Non era stata neppure siglata la tregua nel Golfo, si può dire, che il compassato "Corriere della sera" (del 5 marzo '91) titolava famelico: "E ora pronti ad incassare il dividendo della pace". E giù ad elencare i "tre ordini di effetti positivi prodotti" dalla carneficina:
1) "Come tutte le guerre, anche quella del Golfo si è rivelata un tonico per l'attività economica, grazie alla domanda aggiuntiva prodotta dalle distruzioni" (davvero ben detto!). Se dunque "ogni giorno di conflitto ha 'consumato' risorse pari a 600 milioni di dollari il giorno" (circa 800 miliardi al giorno), ne consegue ecco serviti i "pacifisti" circa la perfetta razionalità della guerra per il capitalismo - che la ricostruzione del Kuwait e dell'Iraq comporterà una mega-spesa di almeno 150 miliardi di dollari, uno "stimolo non trascurabile, sopratutto per gli Stati Uniti".
2) La sconfitta dell'Iraq "ridimensiona forse definitivamente l'Opec" e assicura un petrolio a prezzi se non stracciati, almeno bassi (intorno ai 20 dollari a barile): "questo significa non solo che l'Occidente si ritroverà più ricco (giusto!, n.), ma anche che esso potrà contare su un provvidenziale impatto disinflazionistico" (altrettanto giusto), particolarmente utile a frenare i tassi di interesse che, data la fame internazionale d* capitali liquidi, tenderebbero a salire aggravando le spinte recessive.
3) Il "ridimensionamento politico-strategico dell'Iraq" e la più stretta messa sotto controllo occidentale del Medio Oriente favorisce la "crescente integrazione (leggi: subordinazione) dei mercati" non solo dell'Est ma anche del Sud a quelli del Nord, inutile specificare a beneficio di chi.
Tenendo conto, infine, del "ripristino di stati d'animo più distesi presso i consumatori e gli investitori", ne sgorgava naturale il pronostico che "una recessione breve e poco severa" sarebbe stata tacitata da una pronta ripresa dell'economia mondiale.
Gli USA e l'intero campo imperialista non han certo frapposto tempo nell'intascare i dividendi della guerra, ma gli esiti dell'operazione appaiono al momento, meno brillanti di quanto atteso. Il circolo virtuoso guerra-uscita dalla crisi non è nuovo per gli USA in questo secolo, ma - come ha notato un'intelligente redattrice di "Le Monde" con inconsapevole marxismo - i rendimenti dei conflitti militari (che l' hanno forgiato la potenza degli Stati Uniti") sono decrescenti, a conferma della (diremmo noi) legge, ben nota nella sua sostanza a tale Federico Engels, dei "rendimenti decrescenti del militarismo delle grandi potenze" ("Le Monde", 15/1/91).
Illustrare tale legge - che non ha impedito, non può impedire al capitalismo imperialista di intrecciarsi sempre più strettamente al militarismo - non rientra nelle funzioni di queste note che hanno uno scopo più modesto: chiarire se davvero, come si legge a giorni alterni, è in atto un rilancio globale dell'economia mondiale, e quali sono le sue caratteristiche.
Sul "se" la risposta del "World economic survey" dell'ONU è, per l'anno in corso, negativa: ad un 1990 con saggio di crescita globale (nel mondo) dell'1%, seguirà un 1991 a crescita zero. E un ristagno evidentemente non omogeneo, dal momento che sia dentro l'occidente che, e assai più, tra imperialismo occidentale e "resto del mondo", vi sono notevoli discrepanze. La principale novità dell'anno (e probabilmente di quelli a venire) è che nelle performances negative i paesi dell'America Latina e dell'Africa sono stati raggiunti e scavalcati dal blocco dei paesi ex-"socialisti", la cui produzione industriale è diminuita nel 1990 del 6% e dovrebbe diminuire nel 1991 di circa il 10% (per la Russia si calcola addirittura un –17%, per la Jugoslavia un -20÷50%), tant'è che nel rapporto dell'ONU si ipotizza che proprio il tracollo di questi paesi "a medio tasso di sviluppo" sia una delle più importanti cause del ristagno in atto.
Quanto ai paesi dominati, per il terzo anno consecutivo si registra un rallentamento del loro già limitato saggio di crescita (la cosa vale anche per le rampanti "piccole tigri" del Sud-Est asiatico), e la caduta dei prezzi delle materie prime al livello più basso degli ultimi trent'anni non pare certo dischiudere per questi paesi la possibilità di un'inversione della tendenza che ne ha visto raddoppiare, in dieci anni, l'indebitamento estero.
In Occidente, all'andamento recessivo dell'economia degli Stati Uniti (fino a maggio scorso) e delle economie ad essa più strettamente legate (Canada, Gran Bretagna, Australia), nonché del prodotto interno lordo italiano, fa riscontro un segno positivo sopratutto per la Germania (purché non si consideri l'ex-RDT) e, meno, per il Giappone, il cui tasso di sviluppo della produzione industriale si è ridotto, nell'ultimo periodo, al +2,4%.
Nondimeno, il "World Economic Survey", al pari della generalità degli altri istituti di rilevazione sulla congiuntura, constata i segni - a partire dagli USA - di un contenuta ripresa dell'accumulazione su scala mondiale, che dovrebbe attingere alla fine del 1992 la soglia del + 2%.
Ad essere sotto speciale osservazione sono in particolare gli Stati Uniti, con la speranza che, se l'esaurimento della ripresa reaganiana ha portato con se in tutto l'Occidente (con la sola eccezione della Germania) lo sgonfiamento dello strombazzato "boomino" post-1987, un nuovo slancio degli affari al di là dell'Atlantico serva a far superare l'impasse in cui Europa e perfino Giappone rischiano di scivolare (non potrebbe davvero esserci esordio più deludente per l'acclamatissima era del "Postcomunismo").
C'è realmente un nuovo slancio degli affari e della produzione negli USA? "Business Week" del 7 ottobre risponde al quesito con una immagine ironica: "gli economisti vedono il bicchiere mezzo pieno, i consumatori mezzo vuoto". Dalla tarda primavera, in effetti, gli indici della produzione (non quello dell'occupazione, però) sono in risalita: tuttavia questa risalita, che ancora ad inizio luglio molti prospettavano "forte", sembra essere viceversa (secondo quanto scrive il settimanale di Wall Street) "fragile" ed "eterea", "non propriamente la madre di tutte le riprese".
Ma prima di venire alle caratteristiche interne ed internazionali della nuova "ripresa" americana, è utile osservare le particolarità della recessione che la super-potenza sembra avere messo alle spalle. Si è trattato di una crisi relativamente breve (dal luglio 1990 al maggio 1991) e moderata (-3,5% della produzione industriale), non per questo priva di elementi destinati a condizionare pesantemente la fase di recupero.
Anzitutto: la caduta della produzione è stata quanto mai diseguale, molto profonda (più marcata che nel 1980-'82 e nel 1974-75) nei settori legati ai consumi di massa (auto, costruzione di case, acciaio, elettronica civile), in collegamento con un fenomeno sconosciuto, negli ultimi 44 anni, per la società americana: la diminuzione del reddito reale al netto delle tasse per tre trimestri consecutivi. Se non sono stati raggiunti indici globali da grande crisi, lo si deve esclusivamente (a proposito del peana alle virtù del "libero mercato"…) alla tenuta dei settori sostenuti dalla spesa statale (non "sociale", come ad esempio le opere pubbliche) ed in particolare dalla spesa bellica, rimasta stabile agli altissimi livelli del 1985, con un secco aumento della produzione di aerei ed un incremento, anche, delle scorte strategiche di prodotti petroliferi. (In questo ambito va collocato pure lo sviluppo dell'editoria, arma di guerra per eccellenza, tanto più in una nazione con un tasso di alfabetizzazione reale e di efficienza del sistema dell'istruzione - e perciò di consumi "culturali" ordinari - tra ì più bassi dell'Occidente).
In secondo luogo, la recessione 1990-91 lasciai "consumatori" nordamericani con un indebitamento globale - pari ormai al 96% delle entrate annuali al netto delle imposte - di molto incrementato rispetto alla precedente recessione: tale rapporto stabile negli anni '60 e '70 intorno al 65%, era del 70% soltanto dieci anni fa. E non per nulla la flessione dei consumi interni, iniziata negli USA dalla primavera dell'89, aveva avuto modo di ripercuotersi sul rallentamento della produzione industriale (cresciuta di un misero +1,2% soltanto dall'inizio dell'89 fino alla metà del 1990) già prima dell'entrata nella recessione.
Un terzo elemento degno di nota è costituito dalla dimensione e dalla durata (nove trimestri consecutivi) del calo dei profitti delle grandi società a seguito del peggioramento della congiuntura e, più ancora, dell'improvvisa contrazione degli utili di fonte finanziaria e borsistica susseguente al crack del 1987, a conferma della tesi da noi sostenuta che il recupero di profittabilità degli anni '80 era dovuto ad una combinazione di fattori molto più artificiali, precari e gravidi di contraddizioni e di conflitti sociali di quanto la retorica sul "rinascimento reaganiano" volesse far credere.
Dell'attuale risveglio dell'economia statunitense, di cui anche per i postumi dell'ultima recessione resta incertissima la caratura, si può al momento dire con un ragionevole grado di certezza che:
1) E' trainato dalle esportazioni (e non dall'espansione del mercato interno) ed è per questo destinato ad acuire i contrasti tra gli USA e gli altri big dell'Occidente. C'è giubilo a New York per il livello record raggiunto dalle esportazioni (pari, nel secondo semestre del '91, al 22,3% della produzione industriale); ma è da dubitare che gli USA possano continuare a sloggiare con i metodi più spicci (la destabilizzazione dei governi "non amici", gli accordi di blocchi commerciali protezionistici, e direttamente la guerra, come a Panama e nel Golfo) la concorrenza europea e giapponese da ampie zone del mercato mondiale (negli ultimi anni, anzitutto il Centro e il Sud America nonché il Medio Oriente), senza esporsi alle inevitabili misure di ritorsione, già tangibili peraltro nella caduta degli investimenti esteri negli USA e nella crescente riluttanza euro-giapponese a sottoscrivere i buoni del Tesoro americani.
2) E' trainato, ancora una volta, dalla spesa bellica, soprattutto dei paesi terzi: in un solo anno l'export di armi statunitense verso il Terzo Mondo è raddoppiato (terreno sottratto all'URSS, in questo caso), e l'industria aeronautica vive un vero boom (nonostante la riduzione del traffico aereo civile: -10% su scala mondiale).
3) E' destinato sul piano sociale ad approfondire la polarizzazione sociale prodotta dal reaganismo e ad estenderla alle stesse classi medie, in specie ai "colletti bianchi" del terziario e dell'industria indicati dallo stesso "Business Week" come i "grandi perdenti" della fase prossima ventura, che vedrà gli investimenti dirigersi più verso i servizi che nel settore secondario, ed in quelli più verso l'introduzione di nuove macchine e nuovi criteri organizzativi "labor saving" (risparmiatori di manodopera) che, come negli anni passati, all'ampliamento dell'occupazione, di cui, per la prima volta nel dopoguerra, si prevede la stasi anche nei settori-"spugna".
4) E' appesantito e frenato fin dalla partenza da una caterva di problemi irrisolti dell'economia mondiale come dell'economia e della società statunitense. I maggiori, tra questi ultimi, sono il deficit statale (pari nel 1991 a circa 400 miliardi di dollari), a cui sta sommandosi il crescente indebitamento dei singoli stati e dei maggiori comuni (+ 50% in dieci anni); le "tasche vuote" della massa dei salariati, per i quali un recente studio del Congresso ha preannunciato un peggioramento delle condizioni materiali (testualmente: E' il capovolgimento della nostra storia. Per la prima volta le nuove generazioni devono prepararsi a star peggio di quelle che le hanno precedute"); la debolezza del sistema bancario, sovraesposto in molte direzioni e a scala mondiale surclassato dalla banche nipponiche; la perdurante crisi di comparti tuttora fondamentali come l'auto e l'elettronica; il basso livello degli investimenti, e via dicendo.
Come osserva "The Economist" del 22/6/91, gli Stati Uniti sono in un circolo vizioso sempre più difficile da spezzare: "Bassi risparmi portano con sé bassi investimenti. E questo, insieme con un'istruzione scadente e delle infrastrutture trascurate, frena la produttività, ciò che a sua volta frena lo sviluppo, ciò che a sua volta frena gli investimenti, e così via. Il governo potrebbe spezzare questa catena tagliando il deficit statale per alimentare il risparmio interno, ma non lo fa. Se la crescita dell'economia americana si trascinerà ad un tasso soltanto del 2% (è questa la previsione della rivista inglese), rapportato al circa 4% di incremento annuo medio del Giappone, allora non è irrealistico l'assunto che l'economia giapponese sorpasserà quella statunitense nel giro di 20 anni. E se neanche una simile prospettiva provoca all'azione, allora non c'è nulla che possa farlo".
Senonché, lasciando da parte i tentativi americani di forzare questo circolo vizioso, le difficoltà per gli USA di venirne a capo sono legate al fatto che l'intera economia mondiale sta avvitandosi, da circa un ventennio, nella spirale dei propri antagonismi. L'inesorabile rallentamento dell'accumulazione capitalistica contro cui stanno rompendosi la testa i "teorici dello sviluppo" (quegli stessi che, naturalmente, se la ridono della caduta tendenziale del saggio di profitto e delle altre leggi del modo di produzione capitalistico) non è, infatti, un'esclusiva degli USA, ma un fenomeno (secondo le parole di Maddison) "sorprendentemente generale, persistente e di ampia portata", che è stato perfino più (o meno) acuto per Europa e Giappone (il cui tasso di crescita del Pil è sceso dal 5,6% medio annuo del periodo 1950-73 al 2,1 % del periodo 1973-87).
In realtà, come non ci stancheremo di ripetere, con la crisi del 1974 è terminato il ciclo espansivo post-bellico, ciclo effettivamente universale (pur se, nei paesi dipendenti dall'imperialismo, non si è andati oltre lo "sviluppo del sottosviluppo") e relativamente - continuo (lo hanno contrassegnato pur sempre cinque recessioni), ed ha preso avvio il processo, di non breve momento, destinato a sfociare in una crisi di disgregazione o disintegrazione di tutto il sistema capitalistico. Guardato in questa luce, il periodo 1974-1991 appare per qualcosa di diverso una mera fase di incubazione del collasso generale, se è vero - e lo è - che nessuna delle aree entrate nel marasma economico e politico è riuscita a tirarsene fuori e che, anzi, il corso catastrofico dell'economia e delle contraddizioni diclasse lambisce sempre più da vicino il cuore del capitalismo internazionale.
A quanti ci obiettano che del preconizzato collasso nulla s'è visto sinora in Occidente, controreplichiamo ancora una volta: lo scaricamento della crisi in "periferia" o semi-"periferia" e l'intervento anti-crisi degli stati imperialistici stanno sempre più rovesciandosi nel loro contrario. La cosa risalta anche nei periodi di ripresa. Lo stesso nuovo recupero dell'economia statunitense, se pure dovesse stabilizzarsi (da un saggio di incremento della produzione che è, comunque, meno della metà di quello delle precedenti riprese), non servirà ad invertire una tendenza che viene da lontano: il tempo della continua, travolgente espansione del mercato mondiale (e… del riformismo) è passato; l'aspetto sempre più dominante è ormai, nelle congetture favorevoli non meno che nelle sfavorevoli quello della rispartizione del mercato mondiale, e l'inasprimento dei contrasti inter-imperialisti esaspera l'antagonismo di classe a scala planetaria, comanda al proletariato di venir fuori dall'ombra, e di battersi fino in fondo per la sua emancipazione.
Nulla è più falso degli "storici annunci" di Bush circa il "disarmo" statunitense; nulla parla del futuro quanto la Guerra del Golfo e la guerra in Jugoslavia; nulla è più materiale delle politiche restrittive e dei sacrifici per il salariato con cui si apre, curiosamente, il nuovo rilancio dell'economia occidentale.