Golfo/Medio Oriente

LA GUERRA IMPERIALISTA CONTINUA
CON LE ARMI DELLA "PACE"


Indice


Qual'è la situazione in Medio Oriente a sei mesi dalla "liberazione" del Kuweit? A questo quesito la "Washington Post" del 3 settembre ha dato una risposta quanto mai esplicita: "C'è ancora un sacco di lavoro da portare a termine prima che gli Stati Uniti possano permettersi il lusso di lasciare il Golfo". E, proprio mentre vanno moltiplicandosi i rapporti "ufficiali" (dell'ONU, della Commissione Clark, di Greenpeace, della Harward University, di "Médecins pour la prévention d'un guerre atomique", etc.) e le "rivelazioni" sugli abominevoli orrori dell'operazione "massacro nel deserto", il medesimo organo di stampa statunitense si premura di spiegare che anche in Iraq il "lavoro" degli alleati non è esaurito, anzi "c'è ancora molto da fare". La presa sul Medio Oriente e sull'Iraq non può essere assolutamente allentata. Neppure possono essere rimosse le sanzioni, come si aspetterebbe - ammette il giornale – "la gente di buon cuore degli Stati Uniti" perché ancora non sono stati raggiunti tutti gli obiettivi che le Nazioni Unite e gli Stati Uniti si erano prefissi. L'aggressione dell'imperialismo alle masse irachene e medio-orientali, perciò continua.


L'ONU e gli alleati affamano l'Iraq

In effetti, nonostante la devasta,ione del paese, il "nodo iracheno" non è stato ancora reciso sino in fondo così come, nonostante la democratica reintronizzazione manu militari dell'eccellentissimo emiro, la "rinascita" del Kuweit stenta assai più lei previsto a procedere. Il ricchissimo protettorato anglo-americano è alle prese con "una grande crisi economica che ristagna nell'incredibile ritardo di tutto il processo di ricostruzione", e che ha portato con sé fenomeni prima d'ora sconosciuti quali una forte disoccupazione e un'alta inflazione. La stessa situazione socio-politica non lascia del tutto tranquilli i vincitori: la disaffezione verso il sovrano e la sua corte sembra estendersi, tant'è che costui, non pago dell'azione delle proprie squadracce anti-sovversione, ha voluto il presidio permanente di una folta guarnigione yankee. Nel "day after" del Kuweit e della penisola araba non c'è alcuna traccia di festa tra le masse (ne hanno preso mestamente atto anche i giornalisti occidentali sguinzagliati laggiù per cantare al mondo le "celebrazioni" di un 2 agosto di ritrovata libertà" in Kuweit) e c'è molta apprensione per il futuro nei regimi pro-imperialisti. Eloquenti spie di ciò sono la formidabile accelerazione del loro riarmo e la decisione statunitense ed alleata di rinviare la completa smobilitazione dei propri contingenti dall'Arabia Saudita, dagli emirati e dal Kurdistan iracheno[1]

Ma al di là del marasma in cui versa il Kuweit e delle prime avvisaglie di instabilità finanziaria e sociale dei reami semi-feudali, la più pungente contraddizione, per il campo imperialista, è costituita proprio dall'Iraq del dopo-guerra. Il tentativo occidentale di rovesciare Saddam Hussein "a furor di popolo", e per giunta di un "popolo" inneggiante ai nuovi colonialisti "liberatori", è fallito. Benché scagliato all'indietro di almeno un secolo, poi, sprofondato nella fame, flagellato dalle epidemie, corroso da un dilagante mercato nero e da ogni sorta di speculazione, soffocato da un ferreo embargo, l'Iraq dà segni di ripresa, recuperando, sia pur lentamente, vitalità. E, quel ché è peggio dal punto di vista degli interessi dell'imperialismo, le masse sfruttate dell'Iraq (e non soltanto dell'Iraq), pur terribilmente provate dalla guerra, deluse dal suo esito e mugugnanti (ne hanno abbondanti motivi) verso il regime baathista, hanno accolto con ostilità le vessatorie risoluzioni post-belliche dell'ONU e mostrano di condividere la richiesta di Baghdad di porre termine all'embargo internazionale.

Avvertendo bene quale è il sentimento generale delle popolazioni arabe a questo riguardo, perfino un Mubarak ha fatto sua, a parole, questa richiesta, ma è stato prontamente richiamato all'ordine (il "nuovo ordine internazionale"…) proprio dalla "Washington Post": di togliere il blocco non se ne parla neppure, sarebbe "un errore particolarmente pericoloso". L'unica cosa ammissibile è il suo provvisorio allentamento onde iniziare a mungere dall'Iraq le "riparazioni di guerra" ed incrementare, con il pretesto "umanitario" della diretta distribuzione dei viveri, la penetrazione di contingenti "civili" delle potenze imperialiste nel paese in modo da rafforzare il controllo su di esso anche dall'interno. Che se poi il governo iracheno dovesse respingere lo iugulatorio diktat come "un intollerabile affronto alla sua sovranità", tanto di guadagnato per le democrazie d'Occidente: "si renderà chiaro agli occhi del mondo - conclude il giornale americano - che è Saddam Hussein ad affamare i bambini iracheni, e non l'embargo dell'ONU".

Il "nuovo ordine internazionale" di "pace" delle democrazie imperialiste si è dunque presentato agli sfruttati iracheni e medio-orientali con le risoluzioni 705, 706 e 707 dell'ONU. Tramite esse, il Consiglio di Sicurezza, ha graziosamente consentito all'Iraq, in via eccezionale (per 6 mesi), di estrarre petrolio per un valore di 2.000 miliardi di lire. I proventi della vendita di questo petrolio saranno interamente confiscati dagli "alleati". 600 miliardi andranno agli emiri d'Arabia e d'Occidente a titolo di "riparazione dei danni di guerra" (massimo beneficiario il complesso militare-industriale statunitense che con la guerra si è accaparrato favolose commesse dalle petrolmonarchie). 100 miliardi serviranno ad avviare l'allestimento, sotto la sovrintendenza dei massimi produttori, detentori e mercanti d'armi del mondo, di quella che è stata chiamata "la prima industria mondiale dei 'disarmamenti' ". I restanti 1.300 miliardi saranno accaparrati da uno speciale organismo onuista incaricato di acquistare cibo e medicine da distribuire direttamente in Iraq. Se si divide la somma per 18 milioni di iracheni e per 180 giorni (il periodo di deroga all'embargo), si ha una cifra che parla da sola: 400 lire al giorno a testa per viveri e medicinali!, che, conteggiando tangenti, storni, malversazioni, fondi neri, frodi, stipendi d'oro per i distributori, etc., ingredienti fondamentali d'ogni capitalistica impresa di beneficenza (tanto più se internazionale), si ridurranno realisticamente a non più di 250-300 lire a testa.

"Umanitario" affamamento garantito, che per di più gli stati imperialisti affamatori si predispongono a gestire ad arte per piegare e dividere col ricatto della sopravvivenza le masse stremate. E pensare che USA e Gran Bretagna insistono per elevare dal 30% al 50% la quota per le "riparazioni di guerra" e che le banche creditrici dell'Iraq hanno già prenotato per sé una quota non inferiore al 20% del ricavato di eventuali nuove deroghe… Ci taccino pure di visione ideologica dei fatti, - non ce ne importa un accidenti - i "pacifisti" difensori della "vera" legalità internazionale, che non hanno avuto, neppure una chiara parola di denunzia contro questo infamia: per noi marxisti la "pace" imposta all'Iraq, quella che secondo lo stesso rapporto della Harvard University causerà la morte per denutrizione e fame, nel solo prossimo anno, di 170.000 bambini iracheni, non è altro che la continuazione della guerra imperialistica con altri mezzi non meno spietati di quelli bellici. Sempre che la parola non abbia a tornare ai super-bombardieri statunitensi per una seconda e "definitiva" missione di "pace"…

Lo scopo ultimo dell'azione di "pacificazione" è il medesimo che fu già della guerra: ristabilire il dominio occidentale sul petrolio medio-orientale e rimettere sotto il tallone di USA é soci le masse lavoratrici arabo-islamiche "colpevoli" di ripetute ribellioni all'ordine imperialista, con un di più di sfruttamento e di oppressione rispetto alla situazione pre-guerra. La sorte riservata all'Iraq dev'essere in questo quadro, di monito alle masse irachene, alle moltitudini degli sfruttati "di colore" ed alla classe operaia metropolitana affinché, sappiano a cosa va incontro l'insubordinazione, la lotta contro i super-stati capitalistici.

L'esautoramento dello stato iracheno (salvo che, come si è visto, per le mansioni di polizia interna) e la diretta messa sotto tutela delle istituzioni e dell'economia irachene sono, insieme con l'embargo altri passaggi indispensabili del processo di "pacificazione", non essendo ipotizzabile, dopo quanto accaduto, un immediato rovesciamento della politica di Saddam ed essendo andate parzialmente a vuoto la "carta" curda e quella sciita. Ma questo coinvolgimento in prima persona degli USA e dell'imperialismo occidentale tutto nel ristabilimento del proprio ordine di sfruttamento in Medio Oriente è un vistoso sintomo di quanto sia diventata precaria, nella regione e più in generale nel "Terzo Mondo", la forma di controllo sui paesi dominati preferita dal capitale finanziario: quella indiretta, per interposta borghesia (o semi-feudalità) compradora. Ha detto bene, perciò, la "Washington Post": la Guerra del Golfo è stata soltanto l'inizio; "c'è ancora un sacco di lavoro da portare a termine prima che gli Stati Uniti (e gli alleati) possano permettersi il lusso di lasciare il Golfo". L'aggressione dell'Occidente imperialista al proletariato ed agli oppressi arabo-islamici continua.

Una conferenza per la "pace" imperialista

Un trattamento di tutto riguardo sarà riservato, naturalmente, ai palestinesi, chiamati a pagare il fio della loro semi-secolare lotta rivoluzionaria e, da ultimo, del plebiscitario pronunciamento pro-Iraq con il diniego imperialista, più risoluto e unanime che mai, alla loro auto -determi nazio ne nazionale.

E' difficile prevedere in quali forme e con quali effetti si terrà la Conferenza "di pace" in Medio Oriente che la Casa Bianca va alacremente preparando, tali e tante sono le incognite internazionali (di prima grandezza, tra esse, il boicottaggio dell'emarginata Europa) e locali che ne mettono in forse, se non proprio la convocazione, per lo meno il "positivo" svolgimento. Comunque sia, una cosa sin d'ora è certa: la trama della Conferenza è rivolta contro le masse della Palestina e del mondo arabo.

Gli indirizzi di fondo dell'amministrazione Bush sono del resto inequivoci: consolidare, sulla scia degli accordi di Camp David e sotto il patronato statunitense (il ruolo da "comprimario" dell'URSS è di mera facciata), l'avvicinamento e l'intreccio di legami politici ed economici tra Israele e gli Stati arabi (confinanti con Israele e non), piegando questi a riconoscere senza più riserve lo Stato che per oltre quarant'anni hanno accusato di colonialismo e di razzismo; e per converso liquidare una volta per tutte la questione dello Stato palestinese, istituendo un mandato congiunto israeliano-giordano sui cosiddetti territori occupati (con Gerusalemme di già acquisita di fatto da Israele) e cooptando la borghesia palestinese oggi nei compiti di amministrazione locale e domani anche nelle funzioni repressive richieste dal regime di triplice oppressione delle masse sfruttate palestinesi che la Conferenze dovrebbe "legalizzare".

Mettendo a frutto la sconfitta dell'Iraq, l'avvoltoio Baker tenta di mandare a compimento il disegno di stabilizzazione imperialista messo a punto un decennio addietro da Kissinger, che escludeva la formazione di uno Stato palestinese con le seguenti motivazioni: "L'ultima cosa di cui ha bisogno il Medio Oriente è un altro stato estremista locale che se la prenda con tutte le istituzioni esistenti. Esso sarebbe non soltanto contro l'interesse degli Stati Uniti, ma anche contro quelli di stati arabi moderati, il cui benessere abbiamo tutti i motivi di difendere. Del resto, quei paesi lo comprendono perfettamente, al di là delle loro pubbliche dichiarazioni (…). I nostri alleati europei devono rendersi conto che, sfornando progetti irrealizzabili (l'allusione è al "mini-stato" palestinese blandamente caldeggiato per alcuni anni, sulla carta, dai governi europei, n.), incoraggiano l'estremismo e rendono inevitabile una situazione di stallo. (…) Uno stato palestinese indipendente nelle circostanze attuali (era l'indomani dell'insurrezione iraniana del 1979, ma Kissinger lo ripeterebbe a maggior ragione oggi, n.) si sentirebbe autorizzato a sovvertire i governi moderati vicini, soprattutto il giordano, non fosse che per sottrarsi alle inevitabili misure di smilitarizzazione, in difetto delle quali non è neppure concepibile un ritiro israeliano di qualsivoglia estensione"[2].

Ebbene: quale congiuntura più favorevole di quella attuale per tagliare di netto, insieme con quello iracheno, anche il nodo palestinese? I governi europei hanno cessato da quel dì di "sfornare progetti irrealizzabili", come le socialdemocrazie europee, sempre più allineate ai propri governi, di insistere sul "ruolo insostituibile" dell'OLP. Il processo di sadatizzazione della borghesia araba ha fatto, con la Guerra del Golfo, un vero balzo in avanti[3], così che, mentre il "libero" Kuweit trucida, tortura e disperde i palestinesi, la gran parte dei governi arabi non si dà gran pena neppure di nascondere la propria indifferenza per la loro sorte, decidendo anzi di congelare i propri rapporti (ed apporti) ad un'OLP che per parte sua non è stata mai tanto aliena come lo è oggi, dall' "estremismo" e dall'anti-occidentalismo imputatole da Kissinger. Nello stesso Baath iracheno, che pure è appena reduce dall'averla risollevata (e con quale "clamore"!) si va mettendo apertamente in discussione l'insegna dell'unità pan-araba e con essa il patrocinio della lotta di liberazione palestinese.

Al polo opposto lo Stato di Israele, pur infognato in crescenti contraddizioni economico-sociali, beneficia di aperture diplomatiche e di mercato senza precedenti (tra le più cospicue delle quali è da annoverare la proposta De Michelis di ammettere Israele dentro lo "spazio economico europeo": ahi, quante volte abbiamo messo in guardia i militanti palestinesi dal credere, sia pure solo "a livello tattico" (?) come essi usano dire, al carattere filo-palestinese della politica dell'imperialismo italiano!), e si serve delle nuove aperture diplomatiche e di mercato per espandere il raggio della propria colonizzazione del territorio palestinese ed assestare indisturbato nuovi colpi alla sollevazione popolare.

E questa una situazione che, anche per le difficoltà e la stanchezza dell'Intifadah, accende le brame di rivincita dell'imperialismo: "C'è un'occasione storica di pacificare, stabilizzare e disarmare la regione medio-orientale. Non lasciamocela sfuggire", ha affermato Bush, dando questa volta un vero altolà a quell'oltranzismo sionista che, con le sue "intemperanze", rischia di compromettere l'intero processo di "pacificazione". Ma potrà l'imperialismo cogliere la "storica occasione"?

Sul n. 21 del "Che fare" abbiamo scritto: non si può escludere che il processo di "pacificazione " imperialista compia nei prossimi tempi un qualche limitato progresso; se ciò avverrà, sarà in base - però - non a soluzioni "giuste" e durevolmente accettabili per gli oppressi arabo-islamici (a cominciare dai palestinesi), bensì a "pseudo-soluzioni inconsistenti e reazionarie" destinate a rivelare il proprio carattere oppressivo e la propria fragilità di fronte all'immancabile ripresa del movimento rivoluzionario in Medio Oriente.

I sei mesi dalla "fine" della guerra sono serviti già ad evidenziare quanto ipocrita fosse la promessa di democratizzazione delle petrolmonarchie fatta balenare in qualche modo dagli alleati; quanto evanescente fosse il prospetto di un riequilibrio tra paesi poveri e paesi ricchi nel mondo arabo; e, ancora, quanto tragicamente illusoria fosse l'aspettativa dei curdi d'aver trovato in Bush il difensore della propria causa (quello stesso Bush che, insieme con gli alleati presenti in Kurdistan - le "impeccabili" truppe italiane incluse -, ha dato e dà copertura ed aiuto logistico alle operazioni anti-curde della Turchia di Ozal). E tuttavia almeno sotto un profilo i piani "di pace" di Washington sembrano conseguire qualche risultato: nella preparazione della Conferenza sul Medio-Oriente. L'ennesimo passo indietro dell'OLP ad Algeri con la accettazione delle coordinate della "pax americana", infatti lascia in piedi l'eventualità che la Conferenza possa, se non altro, aprirsi senza immediatamente naufragare nella seduta d'apertura e dare così l'impressione, con la prospettiva (nel corso del tempo) di un limitatissimo e condizionatissimo ritiro israeliano dall'arca di Gaza e della Cisgiordania, di avviare la questione palestinese verso un primo sbocco "in avanti".

Ma né la decisione a larghissima maggioranza del Consiglio nazionale palestinese, né la sempre più vacua e falsa demagogia arafattiana sono in grado di mascherare il fatto che quella richiesta dall'imperialismo è una dichiarazione di resa e che la "pace" del 1991 ha contenuti assai più iniqui di quella del 1948. Non per nulla davanti alla proposta "di pace" a stelle e strisce il movimento palestinese si presenta, nei territori e fuori, diviso quanto mai lo è stato in precedenza, e diviso secondo una non mistificabile linea di classe.

Catalizzata dalla forza (oltre che riallineata dai brutali ricatti) della grande borghesia araba, - una scheggia, e forse più, della quale ha "sangue palestinese", nelle vene -, la micro-borghesia palestinese produttiva e dei commerci, delle professioni e dei (pur smilzi) apparati amministrativi e diplomatici, appare, ben più che pronta, desiderosa di arrivare ad un "compromesso" con l'imperialismo; un "compromesso" anche di infimo livello che serva, con qualche concessione purchessia, a disinnescare un'Intifadah che, in Palestina come in Kuwcit e in tutto il mondo arabo, ha messo in crescenti difficoltà i suoi affari[4] e la sua credibilità internazionale. Al medesimo risultato ambisce, con ancor maggiore inquietudine, quel che rimane della vecchia classe dei proprietari fondiari e del notabilato di clan, uno strato sovra-rappresentato nel Consiglio nazionale palestinese, ai cui occhi la sollevazione di questi anni ha il torto di avere terremotato un intiero Il mondo" di tradizioni (e cioè di consolidati rapporti di sfruttamento) che ne legittimava la preminenza nella società palestinese pre-"colonizzazione".

Per il giovane proletariato palestinese, supersfruttato in Israele come "in patria", invece, per la massa delle classi lavoratrici palestinesi dei territori e della diaspora, una "pace" che liquidi le storiche rivendicazioni della lotta di liberazione non può che significare la stabilizzazione di condizioni di sfruttamento e di oppressione non dissimili, se non peggiori ancora, rispetto alle attuali. Non si dà per caso se la giovane leva "proletaria" che ha fatto l'esperienza dell'Intifadah, si riconosca o meno nell' "alternativa islamica" di Hamas, abbia di già battezzato "ottobre nero" quello che un Faysal Husseini e la sua classe, sia pur cautamente, salutano come un Il ottobre di speranza".

L'unità nella lotta degli sfruttati medio-orientali e d'Occidente è una necessità indifferibile

Ancora una volta, la questione palestinese è riassunto e simbolo dell'oppressione imperialista su tutto il Medio Oriente e, come avviene puntualmente da mezzo secolo in qua, la pretesa imperialista di eliderla non sortirà alla distanza altro effetto che di esaltarne la potenzialità sociale e Politica dirompente nei confronti di Israele, degli Stati arabi (non esclusivamente di quelli tradizionalmente "moderati") e dell'intero ordine imperialista in Medio Oriente.

Del resto, il mondo arabo-islamico (non soltanto la Palestina) è profondamente cambiato nell'ultimo decennio diventando il terreno di una ininterrotta mobilitazione anti-imperialista che sta sempre più assottigliando i margini di manovra del "vecchio" nazionalismo borghese arabo col metterne a nudo la crescente pavidità. La Guerra del Golfo e ora il tentativo di "pacificazione" imperialista della regione spingono ancora oltre questo processo, approfondendo il solco tra le classi proprietarie e le classi lavoratrici del mondo arabo-islamico. Non pretendiamo, dopo una così aspra sconfitta, che vi sia un istantaneo riscontro politico-ideologico dell'inasprita polarizzazione di classe. Ma si può già constatare come la necessità che le masse sfruttate del Medio Oriente assumano su di sé, unitariamente, quella lotta alla dominazione imperialista da cui la borghesia araba ed il regime islamico di Teheran continuano a dimissionare vada facendosi strada negli organismi di lotta di cui è stata crogiuolo l'insorgenza di massa contro l'aggressione all'Iraq.

Uno di questi organismi, il Comitato giordano della dichiarazione di Amman per la realizzazione dell'unione di lotta con l'Iraq e la Palestina, ha espresso questa necessità con una certa (relativa, intendiamoci bene!) chiarezza: "E' evidente che la lotta contro l'aggressione (imperialista) - dice una sua risoluzione - non può essere limitata a scala nazionale o regionale, giacché è la nazione araba nel suo insieme ad essere presa di mira. E' per questo che l'unione di lotta di tutti i popoli arabi è una necessità. Nello stesso tempo la lotta comune del popolo arabo in Iraq, in Palestina ed in Giordania, allo stato attuale delle cose, costituisce una questione urgente, visto che questi tre paesi sono attualmente il bersaglio principale dell'invasione imperialista (…). Non c'è più altra scelta, per le popolazioni, che ingaggiare il combattimento decisivo, con tutti i mezzi, contro l'imperialismo, il sionismo, i regimi reazionari arabi e le altre forze regionali coinvolte nel complotto, onde poter realizzare l'unione di lotta, futuro nucleo dell'unione araba globale (…). Le masse arabe, con tutte le loro forze e organizzazioni, sono vivamente chiamate al movimento ed alla lotta comune. E poi ancora: "(bisogna) insistere sul carattere democratico dell'unione di lotta messa in programma e sulla lotta permanente per il rafforzamento della partecipazione effettiva delle masse alla presa delle decisioni che toccano la vita dei cittadini ed il loro avvenire". (Da "Solidaire", 19 giugno 1991).

Quel che è interessante in una presa di posizione come questa, opera di un organismo composto di forze nazional-popolari aventi un seguito di massa, e come entro una prospettiva che rimane pur sempre quella dell'unità "anti-imperialista" della nazione araba, l'accento cada fortemente sulle masse (sfruttate, aggiungiamo noi) e sul ruolo attivo, da protagonista che debbono avere, nonché sulla esigenza di unità tra "tutti i popoli arabi". Non meno interessante è che questo appello di lotta non contenga richiami a nessun "regime guida" ed a nessun mitico "cavaliere della nazione araba" (Saddam non vi è neppure menzionato) e si chiuda con un invito ed un impegno a "rafforzare i rapporti tra le organizzazioni politiche e sindacali e gli organismi "nazionali popolari arabi" nella comune lotta "contro l'imperialismo, il sionismo e la reazione".

Non siamo all'internazionalismo proletario d.o.c.? Banale: ci è ben chiaro. Quel che resta invece oscurissimo a certi nostri contradditori è che anche entro questa e consimili risoluzioni si può leggere uno spostamento del baricentro della lotta all'imperialismo dagli stati e dalle borghesie arabe (con annessi rais, zaim, etc.) alle masse lavoratrici arabe oppresse, ed insieme un oggettivo appello alla unità tra gli sfruttati che va ben al di là dei confini, ampi ma angusti se si vuol combattere ed abbattere il sistema imperialista mondiale, del mondo arabo o anche islamico. La lotta contro lo strangolamento dell'Iraq e l'affamamento delle masse irachene, la lotta contro la liquidazione della causa palestinese, la lotta contro lo schiacciamento ed il disarmo delle masse e dei popoli del Medio Oriente cui mira il "nuovo ordine" imperialista, è e deve sempre più diventare anche la lotta del proletariato e dei comunisti delle metropoli. Il nemico di classe di "tutti i popoli arabi" è il nostro stesso nemico di classe!


Note

[1.] Gli USA non hanno, evidentemente, alcuna intenzione di ritirare tutte le proprie forze belliche dal Golfo: le hanno fatte sbarcare in Arabia non solo per la guerra all'Iraq, ma per restarci a presidio permanente degli interessi statunitensi nell'area. Speranza del Pentagono era, però, di poter ridurre ai minimo il contingente del presidio in Arabia, in modo da poter passare senza indugi a "nuove missioni di pace". Questa speranza sembra essere andata, per il momento, delusa dalla non completa "chiusura" della contraddizione irachena. Quanto alle "nuove missioni di pace", non appena concluso il "massacro nel deserto", l'American Council of Chiefs-of-staff, di cui è presidente il gen. Powell, si era immediatamente premurato di segnalare che "la penisola coreana è l'area che, dopo il Golfo, corre il più grande rischio di provocare una guerra di terra limitata", lanciando opportunamente la parola d'ordine "occhio alla Corea dei Nord!" ("The Economist", 28/9/91). Si può esser certi che il battage pubblicitario sulle "storiche proposte" yankee per il disarmo altrui preludono, tra le altre cose, per l'appunto a nuove "guerre per la pace" contro quei paesi che tentato in qualche modo di resistere alle ingiunzioni imperialiste post-guerra fredda.

[2] H. Kissinger, Punti fermi, Mondadori, 1981, pp. 336-7.

[3] Il più evidente esempio di ciò è la "nuova" posizione della Siria. Quel che noi marxisti contestiamo alla Siria di Assad, a differenza dei democratici, non è la ri-congiunzione dei Libano alla Siria, bensì la cooperazione con la "pax americana" e imperialista. Della ricongiunzione dei Libano alla Siria, poi, ciò che va contestato non è certo il superamento - se davvero ci sarà - delle reazionarie suddivisioni confessionali e cantonali care ai Wojtyla, ai Formigoni ed ai Mitterrand, bensì che essa sia avvenuta all'insegna, tanto per cambiare, della repressione e del disarmo "mirati" delle masse palestinesi e dell'estremismo plebeo libanese.

[4] A proposito di Intifadah ed affari dei borghesi palestinesi, scriveva qualche tempo fa "Il Sole-24 ore" (del 24/4/91): "gli imprenditori della West Bank sembrano essersi abituati a convivere con l'Intifada che, come sottolinea uno di loro, non è solo ribellione contro lo stato occupante, ma la scusante per una sorta di rivolta contro il sistema e per certi aspetti di lotta di classe. Non è un caso che con l'Intifada i sindacati abbiano assunto un peso determinante nella vita delle aziende, costringendole ad esempio a ridurre l'orario da 12 a 8 ore giornaliere, a pagare comunque i dipendenti anche nei giorni di sciopero nazionale o di assenza dal lavoro per le manifestazioni anti-israeliane". Tenendo presente tutto ciò, non si stenta a capir e come i suddetti imprenditori (ed altri borghesi palestinesi, di maggiore taglia), sarebbero contenti di convivere con… la fine dell'Intifadah, soprattutto se - come suggeriscono Europa ed USA - la borghesia israeliana si decidesse a lasciar loro un po' di spazio in più sul mercato.