Ci stiamo avvicinando a grandi passi ad una riorganizzazione reazionaria ed autoritaria, tanto della società che dello stato.
Non siamo i soli a dirlo. Anche la "sinistra" istituzionale lo percepisce. La sua spiegazione dei fatti e le sue indicazioni sul che fare sono, però, ben differenti dalle nostre. Per il PDS, il centro motore dell'attuale evoluzione (o involuzione) politica (e non anche sociale) sta nelle "oscure trame" ordite, dentro e attorno al Quirinale, da un pugno di "gladiatori" restii a prendere atto che la "guerra fredda" è finita. La posta in gioco è la democrazia, insidiata da un golpismo strisciante. Ed il proletariato dovrebbe, insieme con tutte le forze borghesi democratiche, difenderla come cosa propria, secondo le debite procedure elettorali ed istituzionali. Ancora una volta, perciò, l'appello che "da sinistra" (e non solo dal PDS) viene alla classe operaia è: contro il pericolo autoritario, alle urne, lavoratori e cittadini, alle urne!
Spiegazione dei fatti puerile, e linea di difesa disastrosa per la classe operaia.
Le cause profonde dell'incrudirsi dell'offensiva capitalistica vanno ricercate non nella trasformazione o nel traviamento permanente di questo o quello sgherro dei padroni, bensì negli antagonismi e nelle contraddizioni economico-sociali. E sono di ordine internazionale, prima ancora che interno.
Se la "prima repubblica" è entrata progressivamente in crisi, lo si deve all'esaurimento del ciclo di sviluppo post-bellico e delle condizioni di "pace" interna ed esterna ad esso legate. E se sono in corso i lavori preparatori di una "seconda repubblica" ancora più totalitariamente capitalistica ed anti-proletaria di quella al tramonto, è per ché, davanti al restringersi degli spazi di sviluppo, il "nostro" capitalismo sente l'urgenza di una maggiore aggressività interna ed "esterna".
E' un'anomalia italiana? Niente affatto. La crisi generale del sistema capitalistico è destinata (ha già cominciato a farlo) a scuotere a fondo le istituzioni politiche borghesi del tempo "di pace". Essa farà riemergere ovunque violente spinte reazionarie e riporterà all'ordine del giorno la questione del potere nei termini della storica alternativa posta dall'Ottobre: o la riaffermazione sempre più dispotica (con o senza democrazia) della dittatura del capitale, o la instaurazione - sulle sue ceneri - della dittatura internazionale del proletariato.
Evidentemente, tale processo è oggi in uno stadio embrionale. Ma questa è la posta ultima in gioco negli stessi scontri parziali del presente. Preparazione (alla lontana) della controrivoluzione da un lato, della rivoluzione sociale dall'altro. Se si avessero gli occhi per vedere, non si faticherebbe a capire che il furioso vomito anticomunista del picciotto sardo non è un fondo di magazzino della "guerra fredda" di ieri, ma una prima avvisaglia della caldissima guerra di classe che va ad aprirsi.
E' di questo che si tratta: al proletariato ed ai comunisti essere all'altezza dei propri compiti di battaglia, a partire dalla più decisa lotta contro l'offensiva capitalistica in atto!
Premessa la tesi, veniamo all'analisi.
La novità con cui fare i conti è questa: in Italia quel "sistema politico" borghese che era rimasto stabile, ai limiti della immobilità, per circa mezzo secolo, è "improvvisamente" (prima che in altri paesi imperialisti) entrato in uno stato di febbrile agitazione, perché non riesce più a corrispondere in modo adeguato alle "nuove" necessità del capitalismo "nazionale".
Come le altre due nazioni imperialiste sconfitte nella seconda guerra mondiale, l'Italia ha potuto e saputo beneficiare della lunga fase di crescita "pacifica" per scalare posizioni ed arrivare ad una incollatura da paesi quali la Francia e la Gran Bretagna appesantiti, tra l'altro, da ben superiori oneri militaristi. E' riuscita nell'impresa anche in virtù di una sorta di ruolo di cerniera tra Est ed Ovest, doppiamente fruttuoso per la borghesia italiana, sul piano commerciale e su quello della pace sociale interna.
Il totale sgretolamento del "blocco socialista", la riunificazione della Germania ed il repentino trapasso dei contrasti inter-capitalistici al livello bellico con la guerra del Golfo, hanno fatto venir meno le precedenti rendite di posizione. In una situazione internazionale di competizione scatenata senza più remore tra i vecchi alleati di ieri, nel contesto di un crescente "disordine globale" che sempre più richiede di difendere gli spazi di mercato nel Sud del mondo armi alla mano, il "nostro" capitalismo stenta a reggere il passo dei suoi diretti concorrenti.
Il gap di competitività rispetto alla concorrenza, che era andato restringendosi per vari decenni, è tornato in anni recenti ad ampliarsi. Un accumulo di dati negativi circa la bilancia commerciale, il debito statale, il debito estero, il fallimento dei programmi di espansione all'estero delle maggiori società, e poi la perdita dei protettorati somalo ed etiopico, ecc., hanno ridato bruscamente corpo allo spettro del declino. Così procedendo le cose, il mussoliniano (e andreottiano, craxiano…) sogno di un posto al sole per il capitalismo italiano, rischia di evaporare "sul più bello", ossia proprio quando la repubblica democratica sembrava esser stata capace, grazie anche all'azione del fascismo ed ai metodi appresi dal fascismo, di tradurlo in realtà.
D'altro canto, la contrazione delle possibilità di sviluppo ed il fatto che la recessione ha ripreso a mordere anche in Occidente bruciano una buona parte dei restanti margini "riformisti". Un'epoca di crescita è finita. E per il grande capitale la politica dei piccoli passi nella attuazione dei "sacrifici necessari" esperita nell'ultimo quinquennio dai governi a direzione democristiana, non è ulteriormente perseguibile. Dal punto di vista degli interessi capitalistici, s'impone un salto di qualità, da cima a fondo antiproletario, sia nella gestione delle imprese che nell'efficienza dello stato a secondarne ad ogni livello l'azione.
Inizia, per le aziende, un periodo all'insegna della "competitività totale, privata di ogni fattore keynesiano" e della "combinazione tra reaganismo e toyotismo" nello sfruttamento della forza lavoro (dice bene Bertinotti, salva l'inconsistenza del programma e delle iniziative di lotta che ne fa derivare).
E così pure inizia, per lo stato capitalistico, un periodo all'insegna del risanamento finanziario (con sempre meno ammortizzatori sociali), del massimo accentramento del potere e della sempre più stretta combinazione tra nazionalismo e militarismo, interno ed esterno.
Questi sono le determinanti ed i contenuti della offensiva reazionaria ed autoritaria che il capitale-sovrano ha di già messo in movimento (motu proprio… ) e chiede ora al popolo-suddito di approvare. Ci occuperemo qui di seguito soprattutto degli aspetti politico-istituzionali di essa, mentre in altra parte del giornale ne vediamo alcuni aspetti "sindacali".
Non è da poco che la borghesia italiana avverte il bisogno di modificare in profondità il proprio "sistema politico" ed il proprio ordinamento. Per lo meno dal 1975 (l'introduzione del fermo di polizia come provvedimento simbolo), infatti, sia la "costituzione formale" (in senso lato) che quella materiale hanno subìto rilevanti cambiamenti. Che sono andati tutti nel senso di una maggiore concentrazione del potere statale e di un più rigido disciplinamento degli spazi di movimento e di organizzazione del proletariato.
Tali cambiamenti hanno rafforzato lo stato democratico, in quanto macchina della oppressione di classe borghese, di contro al lavoro salariato. Ma appaiono insufficienti a fronte di quella che è stata chiamata "l'epoca delle incertezze". Così sta montando la pressione, da parte del grande capitale, per nuove, generali e più radicali riforme istituzionali di stampo, per il momento, totalitario-democratico.
Interprete particolarmente deciso di questa esigenza è il "partito di Cossiga. La sua ipotesi di riforma istituzionale, che è quella della democrazia presidenziale-plebiscitaria, è di certo la più marcatamente accentratrice tra quante sono finora in campo. E ci pare logico partire da essa dal momento che sta conquistando nei fatti posizioni su posizioni nella "pubblica opinione", proprio in quanto meglio risponde, nell'insieme, alle necessità di fondo del capitalismo italiano.
E' utile precisare subito, però, che il "partito del presidente" non sì caratterizza tanto, per ora, per il suo specifico "modello" di centralizzazione del potere (che pure, evidentemente, ha), quanto per l'impegno posto nell'assicurare le pre-condizioni politico-sociali più favorevoli a tale centralizzazione. Quel che gli interventi a raffica di Cossiga hanno espresso è insomma, anzitutto, un programma politico per il rafforzamento dello stato capitalista-imperialista.
Il contenuto essenziale di tale programma è espresso in forma abbastanza chiara nell'intervista da costui data a "Le Monde" (del 12 dicembre). "L'Italia - vi si afferma - ha un ruolo importante da svolgere" in Europa centrale, nell'ex-URSS e nel Mediterraneo. Ma per essere in grado di svolgerlo, per poter soddisfare i propri tradizionali e rinnovati appetiti imperialistici, essa ha da risolvere un doppio problema: "uscire dal dopoguerra" e ridare 1egittimità ed efficienza" alle proprie istituzioni.
Archiviare il dopoguerra nella vita politica interna (in vista dei futuri scontri) come è stata archiviata Jalta nella politica internazionale, significa trarre tutte le conseguenze dal "fallimento del comunismo", liberare la nostra società (…) dalla paura e dall'ossessione di un comunismo che non c'è più (così nella lettera di dimissioni dalla DC). Occorrerebbe perciò un "indimenticabile '89" anche in Italia, sì che questa sia più fetidamente di prima sotto il pieno ed incondizionato "dominio della libertà", e cioè del capitale.
In perfetta sintonia con tutta la classe borghese, Cossiga & C. insistono… ossessivamente (paura dei vivi, altroché!) perché si vada, "senza perdite di tempo", a picconare il livello di forza e di organizzazione politica che ancora conserva il proletariato, capitalizzando a pro della nazione Italia e del suo "importante ruolo" di sfruttamento nel mondo la condizione di sbandamento in cui versa la classe operaia. Ch'essa introietti per il futuro la "sconfitta del comunismo"; che non abbia più a pretendere alcun particolare spazio per le "proprie" organizzazioni, fosse pure di gestione subalterna della società capitalistica; che si rassegni a sciogliersi, "fuori dalle divisioni e dalle contrapposizioni", nella nazione e nello stato: tale il primo e il principale obiettivo dei forsennati attacchi di Cossiga al PDS, non per ciò che esso è, ma per la contraddizione sociale che, suo malgrado, contiene e "rappresenta".
Ben lo intende un Fini quando loda nel primo carabiniere d'Italia "il presidente della pacificazione nazionale" e vede nella sua azione l'eco della fascistissima "piena concordia tra gli italiani " volta a "ridare corpo all'idea di nazione" ("Secolo", 12 dicembre), passando naturalmente sul corpo del proletariato, dentro e fuori i confini nazionali (non è per caso se l'assemblea pro-CC, tenutasi al Lirico si sia conclusa con l'acclamazione della riconquista di Istria e Dalmazia).
Pure il secondo ostacolo alle ambizioni imperialistiche dell'Italia, il basso grado di legittimità e di efficienza delle istituzioni, ha a che vedere, se non con il "comunismo", con il "ramo collaterale dell'ideologia comunista" (o "catto-comunismo"), ovvero con quel tanto di "welfare popolare" sopravvissuto qui da noi ai venti thatcheriani degli anni '80, grazie ad una certa complicità DC-PCI. Anche sotto questo aspetto, perciò, nessuna tregua al PDS, perché "oscilla tra il desiderio di cambiare e quello di innestare la marcia indietro", ovvero perché continua a tener conto (e si sa come…) delle aspettative immediate dei lavoratori. Ce n'è, comunque, pure per il "sistema dei partiti" che - è detto sempre nell'intervista a "Le Monde" - non funziona, si rende responsabile di ruberie non controbilanciate da "capacità di governare" ed ha permesso l'esplosione della "crisi di legalità che si esprime con la mafia e la camorra".
Il "regime politico che andrebbe bene per l'Italia"… "uscita dal dopoguerra"? Un "regime presidenziale sul tipo di quello che esiste in Francia". Formalmente, perciò, non una democrazia plebiscitaria; e tuttavia, poiché sono molte le resistenze conservatrici ad una simile riforma politica (tra essi vi è l'atteggiamento della DC o di parte della DC, si è reso indispensabile l'appello diretto alla "gente" sopra la testa del parlamento e del "sistema dei partiti". Donde la lucida determinazione ("io non sono pazzo, faccio il pazzo") a menar fendenti "antipartitocratici" dall'alto del Quirinale per spezzare l'immobilismo che "ci" provoca, a "noi" capitale made in ltaly, una "perdita di tempo" nella competizione sul mercato mondiale e nella messa in riga del proletariato così come attesa (armi alla mano) dal 1948.
Il PDS, che non ha speso una sola parola contro il contenuto chiarissimamente anti-operaio (altro che "oscure trame"!) della strategia di Cossiga & C., accusa invece costoro di attentato golpista alla Costituzione. Ma è un'accusa sciocca (tale è sempre il legalitarismo) e contraddittoria.
Sciocca, perché è evidente che questa strategia, che sta in linea di sostanziale continuità con il carattere anticomunista ed anti-proletario della Il prima repubblica" imperniata sul predominio della DC, mira non a sopprimere la democrazia borghese, bensì a riorganizzarla in modo più centralizzato ed anzi a rilegittimarla con il ricorso al "voto popolare".
Contraddittoria, perché dopotutto il "partito" di Cossiga si limita ad estremizzare un po' in senso liberal-centrista (quanto a contenuto sociale) e plebiscitario (quanto ai metodi di acquisizione del consenso) il presidenzialismo craxiano di ieri, che non a caso ne rimane, pur con qualche attrito e disagio, il più prossimo interlocutore. Cosa, dunque? Sarebbe stato proprio il PSI di Craxi, l'insostituibile partner di qualsiasi "alternativa di sinistra", a spianare la strada all'ultra-presidenzialismo golpista... Davvero difficile far quadrare i conti "a sinistra"!
Inevitabile, su queste basi, che il PDS debba lasciar lentamente cadere, come sta facendo, la sua accusa e la richiesta di impeachment. In realtà, la sola, vera lotta che può e deve essere condotta contro gli attacchi del "partito del presidente" (e di tutte le altre frazioni borghesi) è la lotta di classe combattuta in nome degli interessi del proletariato.
In assenza di una tale lotta, non desta meraviglia che l'ipotesi-Cossiga di riforma del "sistema politico" stia avanzando senza troppi ostacoli nella società. Il suo successo si spiega, inoltre, e con i potenti appoggi che essa ha ricevuto dal grande capitale (il Quirinale ha goduto e gode, in generale, di buona stampa e ottima televisione), e con il maturare "nel paese", ed anzitutto nella piccola borghesia, di uno stato d'animo di paura per le incertezze del futuro, che sta trovando un naturale punto di coagulo intorno a quella che, giustamente, appare come la proposta di uno stato più efficiente, meglio organizzato, più forte nel difendere"ci" dalle minacce al "nostro" status quo.
Piombata nel mezzo di sconvolgimenti a catena che mettono in forse la possibilità di continuare a fruire di un ordinato e pacifico sviluppo, la massa delle mezze classi inizia a temere di non poter più vivere come prima. G. Bocca ha parlato, a questo proposito, addirittura di angoscia, "l'angoscia dell'Europa ricca e civile, assediata, sovrastata dal franare dei sistemi e dei confini, dal debordare delle maree demografiche dell'est come del sud e di tutto il mondo povero". Questo malessere, questo timore di poter essere investiti da un processo di impoverimento e di declassamento spinge la piccola borghesia a serrare i ranghi, a raggrupparsi, "al di là delle divisioni tra destra e sinistra", in quanto generico "popolo degli onesti" o "gente comune" indifesa e minacciata.
Tale movimento allo stato nascente, che già da qualche tempo alimenta in Europa la rinascita di una destra popolare xenofoba di massa (un esempio per tutti: il Fronte nazionale di Le Pen), comincia ad essere ben tangibile anche in Italia, seppure in forme differenziate tra nord e sud.
Al nord ha messo capo, per ora, al fenomeno leghista che va assumendo abbastanza rapidamente le proporzioni di una valanga. Un fenomeno che, sviluppandosi, sta parzialmente mutando il suo reale significato politico. Nato come movimento " autonomistico" più veneto che lombardo e rimasto per anni - con questi attributi - una forza marginalissima, il movimento delle Leghe (con nuovo centro a Milano) ha acquistato una singolare importanza nell'ultimo biennio in quanto prima concreta espressione popolare dell'interesse e della pressione della borghesia a superare "in avanti" le proprie vecchie rappresentanze politiche e le proprie vecchie istituzioni.
Dentro le Leghe la pletora piccolo-borghese (e non solo), ma dietro le Leghe settori non tanto secondari dell'industria, della banca, della borsa.
Quel che distingue sempre più il leghismo e lo rende ora convergente con l'azione di Cossiga & C. (con cui appena un anno or sono aveva avuto duri scontri) è un'istanza "antipartitica" ed "anti-sistema" che esprime una domanda d'ordine, di rafforzamento dello stato. L'agitazione contro la "partitocrazia" parassitaria, che succhia e divide le energie della nazione, che per la sua debolezza e corruzione ha consentito a mafia e camorra di diffondersi, apre la via alla richiesta di più stato (sia pur con l'accentuazione del dato federalista), di nuove e più forti istituzioni capaci di stroncare ogni potere illegale, di una maggiore compattezza del corpo sociale in senso nazionalistico (sia pur con l'accentuazione e la complicazione, se si vuole, del regionalismo, che altro non è, però, se non una sottomarca di nazionalismo).
Siamo in presenza di un "eversivismo" d'ordine ancor piuttosto moderato, che accetta di passare democraticamente attraverso il voto ed i metodi parlamentari, che di diciannovista, di "rivoluzionario "-barricadero ha al momento quasi nulla; ma che già funziona da serra calda per la maturazione di nuovi movimenti e di nuovi umori più direttamente ed aggressivamente anti-proletari. Se il collante ideologico del leghismo non è, allo stato, l'anti-bolscevismo, è perché esso (più empirico del "partito del presidente") non vede il proletariato come un pericolo immediato. Si può star certi, comunque, che quei contrassegni non mancheranno di venire alla luce quando un tale pericolo si materializzerà. Per l'intanto le Leghe fan già da veicolo di politiche sciovinistiche anti-terzomondiali ed anti-immigrati, e lavorano a balcanizzare il proletariato di qui, insomma la loro funzione anti-operaia è fin da subito pienamente operante.
Anche al sud sta montando l'onda dei sentimenti e perfino la mobilitazione di piazza a favore di un rafforzamento autoritario dello stato. Diverso ne è, in superficie, il movente apparente: nella Padania la "rivolta" contro la "partitocrazia", nel Mezzogiorno quella contro lo strapotere della malavita. Differenti ne sono anche le forme di manifestazione, dacché non si dà al sud (e per le particolarità del suo tessuto sociale, è difficile che si dia) l'omologo delle Leghe. Ma gli umori di fondo che anche al sud stanno formandosi nel "popolo" delle classi medie (i commercianti in testa) e che spesso trovano albergo negli stessi partiti "anti-cossighiani", sono senza meno analoghi a quelli che si ritrovano nelle Leghe.
Sentite ad esempio come sette sindaci democristiani della Valle Caudina hanno motivato il loro invito a Cossiga perché andasse in visita nella loro zona: "A lei forse nel palazzo non giungono gli echi favorevoli della gente comune; noi nei palazzi piccoli, a contatto con i problemi e le incertezze del quotidiano, sentiamo (sentono bene - n.) che nel 'piccone' si intravede lo stimolo a dare la certezza della forza dello stato". E poi: "Noi siamo di quella terra che vide parecchi suoi figli legati da quel giuramento allo stato (che è anche di C. & C.) e che ogni giorno ne apprezzano la dedizione al dovere a garanzia della legalità e li apprezzano anche quando fanno sentire la loro opinione sui problemi reali" ("l'Unità, 21 dicembre), e così via cocerizzando.
E cos'altro andrà a perorare in parlamento dagli scranni del PDS il capo-combriccola dei novelli eroi della lotta anti-mafia, i commercianti di Capo d'Orlando: l'interesse della classe operaia ad attaccare tanto le vecchie istituzioni capitalistiche quanto le nuove in gestazione (inclusa, in entrambi i casi, la mafia che ne è, a suo modo, parte integrante)? o non, invece, a reclamarvi, in nome della lotta alla criminalità organizzata, uno stato borghese più energico, che amplii organici e poteri delle varie polizie e sia più efficiente nell'imporre la propria autorità (l'autorità della classe sfruttatrice ed accumulatrice) nei confronti di chicchessia, classe operaia ben compresa?
C'è, dunque, un processo, oggettivo e soggettivo, di convergenza tra l'incalzante azione centralizzatrice svolta dal presidenzialismo plebiscitario di fatto di Cossiga e la petizione di nuove, (capitalisticamente) "più sane" e più forti istituzioni che democraticamente sale da tutti gli strati borghesi che succhiano dal proletariato. Il quale, per converso, attraversa una fase di gravi difficoltà. Ma ciò non vuol dire che la transizione alla "seconda repubblica" sarà poco accidentata. Al contrario. Per il momento, la confusione nel campo borghese non fa che accrescersi, e quest'ultimo si presenta come un terreno di scontro di tutti contro tutti.
Come il marxismo sa bene, il potere statale, la politica, il diritto, sebbene siano "sovrastrutture" della produzione sociale che è, rispetto ad essi, l'elemento che in ultima istanza decide", hanno nei confronti della produzione e delle sue necessità una "parziale autonomia". Per dirla con le parole di Engels (lettera a Conrad Schmidt, del 27 ottobre 1890): "V'è azione e reazione reciproca fra due forze ineguali, fra il movimento economico e una nuova potenza politica che aspira alla maggiore autonomia possibile e che, una volta costituitasi, è pur essa dotata di movimento proprio; il movimento economico si impone nell'insieme, ma non può non subire il contraccolpo del movimento politico da esso provocato e investito di relativa autonomia del movimento del potere statale da un lato, dell'opposizione contemporaneamente suscitata dall'altro". Ecco la contraddizione ineliminabile nella società borghese (e più in generale nelle società divise in classi): il complesso delle persone "delegate a date funzioni comuni", e cioè il potere politico, acquista "particolari interessi" anche nei confronti dei suoi "mandatari", e fa di norma resistenza a quelle innovazioni dettate dal "movimento economico" della società che comportano una amputazione delle proprie prerogative.
Ora, il "movimento economico" del "nostro" capitalismo da tempo preme per un deciso accentramento del potere statale, per una disciplina sociale rigida e, più di recente, per un robusto potenziamento dell'apparato bellico. Ma a questa pressione la democrazia semiconsociativa italiana (con il potere esecutivo inamovibilmente alla DC ed ai suoi alleati di centro-sinistra, ed il PCI ed i sindacati ammessi a compartecipare alla gestione delle cose sociali quali rappresentanti "operai") sta adeguandosi con una lentezza che al grande capitale appare sempre meno tollerabile.
E' una lentezza che si spiega in larga misura proprio con la radicalità della ristrutturazione in gioco. Riallineare tutti i poteri, sia centrali che locali, ad un vertice di governo sempre più ristretto e potente; tagliare di netto o ricondurre all'ordine corporazioni legali e "illegali" abituate a fare nel proprio ambito il bello e il cattivo tempo; variare consolidati metodi di amministrazione (in campo politico, civile e militare); è operazione che comporta un pagamento di penalità da parte di una congerie di strati borghesi e sottoborghesi largamente beneficiati per decenni dal "regime democristiano" o ammessi più di recente a dati privilegi a seguito di "accordi consociativi". 1a Repubblica" (del 21 dicembre) parla addirittura di una "classe politica" composta da "milioni di individui che hanno le mani sui meccanismi di comando a tutti i livelli e quasi in ogni luogo, ma che non sono, però, in grado di dare alcun impulso a questi meccanismi, limitandosi a detenerli", e che "permea, con la sua invadenza pervasiva, ogni articolazione della società e porta con sé l'immobilismo come condizione ineludibile"…Esagerazione a parte, è un fatto che gran parte della DC (da un lato) e del PDS (dall'altro) sia refrattaria ad una drastica ristrutturazione delle istituzioni per ragioni che hanno molto a che vedere con i rispettivi retroterra sociali di massa.
Il risultato di queste spinte del "movimento economico" è una impasse che mette in causa, per la prima volta dal 1945, la centralità politica della DC nello stato. Essa ricorda quella legata al logoramento del giolittismo.
Ad inizio secolo il giolittismo incarnò, per un buon quindicennio, una politica borghese di cauto allargamento delle basi della democrazia che, fruendo di un periodo di ascesa economica, riuscì ad assicurare, dopo gli asprissimi scontri di classe di fine '800, un non breve intermezzo di pace sociale. Con l'apertura al movimento cattolico (ed alle masse contadine) e l'accorta tessitura di fili con il socialismo riformista (ed una parte del movimento operaio), il liberalismo giolittiano sembrò realizzare un solido avvicinamento tra le classi proprietarie (industriali ed agrari) e le classi lavoratrici (proletariato e contadiname). Divenne quasi leggenda la sua capacità di intrecciare espedienti e compromessi su un fronte e sull'altro, concessioni e corruzione, ottenendo sistematicamente lo sperato esito conciliatorio. Ma quando d'improvviso la scena (internazionale) cambiò con lo scoppio della guerra, e davanti alla guerra e poi alla rivoluzione proletaria la società italiana ed il mondo intero si spaccarono in due, risaltò d'un colpo come il "riformismo" giolittiano fosse ormai consunto. La grande borghesia cambiò di spalla al suo fucile, e Giolitti stesso ne ammise la necessità dando la sua investitura al primo governo Mussolini con le seguenti parole: "La vita politica italiana ha bisogno di sangue nuovo, di forze nuove".
Non diciamo di essere ad un nuovo 1915. Ma il capitale avverte, quanto noi rivoluzionari, che il più lungo periodo di sviluppo e di "pace" dell'epoca imperialista è concluso. E' che siamo già dentro un ciclo di catastrofi, di guerre, di rivoluzione, per affrontare il quale abbisogna di "sangue nuovo" di "forze nuove", di nuove istituzioni.
Per la borghesia, l'ideale sarebbe che l'attuale "sistema politico" fosse capace di auto-riforma, sì da rendere passibile una transizione al "nuovo" non traumatica. Non è un caso se l'unico atto ufficiale compiuto dalla presidenza della Confindustria in materia di riforme istituzionali, sia stato quello di sottoscrivere (all'unanimità) i referendum Segni-Giannini, le cui iniziative, come ha scritto il "Corriere della Sera" del 12 dicembre, "rispondono perfettamente all'ansia del fare che anima il mondo imprenditoriale".
Per quanto possibile, quindi, il padronato preferisce i cambiamenti graduali. Del resto, è con questa processualità che finanza e grande impresa hanno potuto incamerare finora una serie di importanti modifiche accentratrici ed anti-operaie sia alla costituzione materiale che a quella formale: dalla abolizione della scala mobile alla limitazione del diritto di sciopero; dagli accresciuti poteri del Tesoro rispetto al parlamento all'accentramento del potere monetario sulla Banca d'Italia; dal varo del piano di ristrutturazione dell'esercito all'avvio del coordinamento tra le tre armi della polizia; ecc. E non c'è dubbio che quest'azione reazionaria-riformatrice sia stata svolta spalla a spalla con DC, PSI e soci.
Ma gli avvenimenti internazionali sono incalzanti. Il tempo stringe (da cui "l'ansia del fare"…) ed i lenti progressi, gli stessi applauditi referendum, non bastano. Anche De Benedetti, il più sinistro tra i capitolasti, lascia cadere le perifrasi: "dobbiamo con forza e forse con veemenza, certo con velocità, accingerci a ricostruire il Paese" ("la Repubblica", 10 dicembre).
Forza, veemenza, velocità: il neogiolittismo democristiano non sembra dare, a riguardo, adeguate garanzie. Incancellabile resta, per la borghesia italiana, il suo merito storico; e però per l'eccezionale emergenza alle viste servono nuovi metodi, nuove canaglie (attingibili, evidentemente, anche dall'ottimo serbatoio DC). Da qui il "movimentismo" padronale in campo politico con l'appoggio alle Leghe, la proposta scalfariana di una Lega nazionale degli "onesti" (che, quanto a sostanza, somiglia come una goccia d'acqua a quella dell'odiato "gladiatore" Cossiga…), il sostegno al Comitato per i referendum, l'impulso a varie iniziative "trasversali" ai partiti della maggioranza e, in parallelo, l'incessante martellamento "anti-partitocratico" di tutta la stampa padronale e l'incondizionato schieramento, fino ad un dato momento, con l'azione di Cossiga.
Ben altrimenti radicata nel tessuto sociale di quanto lo fosse il giolittismo, la DC reagisce a questo lavoro ai fianchi con un arroccamento che, proprio per il suo non indifferente peso "residuale", può creare seri inconvenienti ai suoi "mandatari". Ma questa sorda resistenza del "potere democristiano" e di una parte del suo vecchio sistema di alleati a disboscare in fretta il "sistema" politico-amministrativo, sta a sua volta, per reazione, accrescendo appunto l'insofferenza del grande capitale. Una insofferenza ben interpretata dal "partito" del Quirinale che, però, nel tentativo di forzare tempi e situazioni, si è reso protagonista di l'eccessi" duramente criticati da chi sovrasta ad esso (due "forze ineguali"…).
E' dall'esternazione del Cocer dei carabinieri in poi che sempre i soliti "mandatari" hanno preso a richiamare all'ordine Cossiga: "Il censore della partitocrazia rischia di trasformarsi in apprendista stregone e di accentuare, con le sue provocazioni, uno dei maggiori difetti del sistema politico italiano: la frammentazione del Paese in corporazioni che confondono i loro obiettivi di gruppo con il bene del Paese", in tante corporazioni "senza patria e senza stato": così l'organo della Fiat del 5 dicembre. I servi, dunque, facciano i servi (silenzio!, e reprimere). I megafoni facciano i megafoni senza l'eccedere" dai compiti loro. Ordini e regole li dettano i padroni del vapore. In caso contrario, può ingenerarsi un processo incontrollabile di sola frammentazione a catena del potere politico con un risultato paradossalmente opposto a quello di centralizzazione perseguito.
Pertanto, se è evidente l'esigenza, per il "nostro" capitalismo, di realizzare una grande svolta nel potenziamento in senso reazionario delle proprie strutture democratiche sul piano sociale, politico, ed istituzionale, il percorso per portarla a compimento si presenta assai accidentato. Le incognite sono molte, in tutti i campi. E la fondamentale tra esse è data, naturalmente, dal comportamento che avrà il proletariato. Sarà possibile al padronato mettere il morso al debito pubblico ed abbattere i differenziali di inflazione e di competitività rispetto ai paesi concorrenti senza determinare la massiccia scesa in campo della classe operaia e, al suo seguito, di quel lavoro salariato non operaio per il quale gli anni '90 segnano "la fine della festa"? E sarà possibile coinvolgere il proletariato (i cittadini proletari) nella rifondazione democratico-totalitaria delle istituzioni borghesi, quando da un lato lo si deve duramente bastonare, e dall'altro si restringe di brutto lo spazio riservato alle "sue" rappresentanze?
Non vi sono certezze per il futuro immediato, tanto più che questo potrebbe aprirsi con l'elezione di un parlamento "alla polacca", con una costellazione di forze politiche ancora più varia e frastagliata di quella attuale. L'unica cosa che possiamo dare per certa al 100% è che i nuovi sconvolgimenti su scala mondiale, ogni ulteriore perdita di terreno del "nostro" imperialismo ed ogni ulteriore ritardo nella riorganizzazione del suo apparato statale faranno irrompere sulla scena spinte ed organizzazioni ancor più aggressivamente reazionarie di quelle oggi in campo.
Nell'arco di un solo anno, d'altronde, il dilemma tra la moderata prospettiva referendaria (rafforzamento dell'esecutivo con il premio di maggioranza) e quella più radicale della repubblica semi-presidenziale è stato scavalcato di slancio dalla comparsa di un ultrapresidenzialismo che s'appella direttamente "al popolo". Ed è piuttosto indicativo, pure, che uno dei più accreditati portaparola del Quirinale (nelle piazze!) sia il partito neo-fascista (nessuno scandalo, però, mammolette democratiche: è la "repubblica democratica nata dalla resistenza" che lo ha riammesso da quel dì doverosamente nelle proprie fila, perché la democrazia non è antagonista, bensì diversa e complementare rispetto al fascismo). Né meno sintomatico è che a far concorrenza in questo squallido incarico al fascismo doppiopettista si siano fatti avanti da Parigi due dei massimi esponenti dell' "estremismo" sessantottino e settantasettino…
Disgraziatamente, il proletariato arriva a questo importante svolto non soltanto privo del proprio Partito Comunista (per la cui ricostituzione non sono ancora maturi i tempi e le precondizioni), ma in uno stato di sbandamento e di atonia sul piano "politico" (anche se non cessa di resistere su quello immediato), che le "sue" organizzazioni nazionali di riferimento (PDS e Rifondazione, come anche la CGIL) non fanno che aggravare.
Questa disgrazia "viene da lontano". Chi ci legge sa che nella nostra visione lo stato soggettivo della classe viene ricondotto anzitutto a cause storiche ed oggettive, astraendo dalle quali esso risulta incomprensibile o mal compreso. Questo oggettivismo, però, - e pazienza se c'è chi si ostina a non intenderlo -, non ha mai significato per i marxisti, neppure nel momento di massimo trionfo universale della menzogna riformi sia - stalinista, tacere sulle responsabilità delle direzioni riformiste e socialdemocratiche oppure rinunciare alla lotta, anche la più impari, alla prospettiva riformista borghese camuffata in abiti "operai".
Se dunque è lungi da noi attribuire banalmente alla Quercia la responsabilità esclusiva del fatto che il proletariato è in una condizione di passività politica davanti alla sfida del nemico di classe, resta nondimeno indiscutibile che la politica del PDS è pienamente compartecipe dell'attacco che il proletariato sta subendo, e per tale denunziata e contrastata. Lo è a misura che porta la classe operaia verso un durissimo scontro con il capitale completamente disarmata sul piano programmatico e sempre più disorganizzata anche sul piano "fisico"; ciò che non solo la indebolisce di fronte agli assalti della Confindustria, del governo, del "partito" di Cossiga e di quant'altri, ma perfino ne espone dei settori all'influenza delle nuove aggregazioni antiproletarie (v. le Leghe).
Il fatto è che anche per il PDS, in tutte le sue aree, il "sommo bene" che le istituzioni debbono tutelare sono gli interessi dell'economia nazionale, la competitività del "nostro" capitale sul mercato mondiale. Sulla base di questo assioma social-imperialista (punto di arrivo naturale della "via italiana al socialismo"), esso si fa pieno carico delle difficoltà del capitalismo nazionale e, al pari dei suoi più accaniti accusatori, ritiene che il primo compito del nuovo governo e del parlamento dovrà essere quello di riformare la macchina statale in senso efficientista ed accentratore. Non deve trattarsi, però, chiede il PDS, di una riforma di tipo autoritario.
Al pericolo di una involuzione autoritaria il partito di Occhetto oppone "la necessità storica ineludibile di costruire un nuovo patto tra gli italiani, cambiandolo anche radicalmente, ma fondandolo su solide basi democratiche", ("l'Unità", 8 dicembre). Che si vuol dire?
Parlano, in proposito, sia le parole che i fatti - Il PDS accetta l'archiviazione del vecchio "patto antifascista". Accetta altresì un maggior accentramento dei poteri, anche radicale, nelle mani del governo (rispetto al parlamento). Fa suo il principio maggioritario bollato nel '53 come legge-truffa, come ha fatto sue le leggi di emergenza sulla repressione, le limitazioni del diritto di sciopero, l'esercito di mestiere, la soppressione della scala mobile, ecc. E' disponibile ad ammorbidire la sua opposizione allo stesso progetto della repubblica presidenziale. E pronto, sulla base della più ferma abiura di qualsivoglia richiamo al socialismo, a sottoscrivere un "nuovo patto" tra tutti gli italiani… veri, e perciò senza alcuna discriminazione a destra. Purché non si arrivi agli estremi del presidenzialismo selvaggio alla Cossiga (selvaggio, naturalmente, non già nella sua offensiva anti-proletaria, ma nella sua violazione delle "corrette regole istituzionali") e della esclusione di fatto dell'ex-PCI da ogni ruolo di cogestione delle nuove istituzioni. Ché, in tal caso, si avrebbe "la rottura del patto democratico su cui si fonda questa Repubblica ed il nostro paese andrebbe in frantumi".
Quanto la proposta pidiessina sia concessiva rispetto all'offensiva capitalistica in atto, lo si può vedere dando un'occhiata a quelli che dovrebbero essere i contenuti economico-sociali e gli interlocutori privilegiati del "nuovo patto" nazionale ultrapatriottico.
Per Turci, presidente della Lega delle cooperative, quel che serve (all'Italia) è un "cartello dei produttori", un accordo tra imprenditori e mondo del lavoro, il cui "programma alternativo" (?) dovrebbe incentrarsi sulla detassazione dei profitti, le privatizzazioni ed il blocco del costo del lavoro (con taglio definitivo della scala mobile '1'Unità, 30 dicembre). Per Andriani, ministro per le attività produttive del governo-ombra, una delle "riforme istituzionali" da introdurre nelle imprese dovrebbe essere l'ingresso del modello giapponese di organizzazione del lavoro più adatto di quello Fiat a "coinvolgere" (!) i lavoratori ("l'Unità", 8 gennaio). A dire di Mussi, responsabile PDS per il lavoro (o per il capitale?), tra le "controforze sulle quali far leva per riformare e rinnovare l'economia e lo Stato" va ricompresa la montante critica degli industriali e di una parte non piccola delle classi medie, contro il potere e il governo in carica" ("l'Unità", 23 ottobre). Per Occhetto e l'intera Quercia, infine, sarebbero la Rete, i verdi, il PRI, i radicali, un PSI ravveduto e parte della DC (o quasi tutta, ora che è in conflitto con Cossiga9) le forze da coinvolgere per sventare la soluzione autoritaria…
Insomma, il PDS pretenderebbe di poter bloccare l'offensiva reazionaria ed autoritaria in corso facendo fronte proprio con le classi (grande e piccola-media borghesia accumulativa) e con la gran parte delle organizzazioni politiche che l'hanno promossa o le hanno spianato il terreno! E' polemica preconcetta la nostra quando diciamo che il PDS è pienamente complice di tale attacco che pure verbalmente depreca e che, certo, vorrebbe non arrivasse alle estreme conseguenze?
Per una beffa non strana (nella storia del riformismo è regola) anche questo tentativo di ricontrattazione politica all'estremo ribasso fatto dal PDS si scontra con una serie di no delle forze sociali e politiche "solidamente democratiche" a cui è rivolto. Come ebbe a dire Trotzkij: "Quando mai la borghesia ha concesso qualcosa a coloro che non temeva?". Più di mezzo secolo di smobilitazione riformista e socialdemocratica della forza del movimento proletario ha indebolito a tal punto le stesse istituzioni riformiste che queste faticano sempre più a conservare degli spazi di contrattazione "autonomi".
Non vogliamo negare, con ciò, che vengano "da sinistra" anche delle denunzie fondamentalmente condivisibili, nella loro parte analitica, delle cause e degli obiettivi dell'offensiva capitalistica. Ne vengono (pensiamo ad es., ad alcuni esponenti sindacali come Bertinotti, Cremaschi, ecc.). Ma il guaio è che tutto finisce per restare allo stadio dell'analisi e della declamazione, a misura che non si dà battaglia sul serio alla politica di subordinazione agli "interessi nazionali" dominante nella "sinistra" e nel movimento sindacale, e non si lavora sul serio a mobilitare la massa del proletariato.
Neppure avrebbe senso negare che c'è conflitto tra il PDS e le avanguardie più scatenate dell'offensiva autoritaria. La complicità della socialdemocrazia non deve intendersi mai come suo preventivo e pacifico accordo con la borghesia (il "gioco delle parti" unitariamente deciso "a tavolino"). Sta, invece, nel concorrere (a suo modo) con tutte le altre forze borghesi, e non senza contrasti con esse, a scoraggiare ed a bloccare l'azione anticapitalista del proletariato, portando la classe disarmata e disunita allo scontro violento con il fronte nemico. Cosa di diverso sta succedendo? Il PDS grida al golpismo, ma non fa nulla per coinvolgere realmente i lavoratori in una risposta di lotta ad esso. La stessa proposta di impeachment si va svolgendo per intero sul terreno delle regole e delle…"oscure manovre" parlamentari. Strano, poi, che i dirigenti del PDS lamentino che i sindacati sono rimasti in assoluto silenzio finanche davanti al pronunciamento del Cocer: non han dato proprio loro un contributo decisivo ad allineare sempre più anche la CGIL agli "interessi generali" del "nostro" capitalismo?
Nella sostanza il quadro non muta se ci volgiamo a Rifondazione. Neanche da qui è venuta una esplicita denunzia organica del carattere di classe dell'offensiva reazionaria-autoritaria del capitale (e men che meno della crescente aggressività verso l' "esterno" dell'imperialismo italiano), né un chiaro invito a dare ad essa una risposta di classe. Ancora una volta la chiamata alla lotta è avvenuta su basi interclassiste, in nome della democrazia (borghese), della Costituzione (borghese) e del principio proporzionale (idem come sopra). E l'annunciata "battaglia" di piazza è finita - prima di cominciare - in una… fumosa discussione al chiuso tra "addetti ai lavori" e nella riproposizione del più bieco elettoralismo: siano le schede a Rifondazione la diga d'acciaio contro la reazione capitalistica! Se così fosse, saremmo bell'e spacciati!
Tutt'altri sono, per una battaglia storica difficile ma aperta, gli indirizzi d'azione su cui sono chiamati a muoversi i militanti comunisti, su cui opera la nostra organizzazione. Li richiamiamo in sintesi:
La tesi complottista è risibile. In Italia come negli altri paesi imperialisti, la intensificazione dell'attacco capitalistico al proletariato in forme sempre più aggressive è il risultato dell'inasprimento della crisi generale del capitalismo. Finita l'era dello sviluppo, ci si avvia, anche nelle metropoli, ad una accentuazione esplosiva dei contrasti di classe, destinata in prospettiva a sfociare nella guerra aperta tra rivoluzione e controrivoluzione.
Se vuole evitare di soccombere in questo scontro, il proletariato è chiamato, a partire dalla lotta contro l'offensiva capitalistica in corso, ad affermare i propri autonomi interessi di classe, difendendo le sue attuali postazioni e rivendicando per sé tutto il potere, ed a farlo in una battaglia unitaria tanto alle spinte reazionarie più estreme quanto alla democrazia che le nutre.
Per prima cosa è indispensabile che venga spezzata questa assurda e pericolosa situazione in cui esiste sì una forsennata lotta di classe, ma da una parte sola! Il proletariato non può, non deve restare ulteriormente a guardare. t necessario che torni alla lotta!
Sbarrare la strada all'offensiva reazionaria-autoritaria, passare alla controffensiva nei confronti della borghesia tutta, è possibile, a condizione che il movimento proletario, ed anzitutto la classe operaia, schieri massicciamente in campo le proprie truppe, opponga forza a forza, e si batta per sé, con i suoi propri "vecchi" metodi di lotta, sul proprio terreno, che è quello delle fabbriche, dei luoghi di lavoro, delle piazze.
Soltanto così potrà recuperare fiducia in sé e compattezza. Soltanto dando prova di decisione e di organizzazione, potrà diventare, invece che mero bersaglio inerte della mobilitazione popolare d'ordine delle mezze classi, punto di riferimento di settori proletarizzati di esse, e potrà impedire che il sacrosanto odio operaio (e non soltanto operaio) verso il "sistema politico" borghese sia deviato in senso reazionario.
Altrettanto fondamentale della ripresa della lotta è il riarmo teorico e programmatico della classe che con essa deve essere intrecciato, senza un artificiale "prima" e "dopo", ma avendo ben chiaro che nessun autentico riarmo materiale della classe potrà darsi senza la piena ritessitura dei fili della tradizione e della teoria marxista rivoluzionaria, senza la rinascita del Partito Comunista internazionalista capace di guidare l'unificazione del fronte di classe e di dotarlo della strategia e del programma della rivoluzione proletaria.
Tra il presidenzialismo alla Cossiga & C., il semi-presidenzialismo alla francese, i referendum Segni-Giannini, ecc., non abbiamo alcuna "alternativa" meno peggiore da preferire. Non può certo essere interesse del proletariato concorrere a riformare, per rafforzarlo, lo stato che è posto a presidio dello sfruttamento. Lotta, dunque, contro tutti i programmi di riorganizzazione totalitaria del "sistema politico-istituzionale", e contro tutte le singole misure reazionarie-autoritarie sia sul piano sociale (abolizione del welfare, licenziamenti, ecc.) che su quello politico-giuridico. Accanita difesa di tutti gli "spazi" di lotta e di organizzazione, che non sarà l'ordinamento democratico, ma solo la forza di classe a garantire.
Unificazione delle tante forme di resistenza economico-sindacale e loro fusione con una rinnovata lotta politica sul fronte interno ed internazionale. Ad un'offensiva capitalistica che procede, pur nella varietà delle forze e delle funzioni in causa, unitariamente, dobbiamo saper opporre una risposta di classe altrettanto unitaria e centralizzata.
Nonostante sia sotto il fuoco del "partito" di Cossiga (e non solo), il PDS è corresponsabile dell'attacco capitalistico, sia perché veicola nella classe la necessità di difendere la competitività della nazione-Italia (con quel che ne consegue quanto a rafforzamento totalitario dell'ordine borghese), sia perché frena e disperde le potenzialità di lotta della classe. Rifondazione e le ali più a sinistra del PDS e della CGIL assumono, invece, questi problemi da un punto di vista che vorrebbe essere riformista più conseguente, ma cascano male proprio nel rapporto tra il dire (che contiene anche valide denunzie) ed il fare, e si nota la loro latitanza dal terreno di lotta.
Tutte le componenti del campo socialdemocratico-riformista, in realtà condividono la fiducia nella democrazia come in un potere al di sopra delle classi, nei metodi legalitari ed istituzionali, nell'elettoralismo, insomma in tutto ciò che già nel '19-'20 uccise la causa del proletariato.
Una delle colpe politiche non minori di quanti in campo borghese "denunciano" i rischi di involuzione autoritaria (e dei "riformisti" per primi), è che costoro separano interno da "esterno" ed anzi spesso chiedono una compressione meno violenta sul proletariato all'interno onde poterlo coinvolgere non solo nella competizione sui mercati, ma anche negli attacchi militari ("missioni di pace"…) ad altre sezioni del proletariato internazionale.
Per noi comunisti internazionalisti, invece, l'aggressione interna e quella l'esterna" al proletariato sono due facce della stessa medaglia. Non si può combattere efficacemente la prima senza combattere la seconda, e viceversa. Per questo il proletariato non solo non deve rimanere neutrale nei confronti della crescente aggressività economica-diplomatica-militare del «nostro" capitalismo, ma deve combatterla con decisione.
Alla ripresa di virulenza della peste nazional-sciovinista, bisogna opporre la necessità di ricostruire l'unità del fronte proletario internazionale, la solidarietà incondizionata con le masse oppresse dall'imperialismo (ed anzitutto dal "nostro" imperialismo), la battaglia per l'organizzazione e la difesa dei lavoratori immigrati come parte integrante dello schieramento unitario di classe.
Sarà proprio attraverso una battaglia data sino in fondo contro l'offensiva borghese reazionaria-autoritaria, e data senza nulla concedere ai democratici ed ai riformisti che ad essa tengono in vario modo bordone, che il proletariato farà dei passi in avanti sulla propria prospettiva storica comunista, quella di mettere in archivio, con i dovuti metodi anti-democratici, insurrezionali, dei rapporti sociali e delle istituzioni irrimediabilmente decrepiti.