotto nessun aspetto, una rivoluzione socialista, anti-capitalista.

Non lo fu sul piano politico perché, nonostante la vuota demagogia del Ben Bella prima maniera intorno alla "dittatura dei poveri, dei fellah e degli operai ", l'FLN si guardò bene dal promuovere la formazione di soviet di operai, di proletari agricoli, di contadini poveri e di soldati (senza dei quali soviet la dittatura degli sfruttati è pura chiacchiera), adoperandosi anzi in campo economico, amministrativo e militare per frenare la mobilitazione delle classi sfruttate e metterla sotto il controllo del nuovo stato borghese.

E lo fu ancor meno sul piano economico-sociale, poiché non soltanto non intraprese (non poteva intraprendere) la soppressione dei rapporti sociali capitalistici, ma neppure fu in grado di pianificare la costruzione di un "capitalismo nazionale" realmente riscattato dal retaggio coloniale.

La rivoluzione algerina è stata, invece, una rivoluzione popolare, democratico-borghese, "essenzialmente politica", che si è mantenuta programmaticamente nei confini del capitalismo e che anche in tale ambito non ha proceduto in modo radicale, dando vita perciò ad una economia nazionale fortemente dipendente, nei fatti, dal mercato mondiale e dal capitale finanziario che lo domina.

Invece del paese prospero e geloso della propria indipendenza il cui "capitalismo popolare gioverà a tutti" promesso dall'FLN, l'Algeria si ritrova ad essere oggi un paese ferocemente polarizzato che, sebbene formalmente indipendente, è in realtà alla mercé dei suoi strozzini dell'Occidente.

A questo è dovuto il crollo di legittimità e di prestigio dell'FLN. Un crollo che ha travolto pure quelle finte opposizioni borghesi (il Fronte delle forze socialiste di Ait Ahmed, il Partito socialdemocratico e simili) o vagamente "operaio"-borghesi (quale il Partito dell'avanguardia socialista), che da sempre parassitano ("criticamente"…) da sottopancia del regime. Anzi sono state proprio queste forze, ormai prone agli ukase del FMI ed ai supremi interessi dell'Occidente imperialista, ad assumersi il compito di spianare la strada, con la mobilitazione di massa delle classi medie più acculturate, ad una introduzione della legge marziale fatta in nome della "difesa della democrazia".

Ma per le grandi masse degli sfruttati e dei diseredati d'Algeria accettare la completa ricaduta del loro paese sotto la signoria piena ed incondizionata del capitale imperialista significherebbe piegarsi ad una schiavitù senza limiti. Così per esse la disfatta dell'FLN non poteva comportare la fine della lotta, e la prosecuzione della lotta non poteva darsi che intorno ad una nuova forza che sembrasse disponibile a tanto.

Ma perché mai il FIS?, strepitano gli esperti del "L'Unità" e delle pubblicazioni sindacali. Il FIS è integralista ed oscurantista. Il FIS è fascismo islamico, ammonisce la Rossanda, e non si accorge (o non si preoccupa) di ripetere, alla lettera, un editoriale di "Le Figaro" (un quotidiano non troppo comunista…). E sulle tracce di cotali maestri i redattori di "Futuro", che dio solo sa perché si richiamino a quel marxismo di cui tutto ignorano, vanno piagnucolando sulla "involuzione sociale" dell'Algeria (è questo il nome che danno al processo di polarizzazione sociale momentaneamente tinto di islamismo).

Perché mai il FIS? Perché, o bravissima gente che simpatizzate per la legge marziale, con una "sinistra" algerina a tal punto disonorata; con una "sinistra" europea che non le è stata da meno nel fare blocco con il proprio imperialismo contro la "barbarie islamica"; con un proletariato metropolitano che purtroppo non è ancora in grado di porsi quale punto di riferimento degli sfruttati di colore; agli occhi delle masse diseredate, il FIS è apparso ed appare come il solo partito che denunzi l'impoverimento di gran parte della popolazione, lo smisurato arricchimento della classe dominante, l'assoggettamento del paese all'imperialismo; il solo che proponga in qualche modo un rovesciamento delle diseguaglianze attuali (è questo il senso concreto del richiamo alla umma ed al suo "egualitarismo"); il solo intenzionato a battersi contro il sottosviluppo e la tremenda miseria dello "stato di cose presenti"; il solo capace di mettere in campo, con il suo appello all'unità dell'intero Islam, un contro-schieramento all'altezza di quello dell'imperialismo unitario".

Contrariamente a quel che credono o affettano di credere i loro critici "di sinistra" delle metropoli, stringendosi intorno alla bandiera dell'Islam, queste masse fanno, attraverso una simbologia ed un linguaggio mutuati dalla tradizione religiosa, una opzione che ha un contenuto squisitamente sociopolitico. Chiedono, in realtà, una più decisa lotta all'imperialismo ed all'oligarchia borghese dominante. E compiono con ciò, materialmente, non un salto all'indietro, bensì un passo in avanti rispetto alla loro precedente condizione politica. Dimostrano di avere compreso, dalla esperienza, quale è l'effettiva natura di classe delle "alternative" reazionarie che voi, illuminatissimi laico-socialisti, liberi dalle superstizioni religiose (forse) ma fanaticamente imbevuti della fradicia religione capitalistica della democrazia e della civiltà dell'Occidente, pretendereste di propinare loro.

I fatti, del resto, parlano da soli. Il seguito del FIS è esploso soltanto dopo la grande rivolta dell'ottobre 1988, innescata da forti scioperi operai, eventi entrambi (nevvero?) non esattamente mistici, involutivi o oscurantisti. La stragrande maggioranza dei suoi aderenti viene dagli strati sociali più impoveriti, ed è composta non di anziani capi-villaggio tradizionalisti, bensì di giovani o giovanissimi delle città. E c'è da tener conto, poi, che questa marea ha, in certa misura, cambiato la stessa fisionomia del FIS pre-1988. Alla primitiva impostazione di predicazione più astratta, "culturale" e pro-wahabita, questa pressione sociale ha sovrapposto una vena dai tratti esplicitamente politici e "giacobini". E così quanto dentro che, in modo minoritario, fuori del FIS, sono venute prendendo piede tendenze di marcata matrice plebea (quella di Ali Belhadj, l'Hezbollah, Hamas, etc.), ragion per cui, a rigore, si deve parlare, in Algeria come altrove, di due Islam, connotati assai diversamente tra loro sul piano sociale e su quello politico. Senza dubbio queste masse si illudono, e atrocemente, sulle potenzialità rivoluzionarie dell'islamismo. Ma se quella lotta che essi reclamano si farà, se i proletariato della metropoli ed un'avanguardia comunista degna del nome che porta verranno in loro soccorso, esse sapranno regolare i loro conti anche con la demagogia islamica, così come hanno saputo fare con quella dell'FLN. Non potrà impedirlo in alcun modo la invocazione della "comune" fede religiosa.

Come si conviene a qualsiasi altro movimento politico, a decidere delle fortune del FIS e della sua presa sugli sfruttati sarà il corso della lotta di classe, nazionalmente ed internazionalmente. E'evidente, tanto per dire, che la sua coerenza anti-regime ed anti-imperialista ed il suo "essere dalla parte degli oppressi" sono già stati messi alla prova nella gestione delle amministrazioni locali e, sopratutto, in occasione della guerra del Golfo, nella crisi del maggio-luglio 1991 ed ora con il regime militare.

E ci sembra che davanti alle masse che hanno riposto in esso la loro fiducia, il Fronte islamico non esca indenne. Le sue incertezze iniziali e la sua inconseguenza nel prendere partito a fianco del popolo iracheno; la mancanza di decisione nel mettere alle strette il doppiogiochismo dell'FLN; l'incapacità di affrontare in modo vincente la crisi del '91; i successivi improvvisi zig-zag tra il boicottaggio delle elezioni e l'elettoralismo più acritico; l'estrema esposizione ai colpi della repressione statale ed il non aver saputo, finora, dare una risposta efficace ad essa, né dentro ne fuori l'Algeria; le inequivoche rassicurazioni date da Abassi Madani all'Occidente: "noi apriremo le nostre frontiere ai vostri investitori; noi giocheremo il gioco del liberalismo"; tutto ciò ha sicuramente lasciato, in qualche modo, il segno. Fino a qual punto, lo si potrà valutare a pieno soltanto in seguito.

Al momento, però, fa premio su tutto (ed è ben comprensibile che sia così) l'ostracismo che la grande borghesia algerina ha decretato al FIS, un ostracismo che gli conferisce la qualifica di sola opposizione di massa al regime militare.

E l'identico effetto ha, pure, l'azione dell'imperialismo sull'Algeria.

Tramite la leva del credito, il FMI, la Banca mondiale e quattro stati imperialisti (Italia, Francia, Stati Uniti e Germania) hanno in pugno questo paese. I1 debito estero dell'Algeria è immane (oltre 22 miliardi di dollari), sopratutto se rapportato al crescente onere degli interessi (dovuto anche alla sua particolare composizione, molto sbilanciata sul credito a breve) ed al decrescente valore dell'export algerino (basti dire che nell' 89 a coprire il servizio del debito andò ben il 75% del valore delle esportazioni). Per questa via, Credit Lyonnais e Banque Nationale de Paris, Banca d'Italia e Sace, Eni e Fiat, ed i loro omologhi yankee e teutonici torchiano a sangue i lavoratori algerini ed impongono all'Algeria, in nome della "cooperazione allo sviluppo", politiche di snazionalizzazione, di liberalizzazione, di abbattimento delle barriere doganali, di saccheggio delle risorse energetiche e di affamamento della popolazione.

Ebbene: dei principali partiti borghesi, nessuno obietta alcunché a tale brigantaggio. Come pappagalli ammaestrati ripetono tutti, insieme a Boudiaf: "Processo democratico ed investimenti stranieri, ecco la via per portare l'Algeria fuori dalla crisi". Soltanto il FIS (e con esso, in qualche modo, l'ala minoritaria ed emarginata dell'FLN legata al sindacato UGTA) protesta, seppur ambiguamente, contro questi meccanismi, salvo -si sa- non avere né un'effettiva volontà, né il programma, né il corrispondente organico piano di lotta per spezzarli.

Si capisce, perciò, perché i governi imperialisti abbiano dato disco verde all'annullamento delle elezioni ed alla violenta soppressione del FIS. Per la cupola della finanza internazionale, la moderazione ed il fondamentale costituzionalismo di buona parte della dirigenza del Fronte non costituiscono una sufficiente garanzia di mantenimento in loco del "nuovo ordine mondiale". Non sono i capi del FIS a fare paura ai circoli imperialisti. Quello che essi temono sono le aspettative e la brama di riscatto della massa degli sfruttati islamici, e le grandi ripercussioni che l'instaurazione in Algeria di un nuovo regime "anti-imperialista" avrebbe in tutta la regione e in Occidente.

"L'Italia ha scommesso sulla perestrojka algerina", ha detto De Michelis. Ci ha scommesso la bella somma di 7,5 miliardi di dollari. L'Italia, poi, importa da Algeri il 40% del proprio consumo di gas. Non è il caso di correre rischi. "Se _ragioniamo in base agli interessi (ed in base a cos'altro può ragionare la borghesia, se non al profitto? -n.), non possono esserci dubbi. Dobbiamo stare col carro armato, il solo che può garantirci le forniture di metano, il mercato aperto alle nostre esportazioni, gli appalti (con relative bustarelle) di lavori pubblici, eccetera" e dobbiamo altresì, "noi" borghesia imperialista, bandire la parola democrazia dai nostri discorsi e più ancora dai nostri programmi" per l'Algeria e dintorni (così Indro Montanelli su "Il Giornale" del 14 gennaio).

E' in questa verità, "noi" democratici d'occidente dobbiamo stare con il carro armato che schiaccia i diseredati arabi, la grande lezione degli ultimi avvenimenti algerini. Basta dunque con l'ipocrita retorica circa le buone intenzioni e la capacità dell'imperialismo di esportare a Sud (da Lima ad Algeri) la democrazia ed indi poi, suo tramite, il benessere metropolitani. Il mondo arabo-islamico (il mondo tutto!) è diventato a tal grado una polveriera, che non soltanto le insurrezioni, le Intifade, gli scioperi, ma finanche un risultato elettorale sgradito è in grado di far scattare la reazione militare delle potenze imperialiste.

Come spiegarsi, allora, che la risposta di massa al regime marzial-occidentale è stata sinora, per quel che se te sa, piuttosto modesta e poco organizzata?

Anzitutto, col fatto che nessuna condanna del golpe algerino è venuta dal movimento proletario della metropoli, bensì -piuttosto- tacita approvazione o dichiarato sostegno ad esso da parte lei rappresentanti ufficiali del movimento operaio.

In secondo luogo la risposta di massa è stata disorientata e indebolita dalle divisioni interne al FIS e dalla sua incapacità a tracciare una decisa linea di battaglia contro i golpisti. L'ala destra lei FIS ha addirittura profittato dell'attacco subìto dal regime per scagliarsi contro l'estremismo" e l'avventurismo" delle tendenze islamiche più radicali, mentre l'intera struttura portante del Fronte ha esitato ed esita a scatenare un movimento insurrezionale che dubita di poter controllare a pieno.

Infine, ha pesato in negativo anche l'atteggiamento tenuto dalla classe operaia algerina che, tanto in Algeria quanto in Europa, è stato un atteggiamento di sostanziale neutralità tra le due parti in lotta.

E'una collocazione che è destinata, crediamo, a cedere il passo a non lunga scadenza alla partecipazione alla lotta anti-regime. Il proletariato industriale di Algeria ha per un certo tratto proceduto di concerto con la tecnocrazia e la borghesia di stato nel dare impulso al processo di industrializzazione, venendone ripagato con una condizione relativamente "privilegiata" (specie nel settore petrolifero) e con qualche formale potere di controllo sulla vita aziendale. La speranza di fondo che questa collaborazione nutriva era quella dì uno sviluppo senza limiti e, per mezzo di esso, di un progressivo avvicinamento all'Europa. Ma a partire dal 1977, e, sopratutto dal Congresso straordinario dell'FLN del 1980 che sancì l'Intifadah, l'apertura all'Occidente a suon di riforme liberalizzanti, si è messa in moto una dinamica di divaricazione tra dell'industria che è divenuta manifesta con gli scioperi (non soltanto salariali) del 1988 e del 1991.

I recenti avvenimenti hanno approfondito tale divaricazione, se è vero che l'appello lanciato dal segretario dell'UGTA, Abdelhak Benhammouda, a mobilitarsi fianco a fianco di industriali e governo per salvare l'Algeria dal "pericolo islamico", "non è stato affatto seguito" dalla base operaia di questo che rimane il primo sindacato operaio in Algeria (vedi "Jeune Afrique", n. 1624 del 20-26 febbraio'92).

Pur rimanendo (giustamente!) diffidente verso il populismo islamico, la classe operaia algerina sta prendendo sempre più le distanze dal vecchio alleato di ieri. Avviene, per converso, un oggettivo avvicinamento tra essa e le masse dei diseredati.Non è ancora la fusione, e neppure l'unità tra questi due settori dell'esercito degli sfruttati. Ma il pugno di ferro dei militari e le ricette sociali filo-imperialiste di cui questi sono il braccio esecutivo, metteranno armi eccellenti nelle mani di quanti lavorano coscientemente a questa unità. Le armi da cui e con cui il regime marziale sarà rovesciato e il movimento islamico svuotato.

…e un po' ovunque

La duplice polarizzazione che abbiamo visto procedere in Algeria, marcia pressoché dappertutto nel mondo arabo e in Medio Oriente.

Ne è coinvolto sempre più a fondo anche l'Egitto, paese-chiave di quest'area, finalmente avviato a scuotersi dal suo troppo lungo torpore, e per il cui pieno risveglio potrebbe essere determinante proprio l'aggressione di USA e soci alla Libia. Ci sono state grandi dimostrazioni di massa contro l'embargo ONU alla Libia stroncate, anche al Cairo, nel sangue. C'è da anni una forte crescita tra le masse povere sia delle città che delle campagne del radicalismo politico della Jihad, la cui influenza pare ormai superare quella del filisteismo dei Fratelli musulmani.

Perfino negli irreggimentati sindacati delle classi medie (insegnanti, etc.), si va allargando il pronunciamento "islamico", a significare che lo scontento verso la borghesia compradora e l'Occidente oppressore sono presenti ben al di là dei senza niente.

E come in Egitto, pure in Tunisia ed in Sudan, in Palestina e Libano, in Giordania ed in Turchia (dove ci sono state marce di protesta contro l'introduzione della legge marziale in Algeria), masse crescenti di sfruttati entrano in movimento. La loro radicalizzazione nella lotta si esprime per ora principalmente, anche se non esclusivamente, in movimenti di ispirazione islamica, spesso di recente formazione. E' l'islamismo radicale "dal basso", che è stato covato su grande scala dalla crisi degli anni '80 ed è stato rafforzato dalla guerra del Golfo.

Esso sta dilagando "dall'Algeria al Pakistan" nel vuoto lasciato dal collasso concomitante dell'anticolonialismo laico" e "socialista" e dell'anti-imperialismo" di osservanza ex-moscovita.

"Il movimento operaio avrebbe potuto occupare questo posto -ha osservato Salah Jaber sul n.23 di "Bandiera rossa"- se negli anni precedenti le scelte delle direzioni comuniste (e cioè: staliniste - n.) non avessero cancellato questa possibilità facendole apparire del tutto compromesse (vedi per l'appunto il caso algerino - n.) con i regimi che avevano fatto fallimento. Con l'eccezione del Marocco, in nessuno dei paesi della regione araba esiste un movimento operaio autonomo: i partiti comunisti (stalinisti - n.) sono discreditati politicamente per le posizioni assunte sulla questione nazionale e anche moralmente per la partecipazione alla corruzione che ha caratterizzato i regimi e le dittature (borghesi), che hanno sostenuto".

Ed è così. La temporanea egemonia delle organizzazioni islamiche sul semi-proletariato arabo e medio-orientale è lo scotto inevitabile che paghi amo alla politica controrivoluzionaria dei fronti e dei blocchi nazionali. In questa regione la ripresa della guerra di classe all'imperialismo passa, contraddittoriamente, di qui. Attenzione, però, non resteremo fuorigioco in eterno. Infatti, la promessa che sta al centro della "rinascita dell'Islam militante" è una promessa tutta mondana: quella della liberazione degli oppressi e della loro unità (al di là degli artificiali steccati nazionalistici) nella lotta contro gli oppressori (Islam contro Occidente). E questo è il nostro terreno, perché soltanto il proletariato, soltanto la rivoluzione socialista può portare a compimento quella promessa.

A differenza dì tanta altra sinistra, anche estremissima, la diffusione di questo genere di islamismo non costituisce per noi marxisti un incubo, per la semplice ragione che ne teniamo presenti le cause storiche ed economiche, i contenuti materiali ed il decorso obbligato. Il nazionalismo arabo ha fallito perché non è stato in grado di portare il mondo arabo fuori dalla miseria e dal sottosviluppo, perché non ha potuto e voluto andare a rimuovere la causa di fondo di quella condizione: il sistema capitalistico stesso. Su questo medesimo punto è destinato a fallire anche l'islamismo più radicale.

Per bruciare l'illusione di una unificazione del mondo arabo fatta dal nazionalismo borghese, è stato indispensabile un mezzo secolo, anche perché essa è fiorita dentro un ciclo (complessivamente) di grande espansione per il capitalismo mondiale, che ha lasciato spazio, fino ad un certo momento, a simili "sogni di gloria". Questo islamismo incorre, invece, nella disavventura di innalzare la bandiera dell'unificazione borghese addirittura dell'intero Islam in un momento di crisi del sistema capitalistico, il che lo obbliga a scontrarsi da subito con la rabbiosa controffensiva del centro imperialista.

Là dove è caduta la Lega araba o si sono disfatte la Repubblica araba unita e le altre effimere "unità" tra stati arabi (inclusa l'Unione del Maghreb arabo, che segna il passo ad appena tre anni dalla sua nascita), cadranno pure l'OCE (la Organizzazione islamica per la cooperazione economica) di cui Teheran sogna di fare "una cerniera di equilibrio (!?) economico tra Nord e Sud" o l'accordo di cooperazione tra le repubbliche musulmane dell'ex-URSS: sulla necessità, appunto, di una coerente lotta al capitalismo imperialista.

D'altronde, questo islamismo è già investito da un certo logoramento proprio dove, stando al potere da oltre un decennio, è stato costretto a scoprire di più le proprie carte. E proprio in Iran siamo ormai alle accuse più feroci tra le diverse correnti del movimento islamico. La tendenza di Mohtashemi vi accusa quella dì Rafsanjani di "avere operato un voltafaccia rispetto alla rivoluzione", di "svendere il paese all'Occidente", di "favorire il trionfale ritorno del capitalismo" e di penalizzare le masse più povere con quelle riforme che stanno smantellando il "welfare state islamico"[2]. Dispute non esattamente coraniche, come si vede. E se un Mohtashemi è in grado di dare una qualificazione sommaria, ma non errata, della "svolta" riformistica di Teheran (lasciamo stare, poi, quel che figuri del genere realmente fanno contro un tale corso), a maggior ragione saranno in grado di intenderlo quegli strati sociali sulla cui pelle deve attuarsi tale riconversione.

Anche le varie organizzazioni borghesi per l'unità dell'Islam riserveranno molte delusioni agli sfruttati. In vent'anni di esistenza la Organizzazione della Conferenza islamica ha svelato d'esser nient'altro che un'organizzazione di …conferenzieri, incapace non soltanto di unire i paesi islamici ma anche di mediare i conflitti tra di essi. E la più giovane Organizzazione internazionale dei Fratelli musulmani ha manifestato l'identica ambiguità ed impotenza davanti alla guerra del Golfo. Neppure il neonato Congresso popolare arabo-islamico con centro a Khartum o la magmatica, variegata "Internazionale" che fa capo a Teheran, che pure dalla sollevazione di massa provocata dalla guerra del Golfo hanno tratto ossigeno, sapranno far seguire alle roboanti dichiarazioni antioccidentali una conseguente battaglia né contro l'imperialismo né contro quei governi che verbalmente denunciano di essere agenti dell'imperialismo.

Come ha notato un acuto osservatore dell'Islam, in tutti questi "internazionalismi" "non è possibile vedere i fondamenti di una vera internazionale, come per esempio l'Internazionale comunista. Si tratta di un movimento internazionale piuttosto destrutturato, e molto elastico, che usa le opportunità che gli sono offerte (dalla situazione internazionale - n.), ma è privo di una grande ideologia realmente capace di unificare" le sue differenti sezioni nazionali. Si tratta, insomma, di "internazionalismo" che, per restare nella metafora, corrispondono alla strategia dell'"Islamismo in un solo paese" (o in tanti paesi "soli" ed "indipendenti", e cioè tra loro concorrenti), e non a quella della "esportazione della rivoluzione" ("Arabies", marzo'92).

Questi "internazionalismi", insomma, agitano questioni che non possono risolvere. Rinfocolano negli sfruttati islamici attese che non possono soddisfare. E' vero che al momento possono dire quel che vogliono, disponendo, per la catastrofe dello stalinismo storico, di una fantastica rendita di posizione. Ma è una rendita, questa, che incalzanti avvenimenti minacciano di usurare. Uno è già alle porte: la nuova aggressione USA-ONU alle masse libiche.

L'attacco imperialista alla Libia getta altra benzina sul fuoco

L'aggressione imperialista alla Libia è già cominciata con le sanzioni economiche ed è improbabile che si fermi a questo livello.

Perché un nuovo attacco alla Libia? Il regime di Tripoli non ha violato "confini internazionali". Non soffia sull'islamismo più radicale. Ha dato prova di crescente "moderazione" e "prudenza" proprio nella guerra del Golfo. Ha allentato i rapporti con le organizzazioni "terroristiche". Notoriamente non c'entra con Lockerbie. E' ampiamente disponibile ad una soluzione di compromesso alla stregua del "diritto internazionale" (come conferma la sua infondatissima fiducia nella "obiettività" della Corte dell'Aia). E nonostante ciò è entrato di nuovo nel mirino del Pentagono, della CIA e degli "Alti Comandi" finanziari e militari europei.

E' proprio l'assenza di pretesti ad esaltare le reali ragioni dell'attacco, che si collocano ben più in profondità dei calcoli elettorali di Bush, vanno ben oltre la Libia come singolo paese (ed il pur agognato cambio di regime) ed oltre la (pur ambita) rapina del petrolio libico.

Il fatto è che, più ancora che nell'81 e nell'86 (le date dei precedenti attacchi a Tripoli), gli stati maggiori dell'imperialismo avvertono la necessità di continuare a colpire duro nel mondo arabo per porre un freno con le armi del terrore alla insorgenza degli sfruttati, ed alla loro "barbara" pretesa di farla finita con una condizione di vita inumana. Essi sono perciò determinati i a demolire qualsiasi istituzione, struttura, "personaggio" che possano fungere, anche solo parzialmente, da sponda per tale insorgenza.

Nell'agenda dell'imperialismo la risposta alla "minaccia islamica" occupa ormai un posto prioritario. Ed è perciò non soltanto aggressione continua con mezzi "pacifici" (finanza, diplomazia, propaganda, "libero mercato", eccetera), ma guerra permanente sempre più aperta, diretta (vedi Iraq, Libia) o per interposti regimi (vedi Israele, Algeria, Turchia, etc.), a quella montante Intifadah degli sfruttati arabi, medio-orientali ed islamici sempre più difficile da contenere. Una guerra che è l'altra faccia dell'offensiva anti-proletari a nelle metropoli.

Nonostante il limitato accreditamento di Gheddafi presso le masse ,dell'Islam, nonostante il limitato peso della Libia in esso, la protervia del gangsterismo imperialista (che tra l'altro non fa mistero di preparare ulteriori missioni "anti-terroristiche" nei confronti di altri paesi islamici) si ritorcerà contro l'Occidente pluri-aggressore e le viscide borghesie e feudalità arabe sue complici.

Devono temerlo parecchio anche al Cairo, se il filo-governativo "Al Ahram è arrivato a scrivere: "L'Occidente, e soprattutto gli Stati Uniti, Gran Bretagna e Francia sono avviati a trasformare il 'nuovo ordine' in un sistema di chiara e flagrante pirateria internazionale". O a Damasco, se un Assad, sia pur con i soliti volpini accorgimenti, ha fatto in modo di esternare il proprio dissenso.

Ma non possono stare allegre neppure le diverse "internazionali" islamiche. Prima ancora che le chiamasse in causa Gheddafi con il suo appello a "serrare le fila ed affilare le spade contro i crociati dell'Occidente", sono gli avvenimenti stessi a sfidarle a passare dalle parole ai fatti.

L'attacco imperialista alla Libia getta altra benzina sul fuoco. L'incendio si estende. Anche le barbe degli ayatollah sono in pericolo.

Per gli sfruttati del Sud e del Nord una sola, e comune, è la via di uscita

E dall'Islam, dalla periferia tutta, comincia ad arrivare qui, in Germania, a Los Angeles, a Milano. Se il mondo arabo-islamico è più che mai gravido di rivoluzione sociale (e non soltanto politica), la polarizzazione di classe procede inesorabile anche qui, acuita dalla furiosa reazione di un capitalismo che, per sottrarsi alla propria crisi storica, non può far altro che scaricare sul mondo degli sfruttati, a Sud come a Nord, guerra, regimi marziali, economie di guerra (che siano democratiche o no, cosa cambia?).

Ma perché questa nuova, straordinari a vittoria teorica del catastrofismo marxista si trasformi nella decisiva vittoria pratica della distruzione del sistema capitalistico e nella instaurazione rivoluzionaria del socialismo internazionale, debbono saldarsi in un'unica spinta la sollevazione anti-imperialista della periferia ed un movimento proletario della metropoli finalmente ridestato a sé stesso.

Con questa forza dovremo strappare dalle mani del capitale la chiave di soluzione dei problemi dei paesi oppressi dal vecchio e dal nuovo colonialismo: la scienza e la tecnologia moderne, mettendole al servizio di un piano economico comune a tutto il mondo, che non sia dettato dal mercato e dal profitto, ma dai bisogni del proletariato e dell'umanità, ed in prima istanza della parte più sfruttata ed oppressa di essa.

Per quanto lontani possiamo essere da questa meta, quel che conta è lavorare in questa e per questa prospettiva. E questo significa non solo rifiutarci di fare eco, in qualsiasi modo, alla propaganda imperialista sulla "barbarie islamica"; non solo respingere ogni forma di equidistanza tra imperialismo e masse e paesi aggrediti dall'imperialismo; ma anche condannare risolutamente ("GIU' LE MANI DALLA LIBIA, DALL'ALGERIA", ecc.) ogni specie di attacco imperialista ad essi, qualsiasi firma esso porti (ONU, NATO, UEO, USA, etc.), sia condotto con mezzi "pacifici" o meno, mai dimenticando che il nostro primo e principale nemico è il nostro governo; ed insieme aiutare, sostenere incondizionatamente la lotta degli sfruttati arabo-islamici e del Terzo Mondo. Un tasto, quest'ultimo, su cui non si insisterà mai abbastanza, e su cui abbiamo espresso la nostra inequivoca posizione proprio in occasione del precedente attacco USA alla Libia, nel n. 6 del "Che fare".

Anche se i livelli di mobilitazione e di comprensione di questi problemi sono particolarmente bassi, ci pare di cogliere -non vorremmo peccare di ottimismo- un po' più di sensibilità di qualche tempo fa (per es. in Rifondazione), se non altro sul caso Libia. Se così è, bene. Ma che non la si soffochi sul nascere con la petizione di un altro e diverso diritto internazionale, di una ONU che sia "veramente" dei popoli, di una cooperazione allo sviluppo "veramente disinteressata" tra imperialismo e paesi oppressi dall'imperialismo, di un ruolo "diverso e pacifico" (rispetto a quello degli USA) dei fetentissimi imperialismi europei, quello "nostro" in testa: tutte cose-che non esistono, che non possono esistere, né ora né mai. E che, invece, si dia corso almeno ad alcune prime iniziative di lotta contro le aggressioni imperialiste, e non siano riservate in partenza ai soliti "specialisti" (i "pacifisti"), ai luoghi-simbolo (Comiso), ai luoghi ed alle condizioni più marginali, sì da non disturbare troppo il manovratore.

Se la"lotta per la pace" o, come preferiamo dire, contro la guerra imperialista vuole conseguire dei risultati nella solidarietà piena ed attiva con gli sfruttati arabo-islamici in lotta, questa lotta deve coinvolgere nei posti di lavoro i lavoratori, spiegando loro cose, fatti, processi da cui si tengono ancora, purtroppo, lontani. Mettere in luce il nesso, peraltro sempre meno nascosto, tra esportazione della guerra e di regimi da stato di guerra permanente "in periferia" (Iraq, Jugoslavia, ex-URSS, Algeria, Libia, Somalia, etc.) e misure sociali e politiche da "economia di guerra" qui, in casa "nostra". Denunziare che ovunque sono gli sfruttati a pagarne i costi, e che questi costi non possono e non debbono essere più tollerati.

E chiamare i lavoratori e i proletari alla lotta ed alla più stretta unità internazionale ed internazionalista del nostro fronte per il socialismo, unica e comune via di liberazione per tutti gli sfruttati.


NOTE

1. Tutto ciò era stato antiveduto per tempo dal marxismo. Presupponendo sempre, con Carlo Marx, "lettori che vogliano imparare qualcosa di nuovo", raccomandiamo loro vivamente lo studio di "Stalinismo ed Algeria" ("Il Programma comunista", n 21-22-23/1959); "Le premesse storiche della situazione algerina" ("Il Programma comunista", nn. 20-21-22/1959); "Realtà e limiti della rivoluzione algerina" (Il Programma comunista", nn. 15-16-17/1962. Chi intenda farlo, può chiederne fotocopia alla nostra casella postale.

2. Il fatto che il regime di Teheran abbia sposato la linea della "perestrojka islamica" non lo pone, comunque, al riparo dalla "speciale attenzione" dei governi imperialisti, molto preoccupati dal richiamo che esso esercita sulle popolazioni musulmane dell'ex-URSS e dal condizionamento che le attese degli sfruttati esercitano comunque sulla sua politica. Preoccupati al punto, ci sembra, da mettere in preventivo nuove azioni (anche militari) di "contenimento" dell'Iran, magari riutilizzando alla bisogna anche un ripescato Saddam…