MUORE L'UNIONE SOVIETICA.
NON NASCE LA "COMUNITA' DEGLI STATI INDIPENDENTI"


Indice


Dalla "fine del socialismo" si è arrivati alla fine dell'URSS. Ma le "nuove realtà" chiamate a sostituire i cari estinti non riescono a decollare. E mercato capitalista non funziona, la neonata Comunità sta andando in pezzi prima ancora di cominciare a muoversi. L'impattarsi della crisi del vecchio sistema con la crisi del capitalismo mondiale può solo produrre nuovi mostri. E la prospettiva del socialismo torna più che mai a farsi attuale. Nell'ex-URSS e nel mondo intiero.


Per definire sinteticamente quanto sta oggi accadendo nell'ormai ex-Unione Sovietica, potrebbe bastare una sola parola: jugoslavizzazione.

In essa si compendiano i due connessi fenomeni della catastrofe economica e della disintegrazione statale con quel che ciò comporta: una condizione di dipendenza dall'Occidente imperialista, ma anche il trasmettersi della cancrena al capitalismo metropolitano, già per suo conto stretto dalla crisi e non in grado di amministrare i nuovi spazi di dominio per promuovere sviluppo e "pace".

Sin dall'88 almeno (si veda il nostro opuscolo "Dove va l'URSS") abbiamo non solo affermata la contrapposizione tra socialismo e perestrojka, ma un preciso "vaticinio": tanto più la perestrojka andrà sino in fondo, tanto più avremo non un'omologazione dell'URSS ai livelli affluenti del capitalismo occidentale, ma l'esplodere di insanabili contraddizioni che metteranno a soqquadro quel paese e si trasmetteranno inevitabilmente qui. Lo spazio di espansione del capitalismo si sta non ampliando, ma restringendo. La sua sopravvivenza implica da un lato un'ulteriore, estrema, concentrazione ad un polo del mondo, e dall'altro la discesa agli inferi di un numero crescente di stati, compresi quelli già consolidati (figuriamoci i nuovi arrivi!). Il che prelude ad un'epoca di scontri. L' "Imperialismo" di Lenin l' ha "vaticinato" da quel dì. Noi ci limitiamo a confrontare quel testo con la realtà ed a confermarlo alla luce di essa.

Breve sguardo all'indietro per guardare innanzi

A scanso di equivoci, ricapitoliamo per l'ennesima volta gli "antefatti".

Qualcuno può essere tentato di reagire alla catastrofe sovietica attuale fuggendo per la tangente. Vedete? La via capitalista in URSS non funziona. Occorre "tornare" al socialismo di prima, magari… rifondato. Ma è proprio così?

Nient'affatto. Nell'URSS di Stalin e dei suoi successori non si era messo in piedi alcun socialismo, foss'anche embrionale, bensì quel sistema, capitalista da cima a fondo, che ha dettato le "scelte" attuali (diverse se si passa da un Gorbacev ad un El'tzin, ma nella sostanza tutte legate ad un unico filo).

Le leggi deterministiche dello sviluppo volevano che nel "chiuso" dell'URSS non si potesse che costruire capitalismo. Lenin fu chiarissimo su questo punto, ribadendo che proprio lo sviluppo del capitalismo rappresentava, nelle condizioni date, l'anello superiore nel cammino verso il socialismo. La posizione dei comunisti autentici, in URSS e nell'Internazionale, fedeli all'impostazione leninista, non poteva che essere contro Stalin: "Lavoriamo alla saldatura tra il potere politico comunista e la rivoluzione in Occidente, che sola potrà liberare le premesse materiali di un avvio al socialismo".

I famosi piani quinquennali di Stalin, sciolti da ogni ipoteca internazionalista ("cosmopolita", diceva con disprezzo il Piccolo Padre), altro non potevano dare che l'uso del potere amministrativo centralizzato ("economia concentrata") per gettare le basi di un'URSS borghesemente moderna. Ma questo ipercentralismo di ferro, per un insieme di ragioni economiche, politiche e sociali, se pure è riuscito ad imprimere all'URSS un enorme balzo storico in avanti (ragion per cui non si può negare a Stalin la qualifica di grande rivoluzionario, purché s'aggiunga subito: borghese), non è stato né poteva essere in grado di dar vita ad un capitalismo strutturalmente all'altezza di quello, "naturalmente" formatosi attraverso una storia plurisecolare, in Occidente. I vantati volumi produttivi a malapena hanno potuto, per decenni, nascondere l'intrinseca friabilità strutturale del sistema, così come l' "onnipotenza" del potere centrale ha fatto malamente da velo alla riottosità ad ogni comando centrale di una base economica estremamente decentrata ed inassimilabile a quel che capitalisticamente s'intende per una reale concentrazione e centralizzazione (fatto sostanziale e non amministrativo).

Il "monopolio di stato" della produzione sovietica era un po' come un mostro dalla testa smisurata, ma privo di articolazioni e povero di ossigeno e di sangue; diverso non solo, ovviamente, dal socialismo (negazione delle categorie di merce, lavoro-salariato, profitto), ma anche dal capitalismo di stato nell'accezione marxista. Quest'ultimo, infatti, va letto come il grado estremo di concentrazione e centralizzazione del capitale che riassume in sé, ed effettivamente dirige, un flusso sterminato di attività capitalistiche che ne costituiscono la rete connettiva (polmoni, apparato respiratorio…) filtrate attraverso opportune infrastrutture. Esattamente ciò di cui mancava l'URSS. E proprio la crescita ipertrofica della produzione bruta ha ad un certo punto inceppato il meccanismo, fino al punto da rischiare di soffocarlo a meno di una radicale perestrojka in grado di dotarlo delle funzioni vitali mancanti.

L'ingresso sul mercato mondiale, espressosi con la teoria e la prassi chrusciovane della "pacifica competizione" tra i "due mercati", socialista e capitalista (secondo la dizione staliniana), era e resta un passo obbligato, inerente alle leggi dello sviluppo capitalista.

Poco vale, quindi, rimpiangere l'autarchia protettiva propria di una fase superata (quella, per dirla sempre con Stalin, della costituzione di un "proprio mercato indipendente"). E meno ancora valgono certe critiche a posteriori all' "eccessivo statalismo" di Stalin, perché anche quello era un passaggio necessario (a meno di ammettere che si potesse allora, il che non è, procedere sulla via dello sviluppo secondo i canoni del menscevismo o peggio, poggiandosi su quell'asfittica e dipendente borghesia russa che a tale sviluppo era invece d'intralcio).

Occorre capire, alla luce della teoria marxista sull'imperialismo, che la via staliniana al capitalismo è stata d'obbligo per paesi quali l'URSS, la Cina, la Jugoslavia, etc.; e perché essa, dopo aver assolto al suo compito storico, sia venuta al dunque, bloccandosi nella pretesa "competizione pacifica con l'Occidente"; e come e perché ciò rilanci oggi non la prospettiva lì di un Il nuovo sviluppo capitalista", ma quella della rivoluzione socialista alla scala mondiale. Non si può dare quindi nessun "rifondato" neo-"socialismo" in cui convivano libero mercato in basso e controllo sociale "democratico" in alto.

Quello che oggi impressiona è vedere come tutti i tratti caratteristici del "centralismo" sovietico siano rapidamente, per così dire, evaporati d'un colpo ai primi assaggi della perestrojka.

Che significato ha la corsa spasmodica delle aziende statali verso la privatizzazione, se non che la cornice giuridica della "proprietà di tutto il popolo" era da lungo tempo entrata in crisi di fronte alle prorompenti leggi di mercato? E che significa la corsa ancor più accelerata alla disintegrazione statale, se non che da altrettanto lungo tempo si erano creati all'interno dei singoli stati della federazione dei gruppi di interesse e potere borghesi non integrati a processi economici "globali" quel tanto che basti a far sentire loro necessario un piano economico a grande scala?

Si ripete qui il copione jugoslavo, addirittura in peggio, perché, nonostante tutto, in Jugoslavia si era già formato un mercato sovrannazionale realmente interdipendente, e solo un'azione di lungo respiro da parte dell'Occidente, in combinazione con gli squilibri presenti in esso, esponenzialmente crescenti con lo svilupparsi del "libero scambio", ha portato ai fenomeni attuali di disintegrazione. Si potrebbe dire che in Jugoslavia questo fenomeno avviene dopo che le borghesie "nazionali" avevano conseguito, un certo qual "diploma di maturità", dopo cioè che le rispettive strutture Il nazionali" si erano andate definendo quali entità "indipendenti"; mentre invece nell'URSS l'esplosione si sta verificando prima ancora che un personale del genere sia giunto a livello delle elementari.

Noi diciamo, certo, che anche la fuga della Slovenia e della Croazia ad Ovest sarà foriera di pessime sorprese per queste entità microstatali borghesi. Ma che dire della pletora di paesi e paesucoli dell'ormai ex-URSS che pretendono di "autogestirsi" prima ancora di aver dato l'avvio ad una propria macchina economica "indipendente" e senza la prospettiva di alcun serio sbocco su mercati "alternativi" migliori? (Si pensi solo al destino dei paesi baltici, frettolosi di recidere il cordone ombelicale con l'URSS ed oggi privi di quel tanto di ossigeno che permetta loro di fare i primi strilli! Ma si pensi anche all'inconsistenza dei "programmi autoctoni" di paesi pur grandi, quale l'Ucraina, che per l'80% non dispone di un ciclo tecnologico completo sul proprio territorio, che dipende dal mercato ex-sovietico per il rifornimento dell'essenziale delle materie prime necessarie alla produzione, e che rivolgeva il 40% delle sue esportazioni verso quel mercato!).

Da Gorbacev

L'ala più "realista" (non: "meno spinta") della perestrojka, da Gorbacev agli attuali "rifondatori comunisti " (ce ne sono anche lì…), non si distingue da quella el'tziniana per una più tiepida fede nei "valori" del mercato, del capitalismo. Il suo ragionamento era ed è: per transitare verso questi luminosi lidi occorre, però, conservare l'unità statale pansovietica, sia pur ridefinita su nuove basi giuridiche, il potere statale sui gangli vitali della grande industria e dell'agricoltura in una con una crescita guidata dell'iniziativa capitalistica dal basso, così da poter conciliare la libera iniziativa diffusa con gli indirizzi macroeconomici centrali. Ai "radicali" questa ala "realista" obiettava ed obietta: la perdita di questi connotati significherebbe la rovina di tutti e di ciascuno, con tanti saluti ai sogni di "omologazione" all'Occidente. Su queste basi soltanto si potrà utilizzare i copiosi "aiuti" che ci si attende dal generoso Occidente per la necessaria ricapitalizzazione della macchina economica interna.

Sulla carta, un bel piano.

Il suo "lieve" difetto sta nel prescindere da due ordini di considerazioni. Primo: la capacità di guidare dall'alto l'economia complessiva del paese non poteva e non può poggiare su alcun autentico meccanismo "macroeconomico", ma implicherebbe una volta di più un centralismo amministrativista di già verificatosi improponibile. Secondo (e connesso al primo): nell'attuale situazione internazionale, l'Occidente non è in grado di esporsi in una politica di "aiuti" all'altezza dei compiti, nei volumi richiesti e sui tempi lunghi necessari per prevederne un rientro profittevole.

Si potrebbe aggiungere che lo stesso Occidente, per lanciarsi in una qualche corsa verso le praterie sovietiche, sentiva il bisogno -antitetico ai sogni gorbacioviani - di predisporsi un sufficiente grado di atomizzazione dell'ex-Unione Sovietica (non totale, perché una disintegrazione a catena porterebbe ad ulteriori insolubili problemi di governabilità della situazione, ma sufficiente quel tanto da permettere una concorrenza al ribasso tra vari soggetti interessati a svendersi ad Ovest, senza il diaframma della resistenza contrattuale di un'unica entità centrale; che poi questa stessa manovra stia comportando una somma di ardue contraddizioni per l'Occidente, è sotto gli occhi di tutti).

Giusto un anno fa, l'URSS aveva dato prova, con la politica seguita nell'affare Golfo, di tener ben presenti gli interessi imperialisti in Medio Oriente e si era diligentemente prestata ad essi, pur abbozzando un aborto di atteggiamento da "intermediario" (subito e sprezzantemente tacitato da Washington). Ciò derivava da un lato dalla nuova collocazione strategica imboccata sullo scacchiere politico mondiale (rinunzia esplicita ad ogni precedente "blocco fraterno" col Sud del mondo, aspirazione ad inserirsi pienamente nella sfera dell'Occidente da compartecipe), dall'altro dalla speranza di potervi lucrare dei benefici: il Medio-Oriente è costretto a pagare all'Ovest il suo tributo, e questi ringrazia in solido il nuovo partner sovietico.

Così non è stato. La Guerra del Golfo non ha indotto alcun rilancio nell'economia capitalistica mondiale, più che mai oggi avvitata nelle spire della recessione, USA in testa. I miliardollari non arrivano.

Le grandi potenze occidentali, riunite a consesso, hanno giustificato la chiusura dei cordoni della borsa chiedendo a Mosca: "Fate prima le riforme; gli aiuti arriveranno dopo". Le riforme sono state varate secondo i dettami, gli aiuti sono rimasti egualmente bloccati.

Nuova giustificazione da Occidente: "La situazione interna sovietica si presenta ancora troppo incerta. Stabilizzatela prima, poi manterremo fede alle promesse fatte".

Una beffa bell'e buona! Che stabilità mai può darsi in URSS, anche con tutta la buona volontà, senza il foraggio sufficiente per fronteggiare le difficoltà della fase di transizione? L'URSS area a rischio? Ma proprio voi occidentali ne siete buoni responsabili! Il fatto è che mai come ora il capitalismo occidentale ha avuto così scarse fiches da giocare d'azzardo.

A queste condizioni, la caduta di Gorbacev, con o senza intermezzo "golpista", era scontata. Tutto il potere è così passato di mano ad El'tzin. Ma anche costui avrà le sue gatte da pelare. In particolare, l'entusiasmo filo-americano di questo sinistro figuro, è destinato a smorzarsi ben presto. L'idea di giocare al rialzo, mettendo all'asta i beni di famiglia per ricostituire il peculio tra i concorrenti USA e Germania, sta progressivamente venendo meno, perché a quest'asta gli USA hanno ben poche chanches di potersi presentare portafoglio alla mano.

Se diamo un'occhiata alle più recenti statistiche dell'interscambio tra URSS e i sette paesi più industrializzati, vediamo con precisione il ridursi della presenza USA (e giapponese) in termini relativi e talora persino in quelli assoluti. Giganteggia la Germania, che senz'altro farà la sua parte sino in fondo (cioè sin dove le è concesso dalla sua stessa situazione interna), ma sarà comunque una penetrazione insufficiente a colmare i buchi necessari e, per forza di cose, sarà particolarmente onerosa per la Russia (prima destinataria di essa) in termini sia economici che politici.

La Germania passa, per quanto riguarda l'import, dal 31 a quasi il 43,5% della quota totale dei 7; nell'export dal 26,3 a quasi il 31%. I due colossi statunitense e giapponese si mantengono su valori assai ridotti, indietreggiando addirittura quanto ai valori percentuali relativi medi. In ogni caso, non si tratta di cifre complessivamente strepitose, e meno che mai all'altezza delle necessità dell'ex-URSS per riattivare la propria economia. Quel che è più grave, andando al di là delle cifre, è che, come dice Gaetano Di Rosa, "uno dei protagonisti fondamentali delle relazioni, non solo commerciali, italo-sovietiche" ("Mondo Economico", 3 agosto 1991), "In URSS non sono ben definite le responsabilità, a tutti i livelli, dal Governo alle strutture operative" e, quanto alle jointventure, "è opinione diffusa nei Paesi occidentali, ma anche in URSS, che non funzionino. Si parla di circa 2.000 joint-venture e di poche decine operanti… La stragrande maggioranza (di esse) ha carattere commerciale e gli occidentali le hanno in buona parte costituite per essere favoriti nelle esportazioni dall'URSS di materie-prime o di semi-lavorati a prezzi convenienti. Quelle a carattere industriale, poi, sono nate per favorire l'importazione in Unione Sovietica di impianti e macchinari… senza radicarsi nel territorio, nel tessuto connettivo industriale".

La Germania è la candidata numero uno ad attuare questo "radicamento". Le percentuali, già alte e in crescendo di cui sopra, probabilmente ci direbbero assai di più se le potessimo confrontare all'aspetto strutturale sottostante. La posizione di emarginazione nippo-americana e quella non brillantissima delle altre potenze europee potrebbe far pensare ad una posizione di "monopolio" tedesca. Una situazione del genere comporterebbe un ulteriore deprezzamento delle capacità contrattuali russe, in presenza, tra l'altro, di una disponibilità di capitali al di sotto delle necessità (data anche la vitale esposizione tedesca in Ungheria, Jugoslavia, Polonia, Cecoslovacchia, etc.) ed un uso di essi, di conseguenza, assai mirato e tiranno(1).

Con questa realtà si trova a dover fare i conti la leadership el'tziniana. Di che numeri essa dispone? E di che programmi?

…ad El'tzin

Tutta la scienza economica di El'tzin nell'affrontare i problemi che si affacciano, si può condensare in due punti.

Primo: è necessario spezzare ad ogni costo e su ogni piano la rigidità operaia, sicché il prezzo della forza-lavoro venga depresso al minimo (taglio al salario reale, sfoltimento di massa degli "esuberi" così da compensare per quanto possibile la penuria di capitali da investire. Il miglioramento delle paghe agli scagnozzi della forza pubblica ed i piani antisommossa dovrebbero assicurare che tutto ciò proceda "nell'ordine". Secondo: usare il differenziale tra la Russia e gli altri stati "comunitari" per forzare lo sviluppo "combinato e diseguale" della prima.

Ne abbiamo già parlato nel numero precedente, indicando a tempo le conseguenze cui questo "intelligentissimo" piano avrebbe portato. Le prime consistenti sommosse operaie anti-El'tzin (ex-el'tziniani in prima fila!) e le convulsioni della neonata "Comunità di stati indipendenti" stanno a dimostrare che vedevamo giusto, né d'altronde era troppo difficile farlo.

A proposito di queste ultime: il processo di "jugoslavizzazione" non potrebbe esser più evidente. La Georgia ne ha offerto la prima testimonianza, col suo rifiuto di entrare a far parte della Comunità (ciò che probabilmente ha giocato sullo scatenamento della guerra civile interna contro il ras Gamsakurdia, appena reduce da una democratica elezione plebiscitaria, e sull'attuale avance di Shevarnadze di presentarsi candidato a prossime seconde elezioni democratiche per la presidenza onde ricucire lo strappo). Ma ancor più istruttive sono le vicende della firmataria Ucraina.

Questo paese, di ben 52 milioni di abitanti, ricco di potenzialità produttive e, in particolare, nella sua parte occidentale proiettato (nelle intenzioni, almeno…) verso l'Occidente attraverso le teste di ponte moldava, bielorussa, polacca, ha subito gettato sul piatto le proprie rivendicazioni, contrapponendosi a Mosca ("rapinatrice" per definizione, un po' come lo è la Serbia agli occhi della Slovenia e della Croazia) e venendo in ciò a costituire un "utile" esempio per altri futuri secessionismi.

Su "Le Monde Diplomatique" di questo gennaio, J.M. Chauvier ha bene pittàto gli "stati d'animo" che percorrono l'Ucraina. "Tutto va a Mosca", "La Russia ci sfrutta come colonia", l'Ucraina "dispone di tutto il necessario" per diventare libera e ricca, deve solo emanciparsi "nazionalmente". Corollario: la sua appartenenza stessa alla CSI è un fatto transitorio che, intanto, non ci deve assolutamente legare le mani al "centralismo" russo. E poco importa che si possa replicare coi dati sopra riportati sulla dipendenza di fatto dell'Ucraina dal mercato russo, cui non c'è al momento alcuno sbocco alternativo ad Ovest. O spiegando che, a loro volta, "i russi hanno gioco facile a dimostrare che essi sono i più poveri dell'Unione e che, se essi vendessero le proprie materie prime ai prezzi del mercato mondiale (ciò che, per altro, si apprestano a fare, n.), il loro vantaggio sarebbe moltiplicato "per nove" (seconda una stima dell'insospettabile "Financial Times", n.).

Quando manca un solido collante tra le varie economie "nazionali", queste risultano insensibili alle sirene dei "superiori interessi generali". Anzi: ognuna di esse, singolarmente, si decompone a sua volta, nelle mani di borghesi imparaticci ed arruffoni, in separate ed astratte voci d'inventario beni. Un po' come ragionavano i padroni sloveni: abbiamo un'industria leggera avanzata, competitiva; Belgrado ci torchia; rivolgiamoci ad altri mercati. E "dimenticavano" che la loro competitività era correlata agli standard ed al mercato interno jugoslavo; che, di conseguenza, l' "affrancamento" dai tributi prima versati al centro federale potrà compensare solo in minima parte i costi provocati dal gap tra livelli sloveni ed occidentali, e che la perdita del mercato precedente farà mancare alla nuova, "libera", economia "nazionale", le risorse necessarie alla ricapitalizzazione ed alla ristrutturazione produttiva in vista della integrazione ad Ovest.

L'idea dei dirigenti ucraini (che, tra l'altro, figurano come dei moderati rispetto a certi loro contestatori clericali e persino fascisti) di aprire zone speciali all'Occidente per il libero sfruttamento del paese, così da prendere in contropiede la Russia, è del tutto fantasiosa quanto a risultati concreti, ma, purtroppo, gravida delle peggiori conseguenze per l'Ucraina e per l'insieme dell'ex-URSS.

Se è vero, infatti, che l'occidente è oggi più preoccupato per l'eccessiva frammentazione del fu-Impero che per i precedenti pericoli di una sua "eccessiva" unità, e chiede esso stesso che sia posto un argine a questa situazione a precipizio, è anche vero che una concorrenza al ribasso nella svendita da parte dei singoli pezzi della CSI è allettante per il capitale. La prospettiva di "costi-zero", o pressappoco, potrebbe anche far dimenticare qualche rischio d'instabilità. Che ne verrebbe fuori? Una spirale senza fine di calo della capacità contrattuale dei singoli stati ex-sovietici e dell'intera CSI, d'instabilità economico-sociale e politica generalizzata tra di essi, d'accentuamento conseguente non delle spinte alla "logica" ricomposizione unitaria, ma di quelle ad un'ulteriore divisione e contrapposizione. Come da scenario già visto ai nostri confini orientali.

E, come e peggio che in Jugoslavia, il contenzioso economico e quello nazionale vanno a braccetto.

Così, nel Baltico si è arrivati impunemente all'espulsione di fatto delle fortissime minoranze russe o alla loro assimilazione forzata (vera e propria "baltizzazione"), con la privazione dei più elementari diritti nazionali. Armenia e Azerbajdjan stanno lì a dimostrare che qualche Krajna su cui azzannarsi è sempre facile da trovare all'occorrenza. Dalla Moldavia parte un segnale alla riscossa grande-rumena (è tutto dire!) che non mancherà di farsi poi sentire nei Balcani, ovunque un rumeno potrà esser reclutato.

E l'Ucraina, su cui qui ci siamo più spesi? Dicevamo dei suoi 52 milioni di abitanti, ma occorre ora aggiungere che un 22% di essi è russo, concentrato tra l'altro per buona parte nell'est del paese (e non è l'unica minoranza nazionale), nonché socialmente identificabile col nerbo del proletariato industriale. Si potrà mai pensare ad un esacerbamento dei contrasti "nazionali" russo-ucraino senza che questo non si traduca ad un certo punto, in scontro aperto?

Nel frattempo, poi, veniamo a sapere che Odessa aspira ad una propria autonomia ed allo statuto di porto franco. Una Dubrovnik ucraina? Ottimo suggerimento per l'occidente. Si potrebbero mandare anche laggiù dei caschi blu, delle forze CEE o dei parà USA ed, in effetti, c'è già chi, in questi stati pronti al vassallaggio, invoca un intervento del genere.

Dice bene il governatore della Gosbank, V. Gerasenko: "Speriamo che i politici abbiano finalmente capito che, se non si sintonizzano sulla realtà economica, non rovineranno solo la popolazione e il Paese, ma anche la loro posizione personale", e che "se prevarrà il separatismo e si dissolverà l'unità organizzativa e monetaria, il Paese scivolerà nel caos". ("Corriere della Sera", 8 gennaio 1992). Ma ragionamenti ed auspici sembrano andare in senso contrario al corso reale delle cose.

C'è a questo punto chi prevede e spera in un ritorno ad un minimo di razionale centralismo (quello cui si richiamava platonicamente Gorbacev), correggendo le attuali tendenze separatiste, cui El'tzin ha dato un suo interessato (e miope) contributo. Ma è del tutto impensabile che, giunti a questo punto, si realizzi spontaneamente, da sé, la "sintonia" di cui parla Gerasenko. Anche a questo proposito l'esperienza jugoslava è istruttiva.

Una "ristabilizzazione" del genere potrebbe realizzarsi (e solo nell'improbabile ipotesi di avere alle spalle un sostegno occidentale a tutto campo) unicamente a prezzo di un'azione altamente "disciplinare" da parte della Russia. Infatti, i giochi economici e Politici con cui El'tzin s'immaginava di legare e subordinare alla Russia i paesi della CSI, si riveleranno insufficienti.

Un buon vecchio knut si renderebbe necessario. Ed esso, naturalmente, dovrebbe funzionare implacabilmente all'interno della Russia stessa, contro il proletariato. Un insieme esplosivo.

Si può dire che, per un bel tratto di strada ancora, i problemi dell'ex-URSS siano destinati ad accumularsi ed imputridire. Imputridimento, non stabilità. Avvenimenti sconvolgenti si preparano lì e dovunque nel mondo. L'ex-URSS non è che un tassello, estremamente delicato e friabile, nel quadro complessivo di un capitalismo internazionale che va verso una ridefinizione conflittuale dei rapporti di forza al proprio interno. L'aggancio dell'ex-URSS al carro dell'Occidente in generale e, poi, ad uno dei carri…armati di esso in particolare, potrà portare ad esiti "imprevedibili" e drammatici: o lo schieramento subordinato ad uno dei fronti di guerra, o la ripresa (nell'ambito di un determinato schieramento di alleanze politico-militari) di una riscossa russa ed anche, forse, pan-slava, oppure, vivaddio!, la ripresa di un poderoso movimento di classe che scardini in avanti l'"ordine" borghese all'interno dell'ex-URSS attizzando le fiamme dell'incendio proletario ad Ovest o congiungendosi ad esse.

Quello che è categoricamente escluso è che la perestrojka si concluda secondo i sogni dei suoi promotori nella realizzazione di un nuovo ordine, pacifico ed affluente, all'interno dell'ex-URSS e nell'ambito di un analogo nuovo ordine mondiale. Bruciato Gorbacev, con tutte le sue pie illusioni, nel giro di pochi anni, vedremo bruciarsi anche El'tzin. Gli scenari successivi non potranno essere che di fuoco.


Note

1. Stando ad un recentissimo studio del Wiiw di Vienna (cfr. "Corriere della Sera" del 21 gennaio), "fino alla fine dello scorso settembre circa 10 miliardi di dollari sono affluiti (dall'Occidente, n.) nell'Est europeo, compresa l'ex?URSS". Questa somma, però, la cui esiguità ognuno può misurare da sé confrontandola con certi "investimenti" a cascata post?terremoto nella sola Italia, va presa con le pinze "perché corrisponde ai piani di investimento registrati sulla carta, mentre il volume degli investimenti già attuati corrisponderebbe a una cifra oscillante tra un terzo e la metà di quella "registrata" nell'insieme, con valori anche più bassi per le aree che non offrono "stabilità politica ed economica e garanzie dei sistema giuridico", prima tra tutte l'ex-URSS. In ogni caso, la CSI partecipa a questa somma "virtuale" in misura di 5,5 miliardi: una cifra irrisoria rispetto ai 2,3 miliardi appannaggio della sola Ungheria. L'interesse occidentale, e della Germania in particolare, nei confronti della CSI è evidente. Ma esso è condizionato da un lato dalla necessità preventiva di fortificare le "teste di ponte" al di qua dei suoi confini (e qui la politica di privatizzazione "tuttavia procede più lentamente di quanto era stato previsto", proprio per non mettere a repentaglio la stabilità sociale e quella giuridica che ne dipende) e, dall'altra, dalle assai più fosche prospettive di controllo nella CSI nonché ? qui il punto dolente! dall'impossibilità di moltiplicare a piacimento i capitali da investirvi. Ora, è chiaro che senza aggredire sistematicamente il mercato della CSI anche l'avanzata in Ungheria, Polonia e contermini metterebbe capo a contraccolpi d'incalcolabile portata; ma è anche chiaro come tra desideri e possibilità intercorra il classico mare. Di qui una situazione contraddittoria che si avvita su sé stessa.