- Torino
- Alcuni segnali da valorizzare
- Napoli
- Un'esperienza sindacale e politica ricca di insegnamenti
- Milano
- Quale risposta contro la scure dei licenziamenti?
- Roma
- Addio al mito della "Tiburtina Valley" e della "nuova figura di operaio"
Ormai il conto viene tenuto a centinai di migliaia. Secondo la CGIL almeno 200. 000 sono i posti di lavoro a rischio in questo avvio di 1992 per procedure di licenziamento già avviate o per mancanza di prospettive per migliaia di operai in cassaintegrazione. E' il primo effetto della fase dì recessione in cui è entrata l'economia mondiale. Altri - e più pesanti - ne seguiranno a scadenze ravvicinate.
La "ripresa" economica della seconda metà degli anni '80 si è ormai, anche nelle dichiarazioni ufficiali, esaurita, e con essa i suoi miti.
Al capitale imperialista urgono risorse sempre più ingenti per finanziare una nuova "ripresa" dei profitti. Le ricette sono le solite: elevare il drenaggio di ricchezza dai paesi dominati (sospingendo nel "terzo" anche quelli del "secondo mondo") e aumentare lo sfruttamento del proletariato. Nell'una e nell'altra ricetta cambia solo il dosaggio degli ingredienti. Cresce, con il crescere della fame di risorse.
Come agli inizi degli anni '80siprofila, dunque, un nuovo violento attacco anti-operaio. Diverso da quello sarà solo per il maggior grado di violenza con cui verrà portato.
A quei tempi si cercava di convincere gli operai ad accettare i "sacrifici" in vista di una ripresa del benessere generale. Oggi questo argomento è spuntato per due motivi: il primo è che, pur essendoci stata, la "ripresa" non ha affatto generalizzato i suoi benefici, anzi i livelli salariali hanno continuato a calare grazie all'inflazione e alla marcia verso l'alto della fiscalità generale, l'una e l'altra non compensate dagli aumenti contrattuali strappati negli ultimi anni; il secondo è che gli stessi solerti funzionari del capitale non sono affatto sicuri di poter promettere una nuova "ripresa", né una sua degna durata. Si naviga sempre più a vista.
Una seconda differenza dagli anni '80 è nella estinzione degli "ammortizzatori sociali", sia quelli istituzionali (Cig e scala mobile in primis, entrambi affossati col consenso sindacale) che quelli legati al mercato (allora le piccole imprese industriali e artigiane assumevano buona parte degli "esuberi" delle grandi, oggi versano in una crisi forse più profonda di esse).
Non solo la ripetizione di un attacco, quindi, ma la continuazione di esso con un nuovo ulteriore salto.
Per la classe operaia il bilancio è tutto negativo. Per anni ha subito una decurtazione salariale in virtù delle politiche del governo e delle amministrazioni locali che hanno moltiplicato tasse, tariffe, tickets, ecc. Oggi subisce anche diminuzioni del salario diretto: tutte le quote di salario legate agli l'obiettivi di impresa ", diffusesi come un'epidemia nelle vertenze aziendali della fase di "ripresa", rischiano di svanire come neve al sole col procedere della recessione e della conseguente caduta della produzione.
Per un breve lasso di tempo forse anche gli operai hanno pensato che la situazione si era tranquillizzata, che, tutto sommato, il "mercato" stava dimostrando di apportare anche qualche beneficio, per lo meno sul piano dell'occupazione (ripresasi negli ultimi due-tre anni anche nelle fabbriche); non ancora sul piano salariale - è vero - ma, chissà, qualche possibilità di recupero - magari con un sindacato "diverso", - forse ci sarebbe stata anche su quello. Speranze ormai senza fondamento.
Non solo continua l'attacco al salario, ma riprende, massiccio, quello all'occupazione, per l'aumento della produttività e per smantellare l'organizzazione operaia.
La successione di questi avvenimenti ha prodotto tra gli operai un certo disorientamento. Se si considera, poi, la durezza dell'attacco subito per dieci anni anche sul piano politico, con il risultato ultimo di trovarsi, come classe, completamente isolati nella società, senza più un'organizzazione politica che avesse nel proletariato (e sia pur in un quadro riformista) l'asse di riferimento, e con quella sindacale più attenta alle richieste padronali che alle proprie, le ragioni di disorientamento sono ancora più comprensibili. Ma chi dalla somma di questi elementi volesse trarre l'equazione di una classe operaia ormai doma e prona prenderebbe sicuramente un abbaglio.
E' quanto dimostriamo con le pagine che seguono, che non hanno - è ovvio - la pretesa di descrivere la situazione di tutta la classe operaia, né di svelare alcunché di ignoto, ma richiamano alla attenzione una serie di iniziative e di lotte per trarre da esse alcune necessarie lezioni, che brevemente riassumiamo.
- Gli operai non hanno subìto con passività le nuove dure misure contro di loro. Hanno reagito ovunque, dimostrando di essere in grado di rispondere con la lotta alla sfida lanciata dalla borghesia.
- Il limite maggiore di questa prima risposta sul piano immediato risiede nella sua frammentazione. Non sono mancati, è vero, momenti di coordinamento a livello zonale o cittadino, ma è mancato il necessario salto a lotta generale, cioè allo stesso livello dell'attacco capitalistico. L'ostacolo principale all'estensione e all'unificazione del fronte di lotta è frapposto dalla politica dei sindacati che fanno il possibile (e l'impossibile) per non disturbare troppo il manovratore capitalista, e per tenere le varie trattative al gradino più basso e slegate tra loro, invocando al più l'intervento del governo per chiedergli commesse perle aziende nazionali in crisi o maggiori fondi per i prepensionamenti. Con l'accordo del 10.12.91 sull'annullamento della scala mobile, anzi, CGIL-CISL-UIL hanno decretato la fine di un altro elemento che aveva svolto, finora, pur con tutte le "riforme" subite, una funzione di legame e di unificazione tra tutti i lavoratori.
- Un segnale fortemente positivo delle ultime lotte è la mobilitazione di molti giovani assunti negli ultimi anni. Giunti in fabbrica, per lo più, con la convinzione di trascorrerci soltanto un breve periodo prima di cogliere una delle tante migliori occasioni che la "ripresa" prometteva, iniziano oggi a scoprire la vacuità di quella propaganda e sono sospinti a dover difendere quella che appare ormai l'unica occasione "possibile", e le condizioni di essa. Comincia a scendere in campo una classe operaia giovane, che va accumulando tutta la rabbia necessaria contro il capitale, e che non ha su di sé ferite per precedenti sconfitte o arretramenti. Un segnale significativo per l'oggi, ma ancor più promettente per un futuro prossimo e meno prossimo.
- Sul disorientamento attuale del proletariato pesa anche la mancanza di un solido referente politico. Questo ruolo il vecchio PCI l'aveva, bene o male, dal punto di vista degli operai, svolto. Il PDS, nato dalle sue ceneri, non ha alcuna volontà di prenderlo su di sé, e - pur tra vari contorcimenti, soprattutto alla "sinistra" - rifiuta programmaticamente di essere identificato come "il partito degli operai" (il che non vuol dire che rinuncia a ricercare consenso tra gli operai, né che gli operai abbiano cessato di considerarlo come un partito che più tiene in conto le loro esigenze). A recitare quella parte ci prova il PRC (Partito della Rifondazione Comunista). E, infatti, la sua costituzione ha suscitato aspettative in molte avanguardie operaie e in vasti settori di classe.
L'attacco anti-operaio in corso costituisce il primo banco di prova nel rapporto PRC/operai. Il risultato non è molto incoraggiante, non per noi che non avevamo bisogno di ulteriori prove -, ma per quegli stessi operai che avevano riposto fiducia in Rifondazione. Il PRC ripropone la vecchia consunta ricerca di mediazioni sociali sempre meno realizzabili, per far quadrare il cerchio tra un "sano rilancio dell'economia nazionale" e "un'equa ripartizione dei redditi". Alle situazioni di crisi aziendali fornisce risposte di piani di intervento istituzionale, di pressione sugli enti locali o francamente devianti, come a Milano, dove spiega l'attacco all'Ansaldo e alla Pirelli come dovuti semplicemente alla "speculazione edilizia" sulle aree dove risiedono gli stabilimenti. E così, più che fungere da cassa di risonanza (sia pure riformista) delle lotte operaie, da elemento di loro rafforzamento ed estensione, il neonato PRC si prodiga a diffondere a pieno volume solo… tanta confusione.
Il quadro emerso da queste prime risposte operaie è fin troppo chiaro. Il primo passaggio da compiere è quello di stabilire un coordinamento tra tutte le realtà di lotta e tendere a un allargamento del fronte che vada oltre di esse, per rintuzzare colpo su colpo l'iniziativa capitalista su tutti i piani, mirando a raccogliere l'intero proletariato, compresi i lavoratori immigrati destinati a toccare ancora più drammaticamente con mano, con la crisi in corso, i perfetti (dal punto di vista del capitale) meccanismi della legge Martelli. Perdere il posto di lavoro per loro significa, infatti, perdere anche il diritto al "permesso di soggiorno" (per quelli che sono riusciti a ottenerlo) e subire la conseguente espulsione.
Lavorare, dunque, a ricostruire un tessuto organizzativo unitario per dare continuità, estensione e forza alla lotta di resistenza contro gli attacchi della borghesia sul piano economico, e per iniziare a dare una risposta di classe all'attacco che la borghesia va conducendo anche sul piano politico con la ristrutturazione in senso reazionario-autoritario della stessa "democrazia". Ecco il compito cui l'intera classe operaia è chiamata, e i comunisti con essa.
Sulla classe operaia torinese (e Fiat in special modo) grava ancora una debolezza politica derivata dalla sconfitta degli anni '80, non semplicemente come astratto ricordo, bensì come scompaginamento della rete di avanguardie preesistenti e, quindi, mancanza di consapevolezza della propria forza e di fiducia nei propri mezzi. Da un po' di tempo, però, si danno segnali di un inizio di discussione e di riorganizzazione operaia manifestatisi in una serie di lotte di "resistenza" nelle singole realtà, che concretizzano un mugugno operaio sempre più diffuso e che la stessa crisi e gli attacchi padronali si incaricano di alimentare. E' la stessa realtà che costringe la classe operaia a riflettere e a prendere coscienza del fatto che l'attacco capitalistico sarà più pesante di quello degli anni '80, e, fin d'ora, la costringe a interrogarsi sui modi con cui rispondervi. Qui di seguito diamo uno spaccato, seppur parziale e passibile di anche rapidi mutamenti (se…), della realtà operaia torinese, in cui è possibile intravedere già da ora interessanti, quand'anche embrionali, movimenti.
Dopo una serie di colpi inferti al salario indiretto e un peggioramento delle condizioni lavorative tramite l'annullamento delle conquiste delle lotte precedenti, questa volta sono in discussione un ancora più drastico taglio al salario e gli stessi posti di lavoro. Per il Piemonte nel suo complesso si fanno stime di 30.000 posti di lavoro in meno! Oltre al settore auto e al suo indotto, con una miriade di piccole e medie aziende che chiudono i battenti, oltre alla cig a singhiozzo alla Fiat e relative ventilate minacce di perdita del posto di lavoro da parte dello stesso Agnelli, ci sono le realtà pesanti dell'Olivetti e della Pirelli.
Se nella fabbrica di Ivrea un primo attacco è stato ammortizzato con lo strumento dei prepensionamenti per gli altri 3.000-5.000 "esuberi" lo stesso De Benedetti ha già avvertito che questa volta gli ammortizzatori sociali non potranno più essere utilizzati. La risposta dei lavoratori Olivetti è perciò destinata a ripresentarsi, ma in termini più radicali, superando le precedenti illusioni in una soluzione "indolore" che ha visto camminare fianco a fianco sindacato e azienda.
Alla Pirelli ci sono già state 14 ore di sciopero nell'ultimo mese: la protesta operaia è qui rivolta non solo contro i preventivati licenziamenti, ma anche contro l'aumento dei carichi di lavoro; è stato poi contestato l'accordo relativo alla mensa, ratificato dal sindacato, che prevede il pagamento del pasto interamente a carico del lavoratore mentre l'azienda si fa carico solo delle spese di servizio. Un intensificarsi della discussione, della riorganizzazione e della lotta, dunque, e non solo nei centri e nelle aziende più grandi, ma anche nelle realtà più piccole, di "provincia"; una provincia fatta però sempre più di fabbriche chiuse, cig, licenziamenti, aree dismesse. Qui ci sono stati negli ultimi tempi, e ci sono, una miriade di scioperi e manifestazioni di zona che difficilmente "fanno notizia"; lotte che purtroppo ancora non trovano un momento di unificazione perla politica sindacale che "affronta" i problemi fabbrica per fabbrica, ma che rappresentano comunque un segnale importante della ripresa della lotta di classe, considerata la difficoltà di sindacalizzazione nelle piccole fabbriche.
E cominciano tra l'altro a sentirsi le prime voci di quei giovani operai non del tutto e non tutti sindacalizzati assunti negli ultimi anni, spesso con contratti di formazione-lavoro, carichi di illusioni sulla possibilità di "far carriera" o di rimanere in fabbrica solo fino a quando non avessero trovato una migliore occupazione, e che invece si trovano oggi a dover fare i conti con le dure condizioni di lavoro ed un attacco sempre più pesante. Sono state proprio queste voci che si sono fatte sentire, per es., nelle ultime assemblee a Mirafiori-Meccanica in cui, oltre al forte malcontento e l'aperta contestazione alla firma del "protocollo d'intesa" del 10 dicembre, alla politica sindacale sugli ultimi accordi a partire dal contratto nazionale e alla scarsa combattività/impegno (in quanto struttura) sui problemi interni (ritmi, ambiente, mobilità), è stata espressa la necessità di rispondere a quest'offensiva padronale con un fronte compatto di tutta la classe operaia e dei lavoratori salariati, e "con un sindacato che faccia i nostri interessi e non stia a chiacchierare troppo con i padroni", "un sindacato che faccia quello che diciamo noi".
Infine, non è passata inosservata la politica di attacco alla classe operaia condotta dalla Fiat attraverso il progetto "Qualità Totale" e "fabbrica integrata", che a Mirafiori sta partendo proprio in questi giorni. Con tale progetto la Fiat cerca il consenso e la partecipazione dei lavoratori ai destini aziendali, sia a livello individuale (premiando con 50 mila lire la "genialità" operaia), sia attraverso il coinvolgimento delle strutture sindacali (oramai prone agli interessi dell'economia nazionale). Si cerca attraverso le commissioni paritetiche (le stesse applicate in maniera più completa con l'accordo Zanussi) di stroncare di fatto le vecchie rigidità e l'organizzazione operaia nei luoghi di lavoro e di accentuare al massimo la flessibilità, accompagnandola con un aumento dello sfruttamento. L'obiettivo è legare anima e corpo l'operaio alla "propria" azienda, far passare l'idea dei "comuni interessi" e aggravare le condizioni di lavoro. La posizione operaia verso questo ulteriore passaggio del dispotismo in fabbrica è di perplessità e di attesa senza alcun entusiasmo, anzi si fa sempre più chiaro come questo progetto sia parte del più generale peggioramento delle condizioni di lavoro e ad esso vada data una risposta generale e unitaria in quanto classe e non nella ristretta (e perdente) logica "fabbrica per fabbrica".
Per quanto riguarda le avanguardie operaie più politicizzate, sono forti le critiche verso un "sindacato che ormai non ci difende più" e che "è compromesso prima ancora di essere debole". E' una critica a tutto campo che va dagli ultimi contratti, all'accettazione passiva della cig, alla questione della democrazia sindacale. Un altro aspetto della critica riguarda il "sindacato partecipativo", cogestore insieme ai padroni dei destini dell'impresa, proprio perché si intuisce che tale politica subordina ulteriormente il punto di vista operaio; a questo si contrappone l'esigenza di un sindacato più conflittuale, di classe. Ma oltre alla critica, ci si pone il problema di cosa e come proporre e attuare per la ripresa dell'organizzazione sindacale sui posti di lavoro, vista la deriva dei vertici sindacali. A questo proposito è sicuramente prevalente la necessità-volontà di lavorare dentro la Cgil verso un rafforzamento dell'intervento come avanguardie in fabbrica, nella consapevolezza comunque di quel che il sindacato è diventato, con tutte le difficoltà e gli ostacoli che ne discendono. Siamo lontani quindi dal tirarsi fuori dalla lotta e dalle artificiose proposte del sindacalismo "alternativo", i cui livelli di discussione sono qui a Torino particolarmente bassi. Se i settori più combattivi in gran parte fanno riferimento a Rifondazione Comunista e in campo sindacale a "Essere Sindacato", anche tra la base operaia del PDS e nella Cgil tra chi aveva dato fiducia alle posizioni di Trentin, si comincia a trarre un bilancio critico del percorso fin qui fatto e si inizia a dubitare che tali linee politiche siano in grado di portare una difesa efficace verso i colpi che padroni e governo preparano.
Segnali di ripresa, quindi, di discussione, di organizzazione e anche di lotta. Primi, "molecolari" passi che, se visti avulsi dal contesto generale del divenire della crisi, possono sembrare episodi non significativi e rimandare così l'immagine di una classe operaia torinese sostanzialmente immobile (valga per tutti l'articolo su Torino di "Liberazione", n. 9). Al contrario tal episodi, se inseriti nel quadro di contraddizioni sempre più acute che impongono alla borghesia di accelerare tempi dell'attacco, non possono che essere letti come i prodromi, da seguire con estrema attenzione e da valorizzare, di una ripresa della mobilitazione del protagonismo operaio che necessariamente dovrà manifestarsi.
Il 1991 si chiude, per la classe operaia dell'area napoletana, con un bilancio ricco di ombre ma anche con qualche bagliore incoraggiante dati i tempi non certo fulgidi sotto il profilo della conflittualità. I problemi principali sono ovviamente connessi all'occupazione, piano su cui l'attacco padronale nei confronti della classe operaia si va facendo vieppiù massiccio.
Gran parte degli impianti appartenenti alla cosiddetta industria pubblica presenti sul territorio napoletano sono oggetto di ristrutturazione e, in diversi casi, di dismissione pura e semplice. Su 27 mila posti di lavoro oggi esistenti nel campano, circa 5 mila dovrebbero essere tagliati sia ricorrendo alla consueta ricetta della riorganizzazione produttiva, che attraverso massicci di processi di privatizzazione. Licenziamenti veri e propri anche se addolciti in parte da prepensionamenti. Particolarmente pesante è la situazione nella cantieristica per la quale (vedi Sebn e Cantieri Navali stabiesi) si propone la cessione a cordate di acquirenti privati che non manifestano alcuna disponibilità a garantire, nemmeno sulla carta, un minimo di salvaguardia degli attuali posti di lavoro.
Del resto le cose non vanno meglio nel settore privato, basti citare la cig all'Alfa di Pomigliano per 800 lavoratori, una vera e propria riduzione di organico, benché accompagnata dalla illusoria promessa di riassorbimento graduale delle maestranze.
Ancora, i famosi (e fumosi) progetti di deindustrializzazione che in teoria avrebbero dovuto creare 4 mila posti di lavoro sostitutivi dell'ormai distrutto settore siderurgico, non solo stentano a partire ma alcuni di essi sono già saltati del tutto e, oggi, finanche il polo della banda stagnata, presentato come risolutivo per la crisi della siderurgia napoletana, è fortemente messo in discussione dai piani aziendali. Lo stesso "progetto Utopia" che dovrebbe "riqualificare la destinazione urbanistica dei siti siderurgici costieri" (ossia riutilizzarli, sloggiata l'Italsider, a fini di speculazione edilizia: altro che "Utopia"!) viaggia molto a rilento, allontanando qualsiasi concreta prospettiva di ricollocazione lavorativa per quanti vi hanno creduto; tant'è vero che i "caschi gialli" dell'Italsider sono stati costretti a scendere nuovamente in piazza assieme ai lavoratori Alenia, Icmi e Deriver lo scorso 5 dicembre a Roma, per protestare contro il mancato avvio dei corsi di formazione professionale promessi da ILVA e IRI.
Nell'area flegrea, oltre il pesante attacco nei confronti dei lavoratori dell'Alenia del Fusaro, pende sugli operai la minacciata chiusura dello stabilimento Olivetti di Pozzuoli coi trasferimento delle lavorazioni nell'impianto di Marcianise.
Il quadro generale è, dunque, di un duro attacco padronale, reso più virulento dall'incidere della crisi capitalistica internazionale e facilitato dallo scompaginamento delle organizzazioni storiche cui il proletariato faceva riferimento. Non va dimenticato infatti che il 1991 è stato l'anno dello scioglimento del PCI e della "trasformazione" della CGIL. Questi accadimenti non sono stati privi di conseguenze sull'intera classe operaia locale.
Molte avanguardie reali di fabbrica si sono mobilitate a sostegno della posizione Cossutta-Garavini, con la speranza che la costituzione di questa nuova forza potesse rappresentare il trampolino di lancio per un rilancio dell'iniziativa politica anti-padronale e di tornare così a trovarsi nella condizione di avere alle spalle un proprio partito, anche se piccolo al momento. A giudicare tuttavia dall'andamento delle successive vicende si ha l'impressione che gran parte degli iniziali entusiasmi per "Rifondazione" siano calati. Col passare dei mesi si è visto infatti più chiaramente quanto essa, mettendo in secondo piano fabbrica e classe operaia, puntasse a rafforzarsi sul territorio, in chiave - diciamo noi prettamente elettoralistica. Rifondazione Comunista si sta rivelando così incapace di garantire un assiduo intervento foss'anche solo nei momenti di crisi o di maggiore tensione, presso i luoghi di lavoro o i movimenti di lotta, e prigioniera di una visione sotto-berlingueriana dei propri compiti verso la classe operaia ed il proletariato in generale.
La fase congressuale della CGIL è stata caratterizzata, a Napoli, da una grande vivacità. Le tesi di "Essere Sindacato" hanno incontrato un consenso ed una partecipazione maggiore che altrove in quanto si è intravista più direttamente la possibilità di rilanciare, attraverso il sindacato, l'iniziativa per un'efficace difesa delle proprie condizioni di lavoro e del posto di lavoro stesso. Si spiega così il grosso successo della corrente di Bertinotti tra i metalmeccanici e segnatamente nel comprensorio di Pomigliano, fino a raggiungere la forma di un vero e proprio plebiscito nello stabilimento Alfa, fatto che ha dato impulso, nello sconforto generale, ad una ripresa della disponibilità a lottare, o comunque a tentare di contrastare al più alto grado possibile l'attacco aziendale. Prova ne sono le risposte operaie sulla vertenza mensa ed una miriade di episodi di lotta di fabbrica in cui si percepisce chiaramente la necessità, se non altro, ma anche la volontà, di misurarsi con la controparte, al di là e in qualche caso apertamente contro, con tutte le difficoltà del caso, i vertici sindacali.
Vediamo più da vicino le situazioni di fabbrica più importanti.
Alfa di Pomigliano. In questa fabbrica si è verificato un sensibile aumento della microconflittualità ed una più estesa mobilitazione nelle manifestazioni di piazza, cui hanno cominciato a partecipare massicciamente i giovani ai quali è stata confermata l'assunzione in seguito al periodo del contratto di formazione-lavoro.
Qui, nel polo operaio più consistente e importante del napoletano, Rifondazione Comunista ha ottenuto un consistente numero di adesioni (ci dicono 400 tesseramenti, mentre in fabbrica l'intera CGIL ne raccoglie non molti di più di 600). Sta di fatto, tuttavia, che tutti gli episodi di lotta di fabbrica non hanno visto la massiccia presenza né di esponenti di Rifondazione, né di responsabili sindacali legati a Bertinotti, né tantomeno prese di posizione incisive di tali aggregazioni. Valga per tutti l'esempio della mobilitazione contro la sospensione del servizio mensa, indetta da un'assemblea di auto-organizzati e di iscritti FIOM aderenti alle posizioni sia di Rifondazione che di "Essere Sindacato". Di fronte al responsabile comprensoriale CGIL che tacciava questa iniziativa come scissionista e invitava i lavoratori a boicottarla, sia Rifondazione che la corrente bertinottiana si sono distinte per un assoluto silenzio.
Altro episodio significativo: di fronte alla minaccia da parte aziendale di licenziare un delegato assai attivo in verniciatura (aderente sia a Rifondazione che alla corrente bertinottiana) l'unica cosa che il consiglio di fabbrica ha saputo (o voluto) "ottenere" è stata la "contrattazione" al ribasso di questa minaccia, accettando che gli operai più vicini al delegato "ribelle" fossero trasferiti in altri reparti (linea della Tipo in particolare), per poi consentire che fossero messi punitivamente in cig a zero ore appena l'azienda ne ha fatto richiesta. A questo, non sono seguite prese di posizione o manifestazioni di solidarietà né da parte di Rifondazione, né da parte di "Essere Sindacato" e neppure da parte degli "auto-organizzati". In questo caso abbiamo potuto concretamente verificare la validità del nostro lavoro operaio. Alcuni operai, certo non sostenitori delle nostre posizioni complessive, ci hanno contattato e sollecitato ad intervenire rendendosi conto che siamo l'unica forza in campo nettamente schierata dalla loro parte. Il nostro intervento, concretizzatosi soprattutto in un volantino di denuncia in difesa del delegato e degli operai colpiti, è stato oltre che apprezzato, abbondantemente condiviso, affisso nelle bacheche del reparto verniciatura e letto ad alta voce tra gli operai. Un piccolo episodio, senz'altro, però…
Altre realtà presente all'Alfa di Pomigliano è il comitato degli auto-organizzati: medaglia speculare di Rifondazione Comunista e di "Essere Sindacato" a misura che adotta una linea assolutamente suicida, basata sulla contrapposizione sempre e comunque alle iniziative promosse dalle sigle sindacali ufficiali, dimostra di non essere in grado di spostare più di un tanto in avanti lo stato della ripresa operaia. Il metodo imperante tra gli "auto-organizzati" è quello dei ricorsi alla magistratura e della raccolta di firme, metodi che puntualmente finiscono per contribuire a deprimere e bruciare qualsiasi occasione di crescita della mobilitazione di massa dei lavoratori, rendendo in molti casi inefficaci le stesse iniziative del comitato.
In occasione del recente sciopero generale contro la Finanziaria essi si sono presentati ai lavoratori con un assurdo volantino in cui, definendo il sindacato "Robin Hood al contrario che toglie ai poveri per dare ai ricchi", invitavano i lavoratori Alfa a non partecipare allo sciopero generale ed aderire invece ad un loro sit-in a Napoli che si è tenuto la settimana successiva… con la presenza di una trentina di persone. Che commento fare? Per lo meno che sicuramente non ci troviamo di fronte ad un gruppo, magari radicale, ma tutto sommato capace di comprendere le conseguenze del proprio operato. Forse non è un caso se esso riceve la gran parte delle adesioni tra gli impiegati e raccoglie tessere tra gli operai solo per gratitudine in cambio delle vertenze legali promosse.
Alenia. La necessità operaia di schierarsi e mobilitarsi in prima persona superando, o almeno riprendendo a farlo, l'orizzonte del singolo stabilimento, è stato uno dei principali insegnamenti che vengono dalla lotta dei lavoratori Alenia.
Immediatamente smentite le prospettive di garanzia del posto di lavoro in seguito alla recente fusione tra Aeritalia e Selenia, i lavoratori di questo gruppo si sono dovuti accorgere a loro spese che nell'attuale crisi nemmeno un'azienda di avanguardia, a PPSS, ed operante nel settore strategico dell'aviazione e della produzione bellica, consente di considerare sicuro il posto di lavoro. Al risveglio da tali illusioni, benché accettando pienamente l'impostazione dei sindacati di categoria che ancora una volta propongono una posizione di svendita nei confronti della controparte, fin dal primo momento hanno compreso che era importantissimo scendere in piazza tentando di mobilitare tutti gli operai del gruppo. Ottima intuizione, anche se coronata da risultati soltanto parziali soprattutto nelle realtà più forti, come lo stabilimento di Pomigliano, che vive ancora nell'illusione di non correre il rischio di essere toccato da fenomeni di ristrutturazione ed è "cullato" dagli stessi sindacati in questa ottica isolazionistica.
Ciò nonostante, si è visto chiaramente che era importante dar forza alla trattativa che si teneva a Roma, scendendo in piazza e cercando di costruire intorno alla vertenza la mobilitazione anche di altre fabbriche, come poi avvenuto in occasione dello sciopero del 5 dicembre già richiamato, perché questa era sentita come l'unica garanzia per ridurre al massimo i rischi di ulteriore svendita da parte sindacale.
Ma soprattutto si è capito che l'azione della controparte, sia padronale sia politica, va contrastata a tutti i livelli,. a maggior ragione nei suoi passaggi più decisivi, e che è possibile farlo solo partecipando e sostenendo a pieno tutti i momenti di lotta che vedono coinvolta l'insieme della classe operaia, come è stata nel caso della manifestazione indetta da CGIL-CILS-UIL contro la Finanziaria. Una comprensione parziale, certo, con molte imperfezioni, non "pura", ma pur sempre di grande importanza perché riguarda la questione centrale della riunificazione del proletariato .
Olivetti. Tra i 600 lavoratori dello stabilimento di Pozzuoli (erano 1.050 solo lo scorso settembre!) e tra le sue stesse avanguardie si nota un irrigidimento ed un rifiuto netto ad entrare nel merito delle "controproposte sindacali" - Nessuno è più disposto a sentir parlare di riqualificazione o di "polo di ricerca" al quale all'immediato sacrificare il trasferimento a Marcianise in cambio domani di un rilancio occupazionale. Né a maggior ragione di sacrificarsi sull'altare delle "tradizionali buone relazioni industriali " di cui il gruppo di Ivrea sarebbe depositario.
Dall'interno di questa realtà, ci si rende conto che la partita che si sta giocando non ammette soluzioni soft e che essa si appresta a segnare uno spartiacque tra il passato e il futuro prossimo per quanto riguarda i rapporti tra padroni e lavoratori e che lo stesso intervento del governo, se vi sarà, non consentirà soluzioni accettabili. Infatti fuori dalla fabbrica si corre il rischio di cadere nelle "liste di mobilità" istituite con la legge 223: contenitori vuoti in questa zona più che altrove dai quali dopo due anni si può uscire solo per finire a fare il disoccupato. Né è accettabile la proposta Pomicino del graduale assorbimento nella pubblica amministrazione per i lavoratori in esubero perché a sua volta questo meccanismo sta dando solo isolati e rari frutti. D'altra parte i lavoratori che dovrebbero spostarsi nell'impianto di Marcianise sanno bene che là (dove attualmente sono dichiarati 100 esuberi) non avrebbero altra prospettiva che quella di prolungare la propria agonia.
Non c'è da stupirsi perciò se, come è accaduto nella manifestazione del 31 gennaio (rigorosamente di zona, come voluto dal sindacato), c'è stata una massiccia presenza di operai in piazza con la partecipazione di lavoratori Sofer, Pirelli e, anche se piccola, una delegazione Alenia, studenti e disoccupati della zona.
La spia di un ulteriore approfondimento della progressiva divaricazione tra i lavoratori e le attuali dirigenze sindacali l' ha offerta lo stesso clima di freddezza con cui i circa 2.500-3.000 lavoratori in piazza hanno accolto la proposta di Airoldi di invitare aziende e governo a costituire un polo nazionale dell'informatica. Con buona pace di Rifondazione Comunista, che, in un volantino diffuso nella manifestazione, individua nella riqualificazione del prodotto, nella sua competitività in campo internazionale nonché nel rilancio dei poli tecnologici gli obiettivi che i lavoratori dovrebbero darsi.
Anche fuori dalla fabbrica e dalla zona flegrea si percepisce chiaramente come questa vertenza e soprattutto la sua conclusione sia destinata a segnare una svolta nei rapporti tra padronato e lavoratori. La "colomba" De Benedetti rivela la sua innegabile natura di falco che sulle ali di un trend positivo conosciuto da tutto il gruppo specie grazie al trasferimento delle proprie lavorazioni all'estero, non ha esitato a criticare i duri della Confindustria nell'ultima tornata contrattuale né a concludere contratti nazionali che sembravano garantire qualcosa per gli operai. Oggi che gli "ammortizzatori sociali" sono praticamente spariti con la riforma della cig e che gli stessi costi dei prepensionamenti sono ritenuti proibitivi per l'azienda, è egli il primo a metterla giù dura: anzi contrattacca spiazzando il sindacato quando chiede al governo commesse pubbliche ed ulteriori finanziamenti per la ricerca, senza contropartite prospettando per tale via la possibilità di mantenere in Italia l'attuale 50% della produzione del gruppo (era il 90% nel 1987).
A Milano la classe operaia è sotto il fuoco di un duro attacco occupazionale. Il primo ad esserne investito è stato, l'estate scorsa, il polo industriale di Sesto S. Giovanni, dove i padroni hanno preso di mira, innanzitutto, i punti di forza del movimento operaio: chiusura dell'Ansaldo Componenti (1167 dipendenti), licenziamenti di massa alla Ercole Marelli e alla Breda. In autunno è scesa in campo la FIAT: chiusura dell'Autobianchi di Desio (2500 dipendenti) e, di fatto, della Maserati (1287 dipendenti). In più, a differenza dell'attacco dei primi anni '80, licenziamenti di massa si annunciano anche nelle piccole e medie imprese; non solo per gli operai, ma anche per gli impiegati. Secondo una stima della CGIL, a Milano sono in pericolo 10 mila posti di lavoro.
Con questi tagli occupazionali il padronato mira allo stesso tempo: a dimensionare gli organici ai livelli richiesti, dalle leggi del profitto, nell'attuale fase recessiva; ad assestare un ulteriore colpo alla forza organizzata della classe operaia in una delle sue tradizionali roccaforti, in modo da poter procedere in futuro più facilmente, contro l'insieme della classe, a quella "continua ristrutturazione del ciclo produttivo" e a quell'uso flessibile della forza lavoro" con cui i padroni intendono sostenere la guerra economica che la crisi fa infuriare sui mercati mondiali.
Questo attacco non ha trovato alcun argine nella linea di difesa eretta dalle direzioni sindacali. Esemplare il caso dell'Autobianchi, dove i vertici sindacali si sono limitati a chiedere che il piano padronale fosse attuato con maggiore gradualità, sottoscrivendo di fatto le decisioni dell'azienda.
Se però il padronato si aspettava di trovare davanti a sé , anche per l'azione debilitante delle direzioni sindacali, una classe operaia inerte e passiva è rimasto deluso: come emerge dalla scheda a fianco, gli operai delle fabbriche investite dai licenziamenti hanno scioperato; sono tornati nelle piazze; sono giunti ad unificare le iniziative di lotta delle aziende della stessa zona. Queste mobilitazioni hanno mostrato la volontà e la capacità di reazione della classe operaia.
SIAMO SEMPRE NOI
Testo e musica di un operaio della Maserati |
Accanto a questo dato positivo esse hanno anche evidenziato, tuttavia, le difficoltà ed i limiti contro cui urta la ripresa della sua lotta. Ha pesato e sta pesando lo sfibramento dell'organizzazione sindacale e politica della classe operaia avvenuto negli ultimi anni. Contemporaneamente, la crescita occupazionale verificatasi nell'Italia del Nord nella seconda metà degli anni Ottanta sembrava aver dato ragione alle sirene padronali secondo cui la ristrutturazione degli anni precedenti aveva permesso di rimettersi sulla via dello sviluppo economico. Di fronte alla ripresa improvvisa dei licenziamenti, questi due elementi hanno generato tra gli operai una sorta di incredulità e di disorientamento. Di qui, da un lato, la difficoltà a far scendere in campo contro i licenziamenti anche la massa operaia che non ne è direttamente investita (all'oggi); dall'altro lato, quella a far confluire la lotta contro i licenziamenti all'interno di una lotta più generale contro l'attacco capitalistico nel suo complesso (padronale e governativo): così gli scioperi contro i licenziamenti, al pari di quelli contro la Finanziaria e lo smantellamento della scala mobile, sono rimasti frammentari e disgiunti gli uni dagli altri.
Nella minoranza più combattiva della classe operaia questi limiti c0minciano ad essere percepiti: comincia ad essere sentita l'urgenza di una risposta complessiva all'attacco capitalistico e, a tal fine, della ricostituzione di una prospettiva politica e organizzativa generale per la classe operaia; e allo stesso tempo viene sentito il pericolo (reale) che un ritardo su questo terreno possa far scivolare una parte degli operai verso il leghismo (e questo, aggiungiamo noi, nonostante l'assenza nel programma sindacale e politico dei vari Bossi di una qualsiasi rivendicazione anche solo demagogicamente antipadronale).
Di fronte a questa "domanda" operaia, le "sponde,, politiche verso cui essa si è rivolta (il PDS, il neonato Partito della Rifondazione Comunista o, in un certo qual modo, l'FLMU) non hanno fatto altro che cristallizzare (quando non aggravare) l'attuale stato di frammentazione: produce forse un risultato diverso la proposta di cercare nelle istituzioni e nelle forze "sane" della città (si è parlato di intellettuali…) la base per opporsi ad una "de-industrializzazione" della città che colpirebbe tutti indistintamente? Oppure quella di affrontare il taglio dei posti di lavoro con la riconversione ecologica dell'industria dell'auto? Oppure, peggio ancora, - come suggerito dai tiboniani - con una battaglia che ponga fine ad una politica statale che facilita la creazione di "posti di lavoro clientelari" nel Mezzogiorno e fa mancare il sostegno allo sviluppo nel "Nord progressista"? O ancora, dove porta (ed è ancora l'FLMU) la proposta di sabotare lo sciopero generale del 22 ottobre contro la Finanziaria perché indetto dalle irriformabili Confederazioni sindacali?
La classe operaia ha bisogno di muoversi nella direzione esattamente opposta: ha bisogno di ritrovare la fiducia nella propria forza, di organizzarsi e lottare unitariamente al di sopra degli steccati e delle divisioni indotte al suo stesso interno (non senza la complicità dei vertici sindacali) dai meccanismi della concorrenza. A tal fine, dopo i primi passi compiuti (in ordine sparso) sulla strada della mobilitazione, occorre:
1) unificare, oltre i limiti dei confini zonali, l'organizzazione e le iniziative di lotta di tutte le fabbriche colpite dai licenziamenti;
2) allargare la mobilitazione alla massa operaia delle fabbriche non colpite direttamente dai tagli occupazionali. Essa scenderebbe in campo non semplicemente in appoggio delle fabbriche attaccate, ma in difesa delle postazioni di combattimento della classe operaia nel suo insieme, laddove esse sono messe in discussione e laddove lo saranno in un prossimo futuro e tanto più facilmente quanto più oggi ci si sarà trincerati nell'illusione di poter rimanere fuori dalla portata del fuoco padronale;
3) far divenire la lotta contro i licenziamenti un momento per la riorganizzazione delle fila operaie e per lo sviluppo di una lotta generale contro tutti gli aspetti dell'attacco capitalistico.
E' compito di quei settori che sin da oggi si stanno battendo per una reale difesa degli interessi di classe lavorare nella massa operaia affinché ci si muova lungo questa strada, evitando di far derivare dalla sacrosanta lotta contro la politica di svendita dei vertici sindacali la rinuncia ad indirizzare la propria azione verso quella massa all'oggi "attardata" che sola può con la sua scesa in campo modificare e invertire i generali rapporti di forza.
4 MESI DI SCIOPERIOTTOBRE 2. Sciopero dei lavoratori dell'Ansaldo Componenti contro la
chiusura della fabbrica e blocco ferroviario per 1 ora. NOVEMBRE 6. 1 lavoratori dell'Autobianchi scioperano per due ore,
manifestazione e volantinaggio in piazza. DICEMBRE 10. Sciopero generale a Desio: 5. 000 lavoratori sfilano a
Monza. GENNAIO 7. 1 lavoratori della Maserati occupano per un'ora la stazione
ferroviaria di Lambrate. |
Solo pochi anni addietro sulla stampa più o meno specializzata si parlava dell'area industriale romana e del suo "cuore", la cosiddetta "Tiburtina Valley", come di un bacino industriale modello e moderno. Si scopriva (basandosi su dati statistici quantomeno da verificare) che Roma era la terza città industrializzata d'Italia e si attribuiva questo "inatteso" exploit al proliferare nella cintura capitolina di fabbriche e fabbrichette legate al settore elettronico-militare. Correva dunque la seconda metà degli anni '80 e sull'onda (rivelatasi alquanto cortina… vero?) della "ripresa" economica internazionale, "illustri"sociologi e pennivendoli d'ogni risma gridavano pomposamente ai quattro venti che nell'area romana si poteva assistere meglio che altrove alla nascita ed all'affermarsi d'una , nuova" figura d'operaio. Secondo questi "attenti osservatori" le caratteristiche fondamentali di tale "nuova" (fantomatica) figura d'operaio sarebbero state: una notevole soddisfazione per la propria attività e per come si è messi in condizione di svolgerla da parte dell'azienda; una grande autonomia e 1ibertà" lavorativa; un poter lavorare in condizioni sempre ottimali" al riparo da crisi produttive e commerciali, da licenziamenti e cassaintegrazione perché quello elettronico ed elettro-meccanico (soprattutto se legato al "militare" ) è il "settore del futuro". Insomma, tutte caratteristiche che avrebbero fatto sì che questa "nuova" specie di lavoratore vedesse in concetti quali 9otta di classe" un noioso ed inutile residuo del passato per dedicarsi, al contrario, "gioiosamente" al "proprio" lavoro non più alienante e faticoso, ma ormai divenuto "interessante" e "stimolante" (poche volte come in questo caso malafede ed idiozia sono andate tanto bene a braccetto).
Ed i vertici sindacali? Superfluo dirlo: anch'essi affaccendati a "rilevare" ed a "dialogare" con tali splendide "novità", felici di aver finalmente scovato un settore produttivo dove al "conflitto , si può sostituire la "coscienziosa e consapevole cooperazione tra lavoratori ed imprenditori" (come al solito dietro frasi fumose ed altisonanti si nascondono bestialità gigantesche).
Ed allora vediamo come, nella cintura romana, le aziende di questo "speciale" e "paradisiaco" comparto produttivo stanno reagendo all'attuale fase di intensificazione della crisi capitalistica internazionale.
Alla Contraves, dopo che trecento cassaintegrazioni sono scattate nella primavera '91, circolano voci di duecento nuovi "esuberi" ed addirittura della chiusura dello stabilimento. Intanto il clima si fa sempre più intimidatorio nei confronti dei lavoratori: a fine estate sono stati messi in cassaintegrazione sette operai rei di fermarsi abitualmente a discutere al presidio dei cassintegrati; sempre nello stesso periodo l'azienda ha citato in giudizio davanti al pretore di Roma i componenti del Consiglio di Fabbrica per ottenere lo sgombero del "presidio simbolico" posto davanti ai cancelli dello stabilimento; inoltre ha citato- 14 operai del "comitato per la difesa dell'occupazione" davanti alla magistratura ordinaria per danni chiedendo un rimborso pari a 12 (dodici!) miliardi di lire; infine nella notte tra il 21 e 22 gennaio sgherri prezzolati dall'azienda hanno distrutto il presidio operaio davanti ai cancelli dello stabilimento. Parallelamente in fabbrica continua l' "incentivazione" dei licenziamenti "volontari", l'aumento dei carichi e dei ritmi di lavoro.
All'Elettronica è stato firmato un brutto accordo su cassaintegrazione e prepensionamenti, che riguarda direttamente 230 lavoratori.
Alla Elmer di Pomezia si parla dell'avvio della ristrutturazione per il 1992.
Nello stabilimento di Roma dell'Alenia sono scattate 70 cassaintegrazioni e 20 in quello di Pomezia (la direzione aziendale ha calcolato a livello nazionale a 3.000 "esuberi", raggiungendo su questa base un accordo - alta perla! - con i vertici sindacali).
Secondo alcune stime sindacali e giornalistiche (vedi l'Unità, 9-12 novembre 199 1), con le ristrutturazioni in corso nel settore metalmeccanico (elettromeccanico ed elettronico in particolare), circa 40.000 posti di lavoro rischiano di sparire (aziende dell'indotto comprese) nella zona romana; i posti a "rischio"diventano 75.000 se si considera l'intero Lazio.
Dunque, le chiacchiere su un capitalismo senza crisi e senza licenziamenti sono velocemente andate a finire nell'unico posto meritevole di accoglierle: la pattumiera. Anche in questo "settore del futuro" i padroni, per difendere i loro lerci profitti e per "far fronte" alla concorrenza internazionale, devono attaccare a fondo la classe operaia.
La risposta dei lavoratori, anche quando come nel caso della Contraves è stata tenace, sconta al momento una sostanziale disorganizzazione che porta gli operai a subire la frammentazione della propria forza, affrontando in maniera isolata, fabbrica per fabbrica, l'offensiva padronale. Questa situazione deve essere superata in avanti. Al pari, devono essere superate pericolosissime illusioni (alimentate dalla vergognosa politica delle direzioni sindacali) quali quella di pensare di potersi difendere efficacemente facendosi carico della "competitività" e "produttività" aziendale, cioè proprio di quei principi in nome dei quali gli imprenditori licenziano e mettono in cassaintegrazione (tra l'altro proprio la cassaintegrazione, soprattutto con la sua "riforma", è sempre più l'anticamera del licenziamento nudo e crudo).
Al contrario per costruire un valido argine contro l'offensiva capitalistica, anche i lavoratori dei settori ad "alta tecnologia", al pari degli altri operai, devono separare e contrapporre i loro interessi a quelli dei padroni ed uscire dall'isolamento aziendale per dar vita ad un unico vasto fronte di lotta comune a tutte le fabbriche.
L'attacco capitalistico è generale e non risparmia alcun comparto: la risposta operaia deve essere altrettanto generale ed unitaria.