La rivolta nera e latino-americana

FIAMME SUL FRONTE INTERNO

Devastante ed improvvisa come un uragano, la rivolta nera e chicana di Los Angeles ha scosso gli Stati Uniti ed ha impressionato il mondo intero.

Dopo questa spazzata rigeneratrice, la "prima democrazia della terra" appare per quel che veramente è: un n paese nel quale la massa dei neri e dei poveri di tutte le razze (una massa di cinquanta milioni di uomini!) vive tutt'oggi nell'apartheid e nella schiavitù di fatto più abominevole.

Supersfruttamento, doppia oppressione, emarginazione: ad oltre un secolo dalla "emancipazione" decisa da Lincoln e a trent'anni dalla legislazione sui diritti civili, nulla di sostanziale è mutato nella condizione delle masse nere. Anzi, una tale condizione si è estesa ben al di là di esse. E questo perché non è mutato il sistema sociale, il capitalismo, che della schiavitù dei coloured si nutre, dentro e fuori gli USA.

Ha voglia il macellaio Powell a dire: "Non bisogna permettere che la nostra grande famiglia si divida in fazioni in lotta fra loro". La "grande famiglia" statunitense (quanto è disgustosa questa retorica!) è più che mai divisa e le "fazioni", le classi, che la compongono sempre più distanti ed antagoniste.

Ma c'è, nell'insorgenza dei ghetti di Los Angeles e di altre città, una verità ancora più esplosiva: i neri e gli oppressi d'America non vogliono più vivere come prima. "Quello che ci rende furiosi non è una sentenza, sono quattrocento anni di oppressione. Preferiamo morire piuttosto che continuare a vivere in questo modo", ha dichiarato uno di loro. Ed avrete visto tutti, alla TV, un nero quasi centenario affermare le stesse cose, con solennità, come se comunicasse una decisione a lungo meditata, da cui non si tornerà indietro.

No justice, no peace: chi può credere davvero che un simile grido di battaglia, che infrange i "sacri valori" dell'ordine e dell'unità nazionale si riferisca avvocatescamente ai verdetti delle corti?

Qui da noi, nel tentativo di minimizzare eventi e problemi, si bofonchia: che vogliamo farci, il capitalismo americano, nella sua straordinaria vitalità, è rimasto così, un po' selvaggio. Lasciando intendere che, invece, in Europa, in Italia, le cose andrebbero altrimenti…

Come? Non sono forse gli USA, da un secolo e passa, l'emblema della società affluente, democratica, aperta, capace di offrire a tutti, senza distinzioni di classe, di razza, di sesso, "pari opportunità"? E non si è appena finito di incensarli come il paese-guida del capitalismo mondiale?

Né si capisce dove stia la "diversità" dell'Europa. Non è stato assunto anche qui il reaganismo ad universale modello di efficienza e di modernità? E non esiste forse, con l'immigrazione dal terzo mondo e dall'Est, una "questione nera" anche nel cuore dell'Europa? Non vi si approfondiscono ovunque le diseguaglianze sociali e territoriali? E non c'è in Italia un Sud che si allontana a grandi passi dal Nord?

Ma quale "anomalia americana"! E' del capitalismo tutto che parla quest'inizio dell'Intifadah nera. Un capitalismo imperialista che è, nel suo insieme, sempre più decrepito, nonostante le frenetiche trasfusioni di sangue a cui si sottopone esasperando, con il suo sviluppo "diseguale e combinato", lo sfruttamento delle masse di colore.

Le canaglie di regime, poi, vorrebbero consolarsi con il fatto che questa rivolta era, dopo tutto, attesa; che non è la prima volta e non sarà l'ultima; che, in fondo, siamo nella fisiologia…

Falso. Questa rivolta è, sotto vari aspetti, diversa dalle precedenti. Non solo e non tanto per la grandissima carica di violenza, quanto perché insieme ai neri infuriati sono scesi nelle strade anche latino-americani ed un certo numero di diseredati bianchi. E' stato il primo "moto multi-etnico" della storia moderna americana. Ed insieme alla underclass, al sottoproletariato, vi hanno preso parte "comuni" ed "onesti" lavoratori salariati. Mai come questa volta è stata ampia la comprensione, se non proprio la simpatia, di cui i rivoltosi hanno goduto. Mai tanto fottuta la paura delle classi possidenti. E soprattutto mai come ora è stato possibile che la collera dei neri e dei supersfruttati vada ad intrecciarsi con la crescente insoddisfazione del proletariato statunitense.

Tutti questi cambiamenti si riconducono ad una sola e medesima causa: l'irreversibile declino del capitalismo statunitense, ed il conseguente inasprimento di tutte le sue contraddizioni (effetto e moltiplicatore del declino del capitalismo in quanto tale).

Ed è per questo che la reazione della classe dominante yankee è stata anch'essa diversa da quella degli anni '50 e '60. Allora la Casa Bianca dei Kennedy e dei Johnson replicò al movimento nero con una politica sociale welfarista e lanciando il tema dell'integrazione", salvo abbinarvi, di lì a poco, la più spietata repressione contro la sua avanguardia. Oggi l'amministrazione Bush risponde alla rivolta spianando le armi contro la massa dei ribelli e promettendo il sostegno finanziario dello Stato soltanto alla canea antiproletaria delle classi medie accumulatrici. E neppure dal campo democratico s'avanzano convinte proposte riformistiche (che non si possono tener per tali le platoniche ed isolate, invocazioni di un "nuovo New Deal" o di un "piano Marshall" per i ghetti).

No, non ci saranno né altri "New Deal", né altri "piani Marshall". Non ci sarà quella riconciliazione tra oppressi ed oppressori che per bocca di Jesse Jackson sospira la borghesia nera. Sarà, invece, guerra di classe sempre più aperta tra l'imperialismo americano ed i suoi nemici interni: le masse sfruttate nere e latino-americane e, sì, anche il proletariato un tempo più garantito del mondo.

Con la rivolta delle scorse settimane le fiamme della sollevazione dei colorati sono arrivate sin nel centro dell'impero. Spente (momentaneamente) nel Golfo, si sono riaccese a Los Angeles ed in molti altri luoghi. A tal punto incontenibili che a farle divampare è stata non (come negli anni '60) una sconfitta dell'imperialismo americano, ma una sua vittoria.

Aveva detto bene il Chicago Labor for Peace Organizing Committee, uno degli organismi sindacali di base che presero posizione contro la guerra all'Iraq: "La guerra del Golfo non è la nostra guerra. (…) Essa servirà solo ad aggravare i nostri problemi. La nostra guerra è qui, in casa nostra (…) per un lavoro decente, delle case in cui si possa vivere e per un'assistenza sanitaria per tutti. La nostra lotta è contro il razzismo e la povertà".

Questa guerra, la guerra del fronte interno, è ora ricominciata. A combatterla sul nostro fronte ci sarà di certo, oltre le masse dei neri e dei latinoamericani, anche una parte -almeno- del proletariato e dei salariati bianchi.

Già negli anni passati c'erano stati i primi segni di un inizio di ripresa del movimento di classe negli Stati Uniti: una serie di dure vertenze aziendali, la rinascita di un sindacalismo meno concessivo di quello tradizionale, la discussione intorno alla necessità di fondare un "partito del lavoro". La rivolta nera e latino-americana accelererà questo processo. Gli incendi di Lo Angeles, infatti, e quel che ad essi seguito, hanno bruciato molte illusioni, e non soltanto tra la gente di colore.

Al momento, la "pace" democratica, la "pace" imperialista a stelle e strisce è ristabilita a Los Angeles come a Kuwait City. La sua ultima parola è: difesa armata del marcio ordine borghese e della proprietà privata. Ad essa l'esercito internazionale degli sfruttati dovrà saper opporre la sua forza organizzata ed il suo programma: distruzione rivoluzionaria dell'ordine borghese e abolizione della proprietà privata.