L'ONU IN JUGOSLAVIA: 
GLI INDIPENDENTISMI "NAZIONALI"
ALLE DIPENDENZE DEL BRIGANTAGGIO
IMPERIALISTA OCCIDENTALE


Indice

 


I caschi blu in Jugoslavia. A tutelare, si dice, le nuove realtà nazional-statali indipendenti e la pace. In realtà: a imporre la tutela imperialista ad aborti di stati dipendenti e a suscitare nuovi, e più atroci, focolai di guerra. Un attacco congiunto contro il proletariato jugoslavo e quello delle metropoli. Contrastarlo e batterlo è l'imperativo che si pone, in Jugoslavia e qui, per la nostra classe.


Guerra - tregua - "pace"- guerra

Rispetto a quanto scrivevamo nell'ultimo numero, la situazione in Jugoslavia si è ulteriormente "aggiornata", nel senso di un ancor più drammatico venire al dunque di tutti i nodi in questione.

Chiuso definitivamente ogni contenzioso con la Slovenia, fosse pure sul limitatissimo terreno dei tempi e delle modalità del distacco di questa dalla Federazione e dal regolamento delle vertenze amministrative connesse al "diritto internazionale" in materia di secessione, il campo è rimasto aperto al conflitto Belgrado-Zagabria.

Missione di pace come in Kuweit

"La Croazia è stata riconosciuta, gli Stati Uniti che finora hanno tenuto le mani legate all'Europa dovrebbero comportarsi come in Kuweit… Bisogna spaventare i serbi, se necessario con un intervento armato". (Stipe Mesic, capo dell'Hdz e candidato alla presidenza della Croazia, a" l'Unità",17.1.1992).

"Con l'aiuto dei caschi blu libereremo i territori temporaneamente occupati e ricostituiremo il sistema legale in tutta la Croazia. La Comunità internazionale che ha aspettato tanto a riconoscerci e ad ammettere la fine della Jugoslavia, adesso dovrà fare passi radicali, prendere decisioni importanti. L'ONU deve obbligare la Serbia a firmare la capitolazione incondizionata, premere su Belgrado con una seria minaccia militare. E sei serbi non lasceranno le zone occupate, bisognerà mettere in piedi qualcosa di molto simile a quanto è stato fatto per liberare il Kuweit ". (Milan Ramljak, vice primo ministro della Croazia a "il Giornale", 23 gennaio 1992).

All'ordine del giorno di Belgrado stava il mantenimento di una qualche unità jugoslava, sotto egida panserba o meno? Difficile crederlo dopo aver constatato con quale facilità si era lasciato il via libera al secessionismo della piccola, ma economicamente e strategicamente vitale, Slovenia. Una Jugoslavia amputata della Slovenia, ma forte di una Croazia sottomessa con le armi? Questo è quello che si è voluto far credere qui, ma basterebbe dare un'occhiata ai fronti di guerra ed ai mezzi in essa impiegati in Croazia per rendersi immediatamente conto dell'improponibilità di una tale tesi propagandistica.

E' vero che qualcuno finge ancora di credere che ci sia stata un' "aggressione alla Slovenia" sventata da una vittoriosa "guerra di popolo" quando ormai gli stessi indipendentisti sloveni cominciano a vergognarsi di aver messo in giro una barzelletta del genere, e quindi non c'è da stupire se continui a circolare quest'altra menzogna. Resterebbe in ogni caso da capire come mai un esercito federale, sin qui esorcizzato come "grossa potenza militare", abbia limitato le sue "offensive" a zone estremamente circoscritte della Croazia, guardandosi bene dal portare colpi decisivi contro Zagabria. Ancor più arduo riuscirebbe spiegare come mai quest'esercito si sia ritirato spontaneamente da intere zone strategiche croate, evacuando tranquillamente l'Istria ad esempio (salvo intoppi dovuti alle provocazioni contro di esso messe in atto dagli estremisti croati interessati a creare un ulteriore casus belli per "sensibilizzare l'opinione pubblica internazionale" e per regolamenti di conti politici all'interno della Croazia stessa).

Strano esercito di occupazione quello che sgombera da sé il campo, neppure rispondendo più di tanto a provocazioni come quella dell'affondamento a Dubrovnik di una nave che stava evacuando i militari e le loro famiglie dalla zona!

La posizione di Belgrado, dal momento in cui si è manifestata in tutta la sua ampiezza il secessionismo sloveno e croato, non ha nulla a che fare con la difesa militare del "principio unitario" della vecchia Jugoslavia. Essa si condensa nelle parole del ministro degli Esteri serbo Vladislav Jovanovic, in risposta, il 14 gennaio di quest'anno, ad una domanda sull'indipendenza slovena e croata:

"Ne siamo rammaricati, ma accettiamo questa nuova realtà, perché non abbiamo mai contestato il diritto al l'autodeterminazione dei croati e degli sloveni. Abbiamo soltanto chiesto che ciò avvenisse in modo legale, non illegale. Volevamo un divorzio negoziato. Il riconoscimento di Slovenia e Croazia non pongono problemi. Resta tuttavia da risolvere in Croazia la questione dei serbi. Insistiamo sul riconoscimento degli stessi diritti nazionali, non abbiamo pretese territoriali" ("Il Piccolo", 15 gennaio 1992).

Lo stesso Ivica Raćan, leader della "sinistra" croata, e primo artefice del la corsa verso il secessionismo croato, riconosce a posteriori che, nell'esplodere della guerra, Il c'è stata, è vero, della colpa anche da parte croata. Fin dall'inizio abbiamo fatto notare come il nuovo partito di maggioranza si muovesse come un elefante in una cristalleria, basando tutta la sua politica sul trionfalismo della croacità", oltre che con "il rifiuto di tutte le tradizioni dell'antifascismorovinando la nostra immagine agli occhi dell'Europa" (ivi). Ed anche Milan Kućan si è sentito, sempre a posteriori, di dover prendere le distanze dalla politica zagrebina di aperta discriminazione dei serbi, cui era stata negata persino l' "autonomia culturale", per non parlare delle infinite vessazioni cui essi sono stati sottoposti dal regime di Tudjman.

L'oggetto del contendere va dunque riportato alle sue dimensioni reali, e lo diciamo non per giustificare Belgrado lo ripetiamo per l'ennesima volta ma per denunziare all'opposto la sua congenita incapacità a proporre una reale prospettiva contro la disintegrazione della Jugoslavia per rinchiudersi, invece, in una ristretta e perdente ottica serba, tragicamente complementare (quand'anche formalmente giustificata dalla difesa dei diritti nazionali di quel popolo violati da Zagabria) all'ottica sciovinista croata.

L'unità jugoslava non poteva essere il vessillo di un centro "nazionale" borghese. Solo una lotta unitaria del proletariato delle diverse nazioni jugoslave avrebbe potuto farselo proprio, rivolgendosi insieme contro i "divorzisti" di Belgrado, Zagabria e Ljubljana (ciò che, disgraziatamente, non era immaginabile nelle condizioni date). E tanto valga a spiegare la misurata "ragionevolezza" degli assunti cui si riferisce il ministro Jovanović, fedele interprete di Milosević.

Date queste premesse, lo scontro serbo-croato è servito unicamente, da una parte e dall'altra (senza che ciò significhi equiparazione pura e semplice tra esse), a deviare le forze proletarie dei rispettivi paesi dal nocciolo del problema per attirarle o quanto meno immobilizzarle in un gioco al massacro e ad attizzare tutta un'altra serie di secessionismi a catena, che proprio questo tipo di guerra ha favorito.

Oculatamente l'Occidente ha favorito ed attizzato questo tipo di conflitto, in quanto garanzia per esso d'aver le mani libere nell'opera di penetrazione nell'area da padrone incontrastato. Il boccone jugoslavo era troppo indigesto per essere divorato d'un colpo. Ben vengano tanti bocconi "indipendenti": si eviterà così di far indigestione e ci si potrà abbuffare anche di più! In latino si traduce divide et impera, e nulla di meglio se gli interessati accettano "da sé" di farsi dividere e mettere al giogo.

L'APJ, l'Armata Popolare, diventava a questo punto il bersaglio dell'Occidente (ancora prima di quella Serbia con cui essa inizialmente non poteva identificarsi tout court) in quanto in essa sopravvivevano tuttora delle vestigia di jugoslavismo poco incline ad accettare il secessionismo ed a farsi fagocitare senza colpo ferire dall'Occidente. Il suo sforzo di assicurare la "legalità" (sia pur in vista del divorzio) poteva riuscire scomodo: in una situazione di relativa tranquillità o legalità che dir si voglia, l'egemonia delle leadership nazionaliste avrebbe forse dovuto fare i conti coi guasti economico-sociali prodotti rimettendo in moto la forza di opposizione del proletariato. Un clima ed uno stato di guerra andavano quindi favoriti per "rimettere le cose a posto".

Di qui un inusitato aiuto in armi ed imbonimento dei crani per dividere definitivamente i vari popoli e proletariati e promuovere in ognuno di essi l'union sacrée atta a tacitare l'antagonismo di classe.

1920 o 1992?

Trieste, 3-5-1920 
Alla Presidenza del Consiglio dei Ministri

Dal Commissario Civile Volosca pervengono i seguenti due telegrammi che per opportuna notizia interamente si comunicano: "Mi viene riferito che ieri D'Annunzio avrebbe ricevuto una delegazione di Albanesi per concertare circa il piano proposto di fomentare dissidio tra Croati e Serbi, per la cui esecuzione va studiando il modo di procurarsi denaro di cui è privo. Mi consta anche che alcune personalità italiane dell'Istria hanno avuto ieri colloquio con D'Annunzio prima di partire per Milano ove avrebbe luogo domani sera convegno con deputati e senatori specialmente lombardi scopo esplicazione parlamentare per fare pressioni su governo circa soluzione problema adriatico in senso contrario ad accordi diretti con jugoslavi" -Termine I telegramma (…).

Commissario Generale Civile
Mosconi

Non disponiamo ovviamente di dati precisi (l'ISTAT tace in proposito; tutto sta negli archivi segreti diplomatico-militari e sarà istruttivo leggere domani in essi!), ma siamo benissimo informati del traffico d'armi verso la Croazia affluito da infinite parti, da Pinochet all'Italia, dalla Germania all'Ungheria, e dell'assistenza militare assicurata a Zagabria prima dello scoppio di un vero e proprio conflitto e proprio per dar luogo ad esso. Ancora nel giugno, si poteva leggere sulla stampa croata che in presenza della precisa ordinanza della Presidenza della RSFJ del gennaio "sul disarmo delle cosiddette formazioni para-militari", sia serbe che croate, "quanto più sono salite di tono le ingiunzioni della Presidenza, tanto più la Croazia si è rafforzata militarmente" e "di pari passo con il rafforzamento militare della Croazia si sviluppa una campagna di demonizzazione dell'APJ" ("La Voce del Popolo" di Fiume, 5 giugno '91). 0 poi di come in Bosnia-Erzegovina i dirigenti nazionalisti evocassero secessione e guerra proprio mentre la "stragrande maggioranza dei suoi cittadini, come riconosciuto anche dai vertici ufficiali, promuovono spontaneamente iniziative per la stipulazione di un accordo di pace". (Ivi, 31 luglio). Altro che "embargo sui mezzi militari"!

Altrettanto bene siamo informati sul libero mercato della droga cui i "patrioti" croati si sono potuti impunemente dedicare per finanziare la propria "indipendenza". E che dire dell'arruolamento di volontari fascisti italiani pro-Croazia attraverso annunzi pubblicitari a mezzo stampa senza che si muovesse un dito da parte dei nostri tutori dell'ordine, tanto zelanti da arrestare per "costituzione di banda amata" il primo autonomo in possesso di un temperino, anzi con l'onore di un'intervista alla TV al prestanome di tale arruolamento? Piccolo episodio, si dirà, che coinvolge - pare - dai 100 ai 200 "legionari", ma allo stesso modo che è piccola la punta dell'iceberg: al di sotto della parte emergente c'è ben dell'altro (e, stavolta, regolato non da qualche centrale fascista ai margini dello Stato, ma dallo Stato stesso).

Su tutte queste questioni ci siamo più a lungo e documentatamente diffusi nel numero precedente. Ci ripetiamo qui sinteticamente ad uso e consumo dei nuovi lettori che riusciremo a toccare e perché, mai come in questo caso, repetita juvant.

Non abbiamo cuore, invece, di insistere di nuovo sulla campagna di menzogne propagandistiche. Aspettiamo pure che tra un anno qualche "Samarcanda", col solito tempismo, vari una puntata sulle "bugie che si sono dette", sullo stampo di quella anniversaria della Guerra del Golfo. Ma chissà se, in questo caso, si arriverà a tanto, visto che l'intervento dell'Italia nel Golfo andava osteggiato perché "contrario ai nostri interessi", mentre in Jugoslavia i nostri interessi sono tangibili ed immediati. Le stesse facce di tolla di certo "pacifismo" clerical-pidiessino tuonanti contro la Guerra nel Golfo (con un Formigoni più a sinistra di tutti) si sono trasformate in procacciatrici di armi e qualche buon prete "costruttore di pace" poco ci manca che scomunichi chi non accetta di fare il suo dovere armato sotto le bandiere dell'ONU.

Benissimo. Tutti al servizio degli "ideali" di "pace" e "nuovi ordini planetari" di quella stessa borghesia che ieri è andata ad insanguinare il Golfo ed oggi, in piena continuità con se stessa, va ad insanguinare i Balcani. Tutti uniti, tutti insieme, dai manifestanti "per la pace" di "sinistra" fiaccolanti attorno all'ultra-interventista Fracanzani sino a vignettisti "repubblicani " di regime degni di camicia nerissima ad honorem (e, speriamo, di future onoranze a piazzale Loreto) ed a Il nonviolenti gandhiani" in divisa militare ad Osjek per poi passare all'incasso alla TV accanto a Funari, Mosca, Moana o i giornalisti "progressisti" di Rai-Tre.

L'intervento dell'ONU: "pacificazione" o moltiplicazione dei conflitti?

E così si è arrivati all'intervento dell'ONU.

Una soluzione emergenziale, imposta dalla situazione, e ovviamente per spegnere l'incendio? Tutt'altro: questo non è che l'esito ultimo di un'azione interventista da lunga pezza preparata.

Il primo atto di essa va rintracciato nell'opera assidua del capitalismo occidentale di penetrazione in Jugoslavia, nella disintegrazione del tessuto economico "unitario" che essa ha predisposto, nella dipendenza economica e politica con cui essa ha saputo covare i futuri secessionismi. Il primo esercito agente in Jugoslavia è stato il FMl (non l'APJ, né le milizie "irregolari" e "spontanee" "interne"!

Il secondo atto è consistito nel foraggiamento dello scontro "interno" di cui s'è detto. Il terzo nell'invio di Il osservatori imparziali della CEE svolazzanti dall'Ungheria a Zagabria, non si sa bene se per "osservare" o per stabilire un ponte tra i secessionisti e le loro basi d'appoggio. L'ultimo, appunto, è l'intervento diretto dei caschi blu, così poco improvvisato che da mesi (prima ancora dello scoppio delle ostilità serbo-croate) se ne stavano concretamente predisponendo le modalità, i mezzi, gli uomini.

E quale dovrebbe essere la funzione dei caschi blu? A sentire la Voce del Padrone, quella di far da "interposizione attiva" (l'aggettivo va ben meditato!) tra le parti in causa in attesa di una "soluzione politica" e per favorirla. Che vuol dire concretamente? Che la "soluzione politica" che prima non veniva per l'incapacità dei soggetti interessati dovrà farsi strada ora grazie al "nostro" intervento e, beninteso, per i "nostri" interessi. Una "soluzione politica" fondata, cioè, sulla risistemazione economica, politica, militare dell'area. Una "soluzione politica" fondata, come e più di prima, sull'assenza forzata dell'azione dei diretti interessati, il famoso "Popolo", ovvero l'esorcizzando proletariato jugoslavo. Far tacere le armi? No: mettere a tacere definitivamente la voce di quanti hanno tutte le ragioni di opporsi alle "proprie" borghesie ed a quella d'Occidente, sancire il bavaglio che è stato ad essa imposta.

E a questo punto abbastanza patetico leggere petizioni "di sinistra" secondo cui "la presenza dell'ONU e dei suoi caschi blu… dovrebbe servire a riavviare, anche nei tempi lunghi… nuove forme di cooperazione capace di rifondare un'entità jugoslava sulla valorizzazione, in forme anche diverse, delle identità nazionali dei suoi Popoli" a patto che "mantenendo fermissima l'azione per far tacere le armi, si vada oltre il ruolo delle cancellerie diplomatiche, rientrino in campo le popolazioni, le forze democratiche e pacifiste, la cultura" (R. Serri in "Liberazione" 18 gennaio 1982). Quando mai si è visto il boia sciogliere i lacci al condannato a morte che gli è consegnato nelle mani? Ci vuole una buona dose di ingenuità per credere che chi ha fatto parlare le armi e fatto tacere i "popoli" possa oggi far tacere le prime e ridar la parola ai secondi!

Da più parti ci si obietta: ma come?, voi tuonate contro l'intervento dell'ONU mentre tutti, ma proprio tutti, sono lì a chiederlo? Ce lo chiedono per primi i "pacifisti" di Belgrado e di Zagabria, incalzano certi "costruttori di pace" (onuisti oggi dopo essersi fatti in quattro per sostenere in solido il secessionismo nazional-sciovinista sloveno e, soprattutto, croato). Ce lo chiedono gli stessi "compagni" di Belgrado, sussurra qualche scombinato sinistro.

Ebbene? Sì, tutti costoro ce lo chiedono o si dimostrano rassegnati a subirlo come il minore dei mali, se non come un toccasana. Ma per un semplicissimo motivo: che nessuno di questi "soggetti" ha in mente e lavora a far crescere un movimento ed una prospettiva proletari. Reclutare qualche decina di migliaia di caschi blu è certo più facile che mettere in piedi un esercito di classe. Non per questo noi, pur sapendo di non poter mobilitare in Jugoslavia al momento le masse né di poter inviare là nostri reparti di classe, possiamo recedere dalla nostra prospettiva né tantomeno accettare una "soluzione" che va in senso inverso ad essa.

Dal punto di vista dei "fatti concreti", i nostri nemici hanno tutti i numeri dalla loro parte. Vero che la vecchia Jugoslavia unitaria effettivamente non c'è più né è ricostruibile alla vecchia maniera (né in altra, sui tempi brevi). Vero è anche che l'intervento dell'ONU non trova alcuna opposizione da parte delle varie leadership locali e della loro massa di manovra sociale e politica ("pacifisti" piccolo-borghesi in prima linea).

Riconoscere quanto sopra non ci turba affatto. Sappiamo benissimo che un ribaltamento immediato degli scenari attuali non è concepibile dall'oggi all'indomani, dato che i vuoti che si sono storicamente formati all'interno del proletariato (internazionalmente considerato, giova sempre ricordarlo) non si possono colmare né per interventi della provvidenza né per buona volontà di qualche sparuto gruppo d'avanguardia.

La disintegrazione della vecchia Jugoslavia e l'intervento dell'ONU sono le due facce di un'unica medaglia che va riconnessa a questi vuoti. Si tratta "semplicemente" di decidere se questa logica dei "fatti compiuti" rappresenti gli interessi di quel paese (o di quei paesi) o non piuttosto quelli dell'imperialismo e delle locali borghesie al loro servizio e vada quindi cauzionata od avversata. E, posto che noi "optiamo" per la seconda ipotesi, si tratta altresì di vedere come la nostra prospettiva potrà affermarsi proprio a partire dalle contraddizioni cui daranno luogo gli attuali "fatti compiuti".

E' per noi certo che l'intervento dell'ONU (conseguenza ultima delle manomissioni esercitate dall'occidente sulla Jugoslavia e strumento dei loro ulteriori sviluppi) non pacificherà affatto quest'area dei Balcani, ma inietterà in essa ogni sorta di altri veleni, ed è a questa certezza che intendiamo chiamare alla resa dei conti quando essa si farà evidente anche agli occhi di settori della nostra classe ingenuamente arresisi al miraggio di una pax internazionale onuista per por fine agli orrori della guerra.

Per capire il senso dell'intervento "di pace" dell'occidente in Jugoslavia possono risultare utili le dichiarazioni di Peter Ludlow, direttore del "Centre for European Policy Studies" ("Mondo Economico" 3 agosto '91): "Nel caso jugoslavo, poiché la sfiducia delle Repubbliche secessioniste nelle istituzioni federali è giunta a un punto di non ritorno, la struttura portante dell'unità del Paese potrebbe essere rappresentata dalla CEE, l'unica entità politica in cui tutte le parti in conflitto mostrino di avere fiducia. Penso a un insieme di accordi separati tra le singole Repubbliche jugoslave e la Comunità, collegati tra loro da un patto multilaterale che faccia dei Dodici i garanti della stabilità del Paese… La combinazione di centralismo e decentramento si potrà realizzare mediante una serie di patti di sicurezza e di associazione che, sotto l'ombrello stabilizzatrice della CEE, giochino il ruolo di contenimento prima svolto dagli Stati nazionali".

Non si potrebbe essere più chiari: l'ultra-decentramento jugoslavo è la premessa dell'ultra-accentramento "di queste piccole unità substatali" nelle mani della CEE (ammesso che questa riesca a mantenersi unitaria anziché dividersi secondo appettiti particolari). Quanto alla riottosa Serbia, il pronostico è netto: "Non credo in una 'fortezza serba' in grado di conservarsi immune dall'influenza dell'Occidente: lo sbocco potrebbe essere di tipo albanese" (cioè di un isolamento autarchico rovesciato nel suo contrario, sino all'aperta sottomissione all'Occidente qual è quella di cui oggi si gode a Tirana).

Ed è precisamente secondo questa prospettiva che il nostro Capuzzo esplicita che il "nostro" intervento in loco deve essere programmato sui tempi lunghi ("alcuni anni", tanto per cominciare), per arrivare per gradi all' "assorbimento" definitivo (il termine è dello stesso Ludlow) della regione.

Il fatto è che "assorbimento" (altro che promozione d'indipendenze!) cui si mira, al di là delle sue chiare connotazioni imperialistiche, che neppur ci si preoccupa di nascondere, procederà - qualora non intervenga una forte risposta di classe - in maniera tutt'altro che "pacificata". Al contrario, sarà guerra moltiplicata, all'interno del "calderone balcanico" e tra le forze dell'Occidente che si predispongono a farselo "particolaristicamente" proprio.

Per quanto riguarda i contrasti tra i predoni imperialisti, basti pensare all'amaro in bocca che sta lasciando già a molti di loro il dilagare dell'influenza germanica in Slovenia e Croazia. Un'influenza tanto forte da trasferirsi dal piano economico a quello culturale (un buon articolo del "Manifesto" ha messo a nudo vari aspetti di quella che potremmo chiamare la rigermanizzazione della "intellighenzia" di Lubljana - alias Laibach - con uno "strano" connubio tra boria nazional-indipendentista e pratico obnubilamento delle "radici slave" autoctone: fatto non nuovo qui, se solo si pensi al lealismo verso la Corona asburgica da parte delle classi dominanti dai tempi di Marx sino alla vigilia della prima guerra mondiale; fatto non nuovo in Croazia, dove Pavelić aveva addirittura sostenuto la leggenda di un'origine non slava ma teutonica dei croati!).

Sacrosante preoccupazioni attraversano in proposito Parigi e Londra. Gli USA le hanno esplicitate e la loro politica di distacco e (doppia) misura verso il problema jugoslavo si spiega con le difficoltà di un intervento diretto in proprio congiunte alla necessità di porre un argine all'invadenza di Bonn.

E che dire dell'Italia? Gli agognati sbocchi verso Est che la secessione sloveno-croata avrebbero dovuto aprire, magari come partner in seconda dei tedeschi, si stanno rilevando più difficili del previsto; gli spazi utili sembrano esser quasi tutti occupati dal blocco Germania-Austria(1).

Non solo: certe iniziative (si parla dell'acquisto in blocco delle strutture portuali di Capodistria e di controllo della cantieristica croata, nonché di nuovi sistemi di comunicazione stradali e fluviali da parte di Bonn) minacciano di tagliar fuori l'Italia dalle principali correnti di traffico Nord-Sud attraverso i Balcani, gettando l'ombra di un'ulteriore crisi su Trieste e le aree confinarie.

Altro che il "Ricompriamoci l'Istria" dei manifesti del Melone sottoscritti dal PSI e dalla DC veneti! L'offensiva verso l'Istria, di cui la comunità italiana sloveno-croata dovrebbe fungere da intermediario e volano, si sta rivelando più ardua dell'immaginario e la freschissima frizione Roma-Ljubljana sulla questione della "tutela della minoranza italiana" è già l'indizio di una crisi dagli incerti sviluppi(2). La necessità di una "maggior aggressività" italiana viene già agitata dalle destre italiane locali e, in sede nazionale, il MSI fra poco non sarà più solo, mentre la stessa "sinistra"si dimostra preoccupata dell' "invadenza tedesca" di fronte al "vuoto d'iniziative" italiane (vedi recenti dichiarazioni di capi sindacali della CGIL) e qualche rottame dell' "ultrasinistra" pensa già di ricavalcare l'antigermanesimo in vista di una "seconda resistenza". Davvero ne vedremo delle belle!

Per quanto concerne l'evoluzione della situazione interna nella ex-Jugoslavia all'ombra dell'intervento ONU ci limitiamo solo a scarni, ma eloquenti, flash.

Tudjman ha già giurato che la Germania, ora che il riconoscimento CEE è venuto "unanimemente", provvederà a mettere a punto l'attrezzaggio militare croato(3). Un buon inizio, non c'è che dire!

Nel frattempo, Tirana sta issando con protervia le bandiere dell'irredentismo albanese con l'evidente complicità dell'Italia, oramai stazionante stabilmente in zona, e questo non solo per quanto riguarda il Kosovo, ma la stessa fetta di nazionalità albanese della Macedonia, non a caso dichiaratasi plebiscitariamente "indipendente" dalla neonata repubblichetta. La quale, per parte sua, sta suscitando gli entusiasmi turchi e vivissimo allarme in Grecia (e Bulgaria).

La Bosnia-Erzegovina, che, in altre condizioni, data la sua composizione multietnica, avrebbe potuto fungere da punto di raccordo contro la disintegrazione della Jugoslavia, è sottoposta a plurime spinte a dividersi essa stessa, contrapponendo l'elemento croato, serbo e musulmano l'uno all'altro. Le conseguenze? Il rilancio inevitabile di un conflitto "etnico" serbo-croato e l'estensione dell'incendio all'area musulmana a Sud (ne è un primo segno l'appello della leadership musulmana borghese alla Turchia per un intervento diretto nel conflitto a venire).

Si aggiunga il vespaio istriano, con le sue spinte ad una piena "autonomia regionale" di fatto extra-croata (una carta che "noi italiani" non dovremmo lasciarci scappare!). E si aggiunga ancora il problema della Vojvodina, dove la cospicua minoranza ungherese è da un lato sottoposta a prime inedite discriminazioni da parte della Serbia, preoccupata del ruolo anti-serbo giocato dalla "madre patria" ungherese, e dall'altra sollecitata da Budapest a farsi alfiere di un "riscatto nazionale" che, se portato a segno, sottrarrebbe a Belgrado una delle regioni agricole più ricche del paese. Si aggiungano, se si vuole, casi come quello di Dubrovnik, per la quale da più parti si pensa allo statuto di "città aperta" da sottrarre alla Croazia per metterla direttamente sotto l'egida CEE (poi si vedrà come regolare i conti all'interno di essa!). E via continuando, all'infinito…

Conclusione. Se la "rivoluzione" titoista, erede ed interprete di un fresco, ma vivace "risorgimentalismo slavo", non è riuscita a dar stabilità e compimento al suo programma nazionale di "bratstvo i edinstvo" (fratellanza ed unità) in ragione della sua stessa natura borghese, forzatamente inconseguente, la controrivoluzione progettata dall'imperialismo non riuscirà ad unificare sotto il proprio dominio una Jugoslavia neo-coloniale, ma vi susciterà mille altri incendi. I proletari jugoslavi, compresi quelli in un primo tempo abbacinati dalle bandiere del "nazionalismo e abbondanza", si troveranno a breve confrontati ad un duplice giogo: quello delle vili, vendute borghesie interne e quello degli effettivi padroni borghesi d'Occidente.

Sotto i colpi delle crisi che su di essi andranno a scaricarsi, essi dovranno e sapranno riconquistare le vive tradizioni di classe che li hanno, nelle ore decisive della storia, contraddistinti. E verrà allora il momento della ricostruzione del fronte di classe, non solo jugoslavo, ma internazionale, perché l'incendio, questa volta, non rispetterà alcun confine, coinvolgendo insieme Balcani e… balcanizzatori.

Questo è quanto dobbiamo sapere, questo è ciò per cui dobbiamo sin d'ora saperci battere, a cominciare da un'implacabile opposizione all'intervento imperialista in atto e dalla tessitura di primi legami tra la lotta anticapitali sta qui e là. Altra via non v'è, se non per chi, coscientemente o meno, lavora ad affrettare la corsa verso un nuovo generalizzato disastro internazionale!

20 gennaio 1992


"BEATI I COSTRUTTORI DI GUERRA"

"Possiamo vivere con il panserbismo a Belgrado negli anni Novanta meglio di quello che potessimo convivere con quello germanico a Berlino negli anni '30?… Il regime serbo riconosce solo un argomento, quello della forza: quante sono le forze armate della legalità europea e di quella internazionale?… Morire per Zagabria? Sì, ne vale la pena."
(padre G. Baget-Bozzo)

"E' venuto il momento che i migliori fra i migliori, i fiori delle nostre migliori famiglie, si offrano sull'altare della patria".
(predica nella cattedrale di Zagabria)

"E' dovere di tutti i cattolici difendere attivamente la propria patria: in un momento come questo il falso pacifismo serve solo a rinforzare indirettamente gli aggressori ed i banditi".
(padre A. Juric, vescovo di Spalato)

"L'ONU invii immediatamente una forza di interposizione (Caschi Blu) sotto l'autorità diretta del Segretario generale, coadiuvato da un'apposita commissione del Parlamento europeo".
("Beati i costruttori di pace" a Padova)

Gli antenati:
"Quando coloro che vivono lontani dal teatro della guerra percepiscono la voce del cannone… cercano di individuare da dove essa giunge. E la immaginazione ripresenta ad essi i nostri cari soldati affaccendati nel caricare e nel puntare un pezzo. E si commuovono. La voce del cannone è voce amica; essa semina la morte e la distruzione, ma essa ci parla della pace che i nostri soldati stanno preparando con i loro sacrifici e il loro sangue; essa ci annuncia la pace che Iddio prepara, insieme con la vittoria, per le nazioni che combattono per il diritto e per la giustizia ".
(padre A. Gemelli, 1916)


Note

1. Dei quasi 2 miliardi e mezzo dell'export croato nei primi otto mesi del '91 (di cui 1,6 verso la CEE), la Germania faceva parte per 752 milioni contro i 543 dell'Italia. Dei 2,9 miliardi dell'import (metà dalla CEE), Germania ed Italia occupavano rispettivamente una quota di 616 e 489 milioni , Valori assoluti non troppo distanti tra loro. Sennonché, la tendenza indica una progressiva espansione della quota germanica e, di più, un impianto in loco delle strutture produttive e finanziarie tedesche destinato, soprattutto in prospettiva, a deprezzare il ruolo "competitivo" dell'Italia. (Per riguardo la Slovenia, questo fenomeno si presenta ancor più spinto, stando agli ultimi dati in nostro possesso). Questo spiega le apprensioni (borghesemente legittime) anche nella nostra sinistra per la pressione esercitata dalla Germania che "sta avviando di fatto in Europa una politica di egemonia economica e politica sostenuta anche (in modi legali e illegali) (!!!) da forniture militari "secondo una strategia"che riguarda non solo la Jugoslavia ma il complesso dei paesi europei dell'ex "socialismo reale" (R. Serri nel citato articolo su "Liberazione"). Come sfuggire a questa logica? "Riequilibrando" gli spazi di egemonia all'interno del blocco imperialista o attaccando quest'ultimo nella sua struttura unitaria (da cui sono indissociabili tali fenomeni di "squilibrio")? Qui sta il busillis.

2. Una volta tanto saremmo tentati di dar ragione al governo sloveno, che si è rifiutato di firmare un memorandum d'intesa sulla questione della "tutela della minoranza italiana" che puramente e semplicemente prevedeva, da parte italiana, la concessione di un particolare statuto privilegiato per la comunità italiana in Slovenia e Croazia quale intermediaria delle operazioni di rapina dei capitale italiano senza neppur concedere uno straccio di reciprocità sul piano dei diritti nazionali formali alla minoranza slovena presente entro i nostri confini.

3. Il fatidico venerdì 17 di gennaio Cossiga ha esplicitamente affermato a Pirano che "d'ora in poi", "a riconoscimento avvenuto", la Slovenia (e tanto vale presumibilmente per la Croazia) potrà contare sull'aiuto militare dell'Italia, quale interprete degli interessi della nostra industria bellica e dei suoi… indotti. A noi incorre il dubbio che questo "aiuto" non sia in realtà venuto mai meno. Peterle e Tudjman sentitamente ringraziano, ma, forse, quanto a rifornimenti in materia dispongono già di altre più efficaci fonti (con vivissimo rincrescimento dei vari Serri).