Per mesi intorno alla crisi jugoslava si è dispiegato qui da noi un fronte quanto mai composito, dalle parrocchie a non poche sedi della cosiddetta "sinistra" extra-istituzionale, e però sostanzialmente concorde nel lanciare vibranti proclami in difesa del diritto all'auto(?)-determinazione ed all'indipendenza (??) di Slovenia, Croazia, Bosnia, Macedonia, e chi più ne ha più ne metta, vittime tutte della "brutale aggressione " della Serbia "comunista".
Azzardarsi a parlare, come noi e pochi altri non abbiamo mai cessato di fare, della realtà dei fatti e degli interessi in gioco suscitava generalmente reazioni le più inconsulte. Sennonché, un po'alla volta, mano a mano che sono state più evidenti le magnifiche conseguenze di questo processo di "liberazione" dei popoli, che i veri obiettivi dei burattinai dell'Occidente han preso a diventare un po' più espliciti ed evidenti, che son venuti un minimo alla luce l'immenso traffico di armi, le bande mercenarie, la natura ferocemente reazionaria dei nuovi "liberi" regimi di Slovenia e Croazia, è diventato meno sfavorevole il clima per far marciare, intorno alla questione della guerra in Jugoslavia, un'analisi ed una prospettiva di classe.
Infine, la decisione delle grandi potenze di inviare un forte contingente ONU e la chiarissima determinazione del governo italiano di far includere in esso truppe italiane, il clima di mobilitazione scattato in molte caserme del nord hanno messo all'ordine del giorno la necessità di dare una risposta di lotta ai sempre più stridenti preparativi dell'intervento di guerra.
Una prima iniziativa in tal senso è stata presa a Bologna all'inizio di dicembre, con un'assemblea all'università ed una manifestazione cittadina organizzate da alcuni organismi di lotta nel sociale. Certamente un piccolo segnale, ancora molto circoscritto, e - ci sia consentito notarlo - ancora poco intenzionalmente proiettato verso la massa del proletariato (giovane e non che essa sia). Eppure, dev'essere stato prontamente colto da chi di dovere (magistratura, carabinieri, ecc.) come un segnale oggettivamente pericoloso, se è vero che, con grandissima tempestività, veniva imbastita di li a tre-quattro giorni, proprio contro l'area sociale e politica impegnata in questa iniziativa, una "operazione anti-terrorismo" poi sgonfiatasi nell'arco di tre settimane.
Non poteva sgonfiarsi, invece, ma soltanto crescere la preoccupazione intorno all'invio delle truppe italiane, anche per via dell' "incidente" in cui morivano in Jugoslavia quattro "missionari" italiani specializzati in servizi "di pace" ovunque ci sia qualche guerra da attizzare o di cui profittare. Era nel frattempo entrato nel suo pieno l'addestramento di alcune migliaia di militari di leva, nelle caserme di Bellinzago Novarese e Lenta di Vercelli, dove, a Capodanno, il generale Angioni in persona ha esortato i "ragazzi" ad essere orgogliosi della missione cui lisi preparava. Le esercitazioni preparatorie (non si tratta, s'intende, di addestrarsi a sermoncini su come è bella la pace!) si estendevano intanto anche al IV battaglione bersaglieri di Poggio Scano di Milano, alle caserme Cavalli e Cadorna di Legnano, alla caserma Venzone di Udine dove sono concentrati alpini, genieri e guastatori provenienti da Treviso, Chiusaforte e L 'Aquila, e poi ai lagunari di Malcontenta trasferiti in Friuli per esercitazioni, ecc.
Su tutto ciò, dopo aver suonato la grancassa e preparato il terreno, i mass media tacciono. Forse perché il feroce scontro tra i diversi paesi interessati alla spartizione della Jugoslavia non può dare ancora la certezza matematica della partecipazione dell'Italia al contingente, ma forse anche perché lor signori sanno assai bene che quest'invio di truppe non sarà affatto una bella passeggiata…
Della cosa è più che convinta l'Angesol (Associazione dei genitori dei soldati in servizio di leva) che lavora da alcuni anni in difesa dei diritti elementari dei militari di leva nelle caserme e che dall'interno delle caserme appunto sta ricevendo molti segnali d'allarme. A questa associazione, che ha il suo centro a Padova, va il merito di avere - in una attenta ed affollata assemblea tenutasi il 4 gennaio -promosso una manifestazione di piazza per esprimere il suo no all'invio di soldati italiani in Jugoslavia, la richiesta di bloccare ogni fornitura militare e traffico d'armi verso la Jugoslavia, la sua protesta contro l'aumento delle spese militari e una posizione di solidarietà con la popolazioni jugoslave tutte colpite dalla guerra.
Nonostante 1'attivo boicottaggio delle forze "pacifiste" e dintorni (loro motivazioni: l'ONU è una forza di pace; i soldati che non volevano rischiare di andare in guerra - ma scusate non era pace? - dovevano fare l'obiezione di coscienza… capite ora perché suggerivamo di chiamarli guerraisti?), la manifestazione dell'11 gennaio davanti al Comando della Regione Militare del Nord-Est ha avuto un discreto successo ed ha carpito l'attenzione di quanti ne hanno osservato il passaggio per le vie della città.
L'aspetto più importante di queste prime iniziative di lotta nel Veneto è senz'altro che primi gruppi di lavoratori cominciano ad essere coinvolti attivamente nella discussione intorno alla situazione jugoslava ed all'invio delle truppe. Qui sta il punto-chiave: la necessità dell'entrata in scena del proletariato.
E su questo bisognerà continuare ad insistere.
Per l'intanto è un fatto positivo che la mobilitazione a Padova e nel Veneto non si sia fermata ma stia andando avanti ed allargandosi, anzi, aprimi volantinaggi ai militari di leva (quelli che un tempo si chiamava appropriatamente proletari in divisa…) e che già sia in cantiere una nuova iniziativa pubblica per l'8 febbraio.
Non facciamo facili ottimismi, né ci nascondiamo e nascondiamo all'esterno i limiti di impostazione ed anche del programma di agitazione di queste prime iniziative. Ma ci sembra di poter dire che si stanno facendo, sia pure tra mille difficoltà, i primi passi di una mobilitazione contro questa spedizione imperialista di guerra.