La militarizzazione di stampa e TV

LA GRANDE ORCHESTRA 
E… LA DIVINA ARMONIA

Le menzogne ed i silenzi dell'informazione democratica
sullo scontro in atto in Jugoslavia e sull'intervento italiano in Albania


Indice


E' assai istruttivo dare un'occhiata a come i mezzi di (dis)informazione stanno presentando lo scontro in atto in Jugoslavia e la cronaca, interna e internazionale, relativa ad esso.

Menzogne e silenzi

Un'uniforme monotonia regna in materia.

In primo luogo nella intenzionale selezione delle fonti. Nella quasi totalità dei casi ad essere utilizzata è la sorgente di Zagabria, dove vige una legge militare sull'informazione. In base ad essa "il lavoro dei giornalisti, nazionali e stranieri, viene coordinato e controllato dal Comando repubblicano per l'informazione e da esperti in materia nominati dal preposto Ministero. I mezzi d'informazione sono tenuti a pubblicare qualsivoglia eventuale comunicato dell'anzidetto Comando (…). Si stabilisce, ancora, che i giornalisti riceveranno il permesso di informare dalle zone interessate dalla guerra da parte dei Comandi di Difesa dei rispettivi territori. Possono riportare informazioni o servizi fotografici unicamente se in possesso di detti permessi, fermo restando che i permessi non svelino segreti militari o altri particolari di interesse primario per la difesa e il mantenimento dell'ordinamento della repubblica di Croazia. Il giornalista che non si attiene a queste disposizioni può venir condannato, previo provvedimento penale, fino a 5 anni di carcere (…). Pene detentive, inoltre, sono previste anche per i capiredattori che rifiutano la pubblicazione dei Comunicati del Comando informativo (fino ad un anno di carcere)"(1).

In secondo luogo nel quadro dipinto: in Jugoslavia ci si troverebbe di fronte da una parte ad un'Armata Federale intenta a soggiogare, agli ordini del "bolscevico Milosevic, i liberi popoli della terra degli slavi del Sud per la realizzazione della Grande Serbia, dall'altra parte un popolo, quello croato, insorto in armi a difendere la civiltà contro una forza superarmata, che non solo si rifiuta di porre termine all'occupazione del Istria, ma distrugge senza pietà tesori artistici ed architettonici, minaccia di usare armi apocalittiche, fa strage di bambini ed anziani.

Cosa importa se poi l'APJ si limita semplicemente ad operazioni di difesa in risposta al blocco e agli assalti da parte dei miliziani croati delle caserme dell'Armata e alle persecuzioni delle famiglie serbe?

Alcuni esempi, tra quelli su cui ha maggiormente strepitato la "libera" stampa italica.

Istria, inizi di novembre (attenzione ai tempi): i miliziani croati attaccano ed occupano una caserma e tre depositi di munizioni a Delnice, nell'entroterra di Fiume; l'APJ, mentre continua l'evacuazione delle caserme e delle basi poste nelle altre località istriane (ad esempio Pola), risponde con bombardamenti aerei al fine di impedire alle milizie croate di portar via armi (soprattutto granate) dai magazzini di Delnice. Su "Il Corriere della Sera" (scegliamo a caso) l'episodio viene riportato sotto il seguente titolo: " Blocco navale nei porti della Dalmazia… Angoscia a Fiume: i federali hanno ricevuto l'ordine di radere al suolo la città"(2).

Il successivo blocco del porto di Pola da parte della neonata marina militare croata (con il conseguente arresto dell'evacuazione dei federali) diventa un esempio della volontà della Serbia di non retrocedere dall'occupazione della Croazia.

Con Spalato si fa il replay: verso la metà di novembre le milizie croate bloccano le caserme e fanno saltare in aria una nave da guerra federale; l'APJ risponde con bombardamenti sulle postazioni croate. Il giorno dopo, sullo stesso quotidiano, il titolo a tutta pagina: "Spalato sotto le bombe serbe"(3).

Queste falsificazioni sono andate a supportare e ad esaltare la montatura in atto da diverse settimane su Dubrovnik. Anche qui il (timido) tentativo dell'Armata di liberare i propri presidi cittadini e di proteggere le famiglie serbe dalle forze paramilitari croate diventa un diluvio di fuoco sulla città, un indiscriminato e generale massacro, una barbara distruzione di tutte le costruzioni. I comunicati dell'APIJ dipingono una realtà ben diversa da quella fornita dalla "nostra libera" informazione(4)? O vengono ignorati oppure vengono citati per illustrare la guerra di "propaganda" messa in opera da Belgrado (ricordate la favola del lupo e dell'agnello?).

LA "GRANDE ORCHESTRA" DI BENITO

In un discorso ai direttori dei quotidiani italiani il 10 ottobre 1928 Mussolini affermò: "Io considero il giornalismo italiano fascista come un'orchestra. Il "là" è comune (…) è un "là che il giornalismo dà a se stesso. Egli sa come deve servire il regime. Ma dopo i "là", c'è la diversità degli strumenti (n.), ed è appunto dalla loro diversità che si evita la cacofonia e si fa prorompere la piena e divina armonia, oltre agli strumenti, c'è poi la diversità dei temperamenti e degli artisti (…).

Ciò precisato, la stampa nazionale, regionale e provinciale serve il Regime illustrandone l'opera quotidiana, creando e mantenendo un ambiente di consenso intorno a quest'opera" (cit. in V. Castronovo-N. Tranfaglia (a cura), La stampa italiana nell'età fascista, Laterza, Bari, 1970, p. 93).

A seguito del surriscaldarsi del clima internazionale, nel 1933 il duce passò dal paragone musicale a quello militare. Il 14 ottobre così si rivolse ai dirigenti del Sindacato fascista della stampa: "Discorso da soldati a soldati. I giornalisti italiani devono considerarsi militi comandati a guidare il settore più avanzato e delicato del fronte fascista e a manovrare l'arma più pericolosa e potente di ogni battaglia. Il duce si è servito di quest'arma per le prime conquiste, se ne serve ancora per colpire alto, lontano e vicino. Oggi tutta la nazione è blocco e scudo: e tutti i giornali formano una sola bandiera. Pensiero ed azione sono nel commento e nella notizia più fusi che mai" (ib., p. 147).

Il 5 novembre giunge a Dubrovnik un giornalista de "La Voce del Popolo". Cosa si trova davanti? Una città in armi contro una furia devastatrice che colpisce da terra da cielo e da mare? Sentiamo cosa racconta questa voce, di certo non sospettabile di simpatie filo-serbe: "… la difesa della città di Ragusa lascia a desiderare. Praticamente non esiste: le postazioni dei federali e dei cetnici sono neanche un chilometro dalle mura cittadine e, volendolo, potrebbero radere al suolo la città in poche ore [n.]. Sulle ultime postazioni croate, inoltre, ci sono pochissimi combattenti. Neanche duecento (…). Ce lo ha detto Dusan, lo sloveno di Maribor arruolatosi volontario nella Guardia croata, e grazie al quale abbiamo potuto visitare il fronte. "Non riesco a capire - ha detto -perché non ci siano ragusei a difendere la città" (…). Prima di arrivare a Ragusa eravamo quasi convinti di trovare il centro storico semi-demolito. Ed invece poca roba (per fortuna). Ma allora TV, radio e giornali esageravano? Sembra proprio di sì. Del ruolo dei mass media si discuteva parecchio tra colleghi, specie con quelli stranieri, considerati più obiettivi. "Ero a Vinkovci – raccontava Ed, inviato di "The Guardian" di Londra - quando dopo un bombardamento la TV croata ha dato la notizia che sulla città erano state sganciate bombe a frammentazione, ma non era assolutamente vero! "(5).

Ma come: non era propaganda la dichiarazione del gen. Raseta secondo cui le immagini di Dubrovnik in fiamme erano "fotomontaggi"? C'è poi da stupirsi se, sempre stando alle notizie divulgate dalla stampa italiana, l'APJ ha colpito in ottobre con due razzi un ripetitore TV in Dalmazia(6)?

Ma l'opera informatrice dei mass media italiani non si limita semplicemente a stravolgere la "cronaca" dello scontro in atto in Jugoslavia. Essi erigono (non certo casualmente) un muro di silenzio su alcuni aspetti di questo scontro.

Mai si parla della popolazione serba della Slavonia e quando se ne parla si tratta di cetnici, di massacratori, nascondendo che è vero quello che racconta il gen. Aksentijev: "nelle zone serbe della Slavonia a ribellarsi è stata la popolazione"(7) contro il tentativo delle truppe di Zagabria di imporre odiose esazioni e di portar via le terre che hanno conquistate con il sangue con la lotta di liberazione nazionale(8).

Mai la "nostra libera e democratica" stampa ha dato voce, dall'interno della Jugoslavia, ad una forza, non diciamo di classe, ma genericamente "popolare".

Mai gli egregi direttori si sono preoccupati di far conoscere quello che dicono i lavoratori del porto di Fiume oppure quelli delle grandi fabbriche di Zagabria o di Belgrado oppure più semplicemente i contadini della Slavonia.

mai qualcosa è filtrato sulle condizioni di vita e di lavoro nelle repubbliche "libere" o sulle lotte che i lavoratori sloveni sono stati costretti ad ingaggiare a partire dalla scorsa estate. E un "particolare insignificante" che in Slovenia alla vigilia della dichiarazione di indipendenza 10 mila operai abbiano manifestato al grido di "soldi per i salari, non per la guerra"; che nei mesi successivi siano scesi in sciopero prima gli insegnanti, poi il personale medico e paramedico e quindi i ferrovieri.

Incredibile ma vero: i nostri modernissimi e sofisticatissimi mezzi d'informazione, che non tralasciano di documentare in tempo reale il più esoterico evento accaduto in una qualsiasi zona del globo, si sono lasciati "sfuggire" questi "particolari". E c'è stata forse la benché minima traccia della manifestazione dei 100 mila operai a Sarajevo? Black-out.

Su tutti questi aspetti vige il blackout più totale, salvo quando il governo italiano (da grande brigante qual è) ha bisogno di ricordare a Zagabria soprattutto per il futuro - dove sta il reale centro d comando. Ed allora ecco comparire trafiletti ( ma si tratta di luci… di avvertimento) sul rifornimento di Zagabria da parte dei paesi occidentali; ecco venir fuori l'inchiesta veneziana sul traffico di armi verso la Croazia gestito da imprenditori italiani e da un ex-ufficiale dell'esercito addetto all'addestramento di corpi speciali (a proposito, come mai dopo due giorni non se n'è più parlato?); ecco il ministro De Michelis (un "lagunare"…) ricordare sibillinamente che le notizie che vengono dalla Croazia vanno verificate attentamente" (uomo avvertito…); ecco la "scoperta" fatta dalla "nostra libera" stampa della "presenza" tra le forze armate croate di milizie ustascia e mercenarie.

Ma, a proposito, per tutti questi mesi non ci hanno storditi con le gesta dell'armata popolare croata? Beh, oltre agli ustascia ed ai mercenari, chi la compone? Ecco il ritratto che un'altra fonte non sospetta, il giornale "Epoca", dà di questi "partigiani della libertà": "portano una sciarpa attorno al collo e una fascia sulla fronte come l'amico di De Niro nel "Cacciatore". Hanno uniformi americane, fucili mitragliatori ungheresi, coltelli da guastatori della marina e una paga di duemila marchi al mese (più o meno un milione e 700 mila lire). Quando non combattono ascoltano dischi di Jimi Hendrix, guardano film western, sfogliano riviste pornografiche e la loro attitudine psicologica è tutta racchiusa nella frase «mangia, bevi e sii felice, domani puoi morire»-. Può nascere qualche dubbio che si tratti di lavoratori e giovani proletari accorsi eri masse a difendere la "patria"?

La militarizzazione per "generazione (per ora) spontanea" dell'informazione

Una stupefacente monotonia di menzogne e di silenzi regna sulla stampa italiana. Ah no certamente, da noi non vige nessuna censura militare; non c'è nessuna legge o apparato dello Stato che controlla l'informazione. No: c'è qualcosa di più profondo, di più invisibile e nello stesso tempo più ferreo e coercitivo. C'è una legge di mercato…politico.

E' un processo materiale quello che, insieme con l'accentramento del potere capitalistico sul piano economico e sul piano politico, centralizza le penne e le antenne delle oche giornalistiche alle superiori esigenze dell'imperialismo italiano.

Se questo ha necessità di effettuare una spedizione militare in una qualsiasi regione del mondo, il loro imperativo categorico diventa: preparare il terreno per l'intervento. Il che significa: da un lato conquistare il sostegno attivo dell'opinione pubblica e soprattutto del proletariato, dall'altro celare gli antagonismi di classe suscitati dal brigantaggio della borghesia italiana fuori dei confini nazionali e soprattutto laddove si vuol far sventolare il tricolore.

Questo processo ha fatto un primo passo con la guerra del Golfo. Ricordate il cattivo Saddam, che torturava così ferocemente il povero pilota italiano catturato mentre si dedicava a massacrare la popolazione irakena, che poi… lo ha anche rilasciato?

Ora, mentre l'Irak continua a rimanere nella "attenzioni" della propaganda dell'imperialismo e vi rientra la Libia in compagnia della Corea del Nord e dell'Algeria, la militarizzazione dell'informazione democratica per la guerra fa un salto, in uno con l'aggravarsi della crisi generale del capitalismo, dei suoi antagonismi e con la necessità di centralizzare tutti i suoi apparati di dominio a difesa dei suoi interessi sull'intero globo.

La fetida montagna di menzogne scritte e trasmesse su Dubrovnik sono servite ad arte - nell'ambito della complessiva campagna sugli "assedi" federali alle città dalmate e istriane a legittimare l'intervento delle Forze Armate italiane in Jugoslavia.

Agli inizi di ottobre i primi assaggi: "Dubrovnik è accerchiata e bombardata senza interruzioni", i morti non si contano "soprattutto fra la popolazione civile", titola 1a Repubblica" del 4/10/91. Poi in crescendo: "I barbari alle porte di Dubrovnik"(9), "L'Armata in procinto di usare armi chimiche e missili capaci di causare disastri ecologici ed umani come gli scud di Saddam (n.)"(10).

Il 12 novembre il volume è assordante. Lo stesso quotidiano titola in prima pagina: "Dubrovnik brucia, Terrore e Bombe"; il sottotitolo intona: "L'esercito federale spara su 50 mila persone che vivono rintanate nei rifugi, di nuovo senza acqua, senza luce, senza medicine. Con i viveri contati. Gli aiuti umanitari si sono interrotti venerdì, da quando Belgrado ha bloccato il porto"; all'interno la sinfonia continua: "Dubrovnik Tempesta di Fuoco", "L'Armata si accanisce sulla perla della Croazia".

Il 12 novembre è il giorno dell'apertura del "corridoio umanitario" per Dubrovnik: i governi italiano e francese decidono di inviare navi militari per portare cibo, medicine e vestiti nella città ed evacuare bambini, vecchi e malati; il ministro Boniver è a Belgrado per "concordarne" le modalità. Il tutto sotto le insegne dell'organizzazione per l'infanzia delle Nazioni Unite, che, fresche di ritorno dall'opera «civilizzatrice" svolta in Irak, si accingono ora a scrivere un altro capitolo dei loro "gloriosi" annali. Nei giorni seguenti la nave militare da sbarco San Marco, in compagnia della nave militare francese Range e sotto gli sguardi di una fregata inglese, entra nel porto di Dubrovnik. Il ministro Boniver parla di 70 mila bombe cadute sulla città.

Intanto la propaganda raggiunge il massimo dell'infamia, con l'allarme per i probabili attentati terroristici serbi contro De Michelis e con l'invenzione dei massacri di civili croati a Vukovar. Il 19 novembre "la Repubblica" (continuiamo a riferirci a questo quotidiano per comodità) dà la notizia della presa della città (in realtà non si è trattato che del suo abbandono da parte delle milizie croate) e già prevede "massacri dei serbi sui civili inermi". Il giorno successivo, neanche a farlo apposta, titola in prima pagina: "A Vukovar Massacro di Civili" eseguito, si specifica nel sommario, "dai terroristi cetnici". Eppure non una sola prova viene portata a dimostrazione di ciò: in corrispondenze da Zagabria si parla di "testimoni oculari"; gli unici episodi cui si fa riferimento sono le esecuzioni da parte della popolazione serba di due miliziani croati che erano rimasti nella città (una misura militare ragionevole, oh no?). Anzi: appare sempre più chiaro che a massacrare la popolazione siano state le milizie croate durante il loro ritiro in modo da "agevolare" l'arrivo dei "nostri" - Un velo di silenzio cade frettolosamente sull'episodio.

Ma un'escalation della propaganda non può che anticipare un'escalation dell'intervento militare.

E infatti il 18 novembre l'UEO, "di fonte alle flagranti violazioni, soprattutto da parte dell'esercito jugoslavo e dei cetnici, di tutti gli impegni assunti" mette a disposizione dell'ONU le proprie truppe per proteggere i "corridoi umanitari" (ricordate il "corridoio" di Danzica?), di cui si predispone l'estensione alle zone interne della Jugoslavia (per es. verso Vukovar). Nei giorni successivi si viene a sapere che da settimane a Metz alti ufficiali italiani, francesi e di altri paesi europei stavano mettendo a punto i piani operativi per un pronto intervento in Jugoslavia(11) (quelli che avrebbero fornito la base per le decisioni del Consiglio di Sicurezza dell'ONU(12)), che "da più di un mese", in coordinamento con quelle di Metz, riunioni analoghe si svolgevano al Ministero della Difesa italiano per "preparare la missione-Croazia"(13).

Di fronte a questo "gioco di squadra", perfino un Mussolini, lui che per anni cercò di mettere a punto la "grande orchestra" con ogni sorta di ukase dall'alto, salterebbe impressionato sulla sedia ed osserverebbe con invidia la realizzazione di essa per "generazione spontanea". Ai nostri giorni è attraverso la libera dialettica della democrazia che procede la militarizzazione dell'informazione (in seguito, quando il clima si farà più caldo, anche qui verranno le misure legislative e repressive); la grande orchestra sembra suonare senza la mano di un direttore. In realtà il direttore c'è, è più ipnotizzante di prima e la divina… porcheria suonata ha sempre lo stesso fine: quello d arare il terreno all'opera di rapina, di devastazione e di sfruttamento dei padroni e del governo italiano.

"Ma in questo caso si tratta di un intervento umanitario!", vanno scandendo le grancasse dell'informazione borghese. "In questo caso le nostre forze sono chiamate dalle stesse popolazioni jugoslave per portare loro pace e sollievo!" - Niente di meglio per "dimostrare" quest'infamia che descrivere ed esaltare l'opera "civilizzatrice" che l'esercito italiano starebbe già oggi svolgendo laddove è impegnato in una missione "umanitaria": in Albania. Questa volta a dare il f iato alle trombe è la visita che il ministro della Difesa Rognoni compie a Valona e a Durazzo il giorno dell'Epifania. Ancora una volta l'intesa è perfetta: il 7 gennaio la spedizione italiana in Albania torna sulle pagine dei giornali, accanto ai servizi sui preparativi della missione dell'ONU in Jugoslavia. Le immagini televisive indugiano sui doni alimentari consegnati dai militari italiani e sulle loro "attenzioni" verso i bambini albanesi. "Il Corriere della Sera" arriva a titolare "Guerra italiana alla fame albanese": l'invio del contingente militare e il blocco navale perpetuo, i doni alimentari, gli aiuti economici diventano le armi con cui l'Italia starebbe cercando di far "uscire" l'Albania dal "tunnel in cui l' hanno cacciata oltre 40 anni di cieca dittatura comunista". Bene: andiamo allora ad ammirare la civiltà che l'operazione Pellicano ha iniziato a far rifiorire in Albania.

L'operazione "Pellicano": un esempio di cosa segue all'apertura dei "corridoi umanitari"

I "missionari" italiani si mettono al lavoro in settembre. In autunno la paralisi dell'attività produttiva e la penuria dei generi alimentari diventano quasi totali: la maggioranza delle fabbriche albanesi si ferma del tutto; gli operai che vi lavoravano o sono disoccupati o percepiscono una specie di indennità di cassaintegrazione pari a 15 dollari al mese, l'80% dei salari; questi ultimi, a fronte di un'impennata dei prezzi del 150%, aumentano solo del 50%. Laddove intervengono i "benefattori" italiani si fa razzia delle risorse e dei lavoratori albanesi. Il 12 settembre l'AGIP ottiene la concessione per esplorare per 25 anni 3 mila kmq di mare albanese e per sfruttarne le risorse. Qualche mese più tardi l'IRI e un gruppo di imprese pugliesi varano il progetto per costruire un acquedotto sottomarino con cui usare le risorse idriche albanesi a favore dell'agricoltura della Puglia. In novembre alcune aziende venete si accingono ad installare in Albania impianti per l'allevamento di molluschi e di animali da cortile: ad attrarle, scrive "Il Sole-24 Ore" è la possibilità di godere dello "sfruttamento delle principali risorse del Paese adriatico che sono la terra, il mare ma anche la manodopera, non specializzata ma a prezzi decisamente competitivi (n.)". Una miniera già sfruttata da mesi da quell'impresario di Ascoli Piceno che invia a Tirana le materie prime richieste dalla produzione di bambole di peluche, le fa assemblare da 200 operaie a 700 lek al mese (un uovo costa 40 lek) e ne riesporta il prodotto finito. Il tutto sotto l'ombrello dell'accordo per la promozione e la protezione degli investimenti italiani in Albania firmato a Roma alla fine dell'estate. Ma con l'arrivo dei "nostri" non si impiantano solo supersfruttamento e rapina economica. Dilagano tutte le "perle" della civiltà occidentale: l'installazione di centri per lo smistamento del traffico internazionale di droga, di sigarette e di armi(14); la rapina… oh pardon la legale adozione di minori (ragazzi e ragazze) per dare la possibilità alle insoddisfatte coppie della metropoli di provare l'esperienza dell'allevamento di un figlio o per alimentare i circuiti della criminalità e/o della prostituzione quando non del commercio di organi umani(15).

Fatti sprofondare in questo inferno, i lavoratori albanesi non sono rimasti inerti. Alla fine di ottobre gli operai delle miniere e degli impianti petroliferi scioperano per un'intera settimana contro la penuria dei generi alimentari, le pessime condizioni di lavoro, i tagli salariali, la ventilata privatizzazione delle imprese e la loro svendita alle firme straniere; in caso di mancata risposta del governo alle loro richieste promettono lo sciopero generale. Passa un mese e la situazione non fa che peggiorare. Il 5 dicembre è rivolta: per tre giorni le masse albanesi danno l'assalto ai forni, ai negozi ed ai magazzini alimentari; nei giorni successivi le città sono percorse da cortei di decine di migliaia di lavoratori contro la mancanza di generi alimentari.

I quotidiani italiani, che fino a questo momento avevano mantenuto un silenzio quasi completo sulle lotte dei lavoratori albanesi, non possono più tacere: tuttavia mentre nel passato erano stati sempre pronti ad indagare le "cause profonde" ed i "responsabili" degli avvenimenti albanesi, ora si limitano a riportare, con grande parsimonia di "particolari" la "semplice" cronaca. "Il Corriere della Sera" bene interpretando le preoccupazioni "umanitarie" della borghesia italiana, parla di "rischi" di "soprassalti insurrezionali"; "la Repubblica" descrive con terrore la violenza delle "moltitudini violente"; tutti sono attentissimi a non far filtrare notizie sul reale sentimento dei lavoratori albanesi verso l'operazione "Pellicano"(16).

Per "salvare" il patrimonio artistico della Dalmazia dal "fuoco dei bombardamenti " dell'APJ, alla fine di novembre i carabinieri del Nucleo perla tutela del patrimonio artistico "trasferiscono" in Italia tutti "i capolavori dei musei dalmati". "Qui - commenta "1a Repubblica" - saranno al sicuro". E così la campagna stampa su Dubrovnik non è servita soltanto a giustificare il primo intervento militare tricolore in Jugoslavia: essa ha permesso all'Italia di avvolgere sotto la stessa schifosa bandiera della "solidarietà umanitaria " la rapina dei tesori artistici della Dalmazia. La spartizione ed il saccheggio del bottino jugoslavo sono giunti allo sprint finale: in tutti i sensi.

Di fronte alla crisi sociale che scuote il paese, tra le "grida di gioia" dei lavoratori albanesi, l'opera "umanitaria" dell'imperialismo italiano fa due ulteriori passi in avanti. Il 7 dicembre il governo albanese manda l'esercito nelle strade: vengono assassinati, direttamente o indirettamente poco conta, oltre 50 manifestanti. Il 12 dicembre, su consiglio della Bers e dietro le pressioni dei maggiori detentori del debito estero albanese - ossia le banche italiane -, il governo albanese nomina suo negoziatore ufficiale per il debito estero l'ex-ministro del tesoro italiano Amato, il quale svolgerà l'incarico con l'assistenza tecnica della Banca d'Italia; già s'intravede il prossimo aiuto "umanitario" all'Albania: l'imposizione (sotto la scure dei ricatti avanzati dagli usurai italiani per concedere la ristrutturazione del debito estero e la fornitura di nuovi aiuti) della definitiva liquidazione delle fabbriche albanesi, della svendita a quattro soldi di una piccola parte di esse ai nuovi conquistadores, con la conseguenza di un aumento vertiginoso della disoccupazione e di un ulteriore drastico taglio dei salari. Oh sì, queste due decisioni sono state formalmente firmate dal governo albanese; gli ordini però sono stati impartiti ed imposti da Roma. Oppure riteniamo che la totale dipendenza alimentare e finanziaria dell'Albania dall'Italia insieme all'assedio in cui le forze armate tricolori stringono il paese sono pure formalità?

E tutto questo, bastardi "musicisti" di regime, sarebbe la "guerra italiana alla fame albanese"? Che si tratti di guerra e in più condotta dall'Italia non c'è dubbio: ma per la totale sottomissione economica dell'Albania, per la rapina delle risorse del suo sottosuolo, per il supersfruttamento dei suoi lavoratori, per la repressione (per ora per interposta persona, in seguito si vedrà) delle loro lotte e delle loro rivolte. E per la costituzione di una base di lancio per il gangsterismo dell'imperialismo italiano nei Balcani.

Un solo esempio a questo proposito: la strumentalizzazione dell'irredentismo albanese nel Kosovo per predisporre il terreno alla conquista della più grande quantità possibile delle spoglie jugoslave e ad un azione "corrosiva" nei riguardi di chi, conseguentemente o meno, cerca di opporsi alla dissoluzione e alla svendita della Federazione.

La notizia: recentemente il governo albanese ha riconosciuto il governo autonomo provvisorio che si è costituito nel Kosovo e si è dichiarato pronto ad intervenire militarmente qualora "qualcuno" gli impedisse di scegliere tra l'indipendenza o la riunificazione nella grande Albania (è data in ogni caso per dissolta la Jugoslavia). Non abbiamo le prove che dietro questi eventi ci sia lo zampino del governo italiano: ma, di nuovo, è ragionevole pensare che il governo di Tirana abbia margini di manovra autonomi dall'Italia?

Ci vuole la faccia come il culo per dichiarare, come ha fatto il ministro della Difesa Rognoni, che "la scelta militare (ossia la decisione di inviare un corpo di spedizione in Albania, n.) non vuole sottintendere un passo surrettizio del governo italiano per creare le basi di una presenza militare italiana nei Balcani, nell'attuale difficile situazione, dando luogo ad una sorta di protettorato sull'Albania". Evidentemente la lingua batte dove il dente duole! Quelle decine di migliaia di tonnellate di alimenti e di medicinali sono state tutt'altro che un regalo a fondo perduto! Una manciata di sacchi di farina in dono sono stati i trenta denari con cui l'Italia ha comprato l'economia e la politica del paese delle aquile. E pensare che ci sono ancora anime "candide" che invocano una cooperazione paritaria e altre idiozie del genere(17)!

Perché questa analisi delle menzogne e dei silenzi dell'informazione corrente? Per fare una piagnucolata sulla "onnipotenza" del "quarto potere" e sulla sua capacità da ora e per sempre di plasmare "l'uomo ad una dimensione"? Neanche per sogno. Neghiamo in radice tale l'onnipotenza" (non, evidentemente, l'influenza dei mass media), e diciamo che l'efficacia della disinformazione di regime dipende, in ultima analisi, dalla stasi della lotta del proletariato. Quando questo si metterà in movimento ed arriverà a sprigionare la sua materiale forza organizzata, allora saranno guai per il "quarto potere" come per gli altri "tre" poteri, per la classe borghese in quanto tale. Ma già da oggi, per aiutare anche su questo terreno la ripresa della classe, è necessario: 1) diffidare sistematicamente dei mass media democratici, in quanto il loro formale "pluralismo" veicola gli interessi del capitale con una compattezza ed una sincronia che nulla hanno da invidiare a quelle della "grande orchestra" di Benito; 2) denunciare e lottare contro l'informazione borghese ed in modo tanto più intenso quanto più essa si presenta nella veste democratica ed umanitaria.

Il ferreo muro di silenzio che i nostrani mezzi d'informazione tentano di erigere sulle lotte del proletariato d'oltre-Adriatico è tutt'altro che una dimostrazione di forza e di sicurezza: è un sintomo che la stessa borghesia sente crescere con terrore le vibrazioni del sottosuolo della sua società e teme che i dati di fatto della realtà, venendo ad emergere, possano dare alimento alla lotta contro il suo dominio di classe.


Note

1. "La Voce del Popolo", 11/11/91.

2. "Il Corriere della Sera", 7/11/91

3. Ib., 15/11/91.

4. "C'è una speculazione: si è parlato molto del fatto che l'esercito accerchierebbe Dubrovnik per distruggerla. Le unità dell'esercito hanno l'ordine di non attaccare la città, a nessun costo. Il sindaco della città ha dichiarato grandi bugie: che sono state sparate 15 mila granate, mentre l'esercito non ne ha sparata neanche una. Se così fosse la città non esisterebbe più. In venti casi abbiamo aperto il fuoco contro chiese, per 19 si è provato che erano diventate sedi militari con lanciagranate e mitragliatrici sui campanili, nel 20° caso la milizia croata stava nel cortile" (da un'intervista del gen. Dusan Zermic a "Il Manifesto", 15/10/91).
"Gli indiscriminati bombardamenti su Dubrovnik sono fotomontaggi propagandistici" (dichiarazione riportata, per essere derisa e apostrofata come propaganda, da "La Repubblica" 17/10/91).
"Vogliamo liberare i nostri presidi e proteggere la Comunità serba dalle forze paramilitari croate", scrive a proposito dell'assedio di Dubrovnik il ministro federale della Difesa Kadijevic a Lord Carrington il 27/10/91).

5. "La Voce del Popolo", 6/11/91

6. A stupire dovrebbe essere semmai l'"arrendevolezza" dell'APJ verso quanti (dall'esterno e dall'interno dei paese) lavorano alla disgregazione della Jugoslavia e al suo soggiogamento all'Occidente.

7. "Il Manifesto", 10/9/91.

8. "Le "Monde", 12/9/91; "Il Manifesto", 14/1/91

9. "La Repubblica", 5/10/91.

10.  Ib., 8/111/91.

11.  Ib., 28/11/91.

12.  Ib., 29/11/91.

13. La previsione su cui lavorano i generali dello Stato Maggiore della Difesa è che in Jugoslavia sia chiamata a schierarsi una forza multinazionale di circa 40-50 mila uomini, di cui 6-7 mila potrebbero essere italiani. Di questi, visto che l'esercito ha un numero molto ridotto di professionisti, i soldati di leva sarebbero due terzi ovvero poco meno di 5 mila (…). Non è uno scherzo, se lo scenario rimane simile a quello di oggi, sarà la missione più rischiosa che le forze armate italiane abbiano mai effettuato nel dopoguerra", "La Repubblica" 8/12/91.

14. "Il Manifesto", 1/1/91

15. Il giornalista albanese Anastas Kondo ha scritto sul quotidiano "Zeri i populit": "Nessuno sa cosa accadrà a questi bambini. Il caso più felice è che davvero i genitori adottivi li crescano come loro figli Il caso più probabile -ci è stato spiegato- è che questi bambini, presi gratis da noi, siano venduti dai genitori adottivi (in genere poveri) ad altri genitori adottivi (in genere ricchi). Ma il massimo dell'affare si ha quando questi bambini sono usati dalla mafia dei trapianti di organi umani. Mi trema la mano a scrivere queste cose. Che non abbiano questo destino i nostri bambini innocenti".

16. Da un'intervista ai dirigente Eqrem Kavaja dell'Unione Indipendente dei sindacati d'Albania pubblicata da "Il Manifesto", 30/10/91: "(Domanda) Qual è la tua opinione sulla presenza dell'esercito italiano in Albania? (Risposta) Abbiamo già trasmesso le nostre perplessità su questa operazione ai sindacati italiani. E' fuori discussione che il vostro popolo sia mosso da carità umanitaria. Ma il punto non è questo. Con la missione "Pellicano" si è inaugurata la "quarta era": "l'occupazione dell'economia." (…) …non servono i soldati [per rimettere in sesto l'economia albanese n.]. L'esercito torni al suo posto. Voi in Italia avete sottovalutato le conseguenze di questa missione "Pellicano" [n.]".

17. V. il progetto presentato dai Verdi del sole che Ride ("Il Manifesto", 14/12/91).