ALLA VIGILIA DELLA TRATTATIVA DI GIUGNO
Dagli integrativi '88-'89 ai rinnovi dei contratti di categoria, dalla guerra del Golfo alla trattativa di giugno, i sindacati, coronando una tendenza che viene da lontano, agiscono sempre più da "strumento secondario del capitalismo imperialista" (Trotzkij). L'accelerazione di tale processo richiede una più forte blindatura delle strutture sindacali: ed è in questo senso che si muove l'accordo sulle Rappresentanze Sindacali Unitarie. È con questa politica sindacale che dovrà fare i conti la ripresa, quanto mai necessaria, delle lotte operaie, per realizzare la difesa intransigente degli interessi dei lavoratori senza nulla concedere a qualsiasi riconoscimento di "compatibilità" e di "superiori e generali esigenze nazionali".
La guerra del Golfo ha reso ancora più esplicito l'allineamento del "riformismo" - sindacale e politico agli interessi del proprio capitalismo contro la lotta anti-imperialista delle masse arabo-islamiche e contro gli interessi storici del proletariato (nella bancarottiera prospettiva di assicurare ad esso un qualche utile immediato). Cgil-Cisi-Uil hanno assunto un atteggiamento di sostanziale cauzione a quella del governo, prendendo le distanze persino dalle (pur pessime) posizioni assunte dalle direzioni del "pacifismo". Hanno attivamente lavorato per "bloccare il diffondersi di un'ondata di protesta nel paese" (Marini), contenendo le spinte provenienti da alcuni settori di operai e di lavoratori. Hanno contrapposto nei fatti allo sviluppo di un movimento di lotta contro la guerra la via istituzionale della proposta al governo italiano di un "piano antiguerra" ricalcante i punti-chiave dei diktat dell'ONU ed ispirato ad una politica di difesa "operaia" degli interessi del "nostro" capitalismo e di una (presunta) pace garantita dal "diritto internazionale". Salvo poi, a guerra scoppiata, assumere una pratica di non intralcio nei confronti della conduzione di questa infame guerra imperialista. Le posizioni dei sindacati confederali rispetto alla guerra, ed alla politica imperialista della borghesia italiana, rispecchiano, insomma, nel modo più chiaro la loro profonda integrazione nello stato, l'aperta subordinazione della politica sindacale alle esigenze del capitalismo nazionale.
Il processo di integrazione del sindacato nelle istituzioni borghesi non è cosa di oggi, anche se è oggi che registra un'ulteriore accelerazione. Esso ha radici storiche profonde, che rimandano al corso del capitalismo nella sua fase imperialista. Nel primo periodo dello sviluppo capitalistico ("liberista"), stato, sindacato e partiti potevano essere "indipendenti" gli uni rispetto agli altri nel senso che si muovevano con una relativa reciproca autonomia. Non per questo il sindacato era, in quanto tale, "organo rivoluzionario". Siamo ancora all'introduzione per via indiretta dell'influenza capitalistica nelle fila del movimento operaio. I sindacati si presentano come una sorta di organismi "neutri", permeabili sia all'intervento dei rivoluzionari che all'influenza borghese operante attraverso i rapporti "spontanei" dell'economia capitalistica. Essi non sono ancora organicamente legati allo stato ed alle esigenze del capitalismo nazionale, ma costituiscono un terreno di scontro tra due contrapposte possibilità di evoluzione della lotta operaia immediata: o nel senso della generale lotta anti-borghese per il rovesciamento del capitalismo e l'instaurazione del socialismo, o nel senso della contrattazione, all'interno della società borghese, di migliori condizioni di sussistenza della forza-lavoro entro un sistema sociale assunto come definitivo.
Con il procedere dello sviluppo capitalistico e il venire al dunque delle sue contraddizioni decisive (la guerra imperialista), si determinano te condizioni del trapasso del sindacato a "parte dell'apparato di guerra della borghesia" (2° Congresso dell'Internazionale comunista). L'imperialismo, a differenza del capitalismo "concorrenziale", non può prescindere dallo stato. Il processo di concentrazione e centralizzazione del capitale richiede livelli di garanzia e propulsione degli interessi borghesi (specificamente: imperialisti) anche a scala "sovrastrutturale". Non si affrontano più singoli borghesie e singoli proletari, ma si incontrano due classi. L'esigenza di concentrazione totalitaria propria al capitalismo imperialista si riflette anche sul sindacato che, pur rimanendo sempre organo distinto dalla borghesia "in generale", diventa però mezzo di subordinazione del proletariato al buono stato del "proprio" capitalismo, all'interno dei cui meccanismi entrare "da protagonista" per assicurarsi utili immediati in quanto classe del capitale.
Con il 1914 assistiamo così allo schierarsi - a grande maggioranza - dei partiti e dei sindacati secondo-internazionalisti a fianco delle rispettive borghesie. Si chiude con ciò, definitivamente, la fase storica in cui i sindacati sono ancora organismi "neutri" ed ha inizio il processo verso la loro completa integrazione nell'apparato statale. L'esigenza di una ferrea-centralizzazione di tutta la società alle necessità del capitale finanziario rende impossibile ogni "neutralismo" sindacale. L'attività sindacale diventa quindi sempre più dipendente dalle esigenze del capitalismo nazionale e funzionale ad esso.
L'integrazione delle strutture sindacali - pur compiuta nella sua sostanza - non è però uguale dappertutto, non avviene nei paesi imperialisti alto stesso livello ovunque. In Italia questo processo è andato avanti con ritardo, tanto a causa della "debolezza" dell'imperialismo nostrano e delle insufficienti briciole di cui esso poteva disporre per comprare e rafforzare una solida aristocrazia operaia, quanto per le tradizioni di lotta del proletariato sperimentate contro la "democrazia" pre-fascista, il fascismo (giunto a cancellare con la forza e le leggi l'autonomia sindacale) e nella fase post-fascista (contro i settori della borghesia intolleranti verso una "democratica" espressione della contraddizione operaia).
Neppure nel secondo dopoguerra si creano condizioni tali da consentire di colmare questo ritardo. Infatti, sebbene la Cgil porti avanti una politica di collaborazione "nazionale" tra le classi, affossando ogni pretesa di autonomia proletaria, purtuttavia questa politica passa necessariamente attraverso la lotta di classe contro "certi" capitalisti e anche contro date istanze politiche anti-operaie delle classi dirigenti in quanto tali ed avviene all'insegna (rispecchiante le contraddizioni dello scontro di classe a scala internazionale) della lotta per una ipotetica "democrazia progressiva" (per quanto... progressivamente svuotata dalla stessa politica della Cgil). E se fin da subito con Di Vittorio (il "grande padre riformista"), la Cgil unitaria afferma la necessità di "saper sacrificare gli interessi particolari di gruppo e di categoria agli interessi generali di tutti i lavoratori e di tutta la nazione, ciononostante non assistiamo ad un inserimento pieno e diretto del sindacato nello stato (a differenza, ad es., dell'esperienza tedesca, per la quale già nei primi anni '50 si inizia a parlare di cogestione). Ciò non è reso possibile da una situazione economica e politica che impone al padronato una politica di attacco alle condizioni di vita e di lavoro, materiali e politiche di tutta la classe operaia; in questo preciso senso si sviluppa anche una linea di ridimensionamento e di repressione del settore sindacale legato al Pci, ancora troppo conflittuale e legato ad una (seppur domenicale) ipotesi di lotta "per il socialismo".
Un primo passaggio per superare questo ritardo si verifica alla fine degli anni '60 sia per la forza che nel frattempo ha acquisito il capitalismo italiano (grazie alla congiuntura favorevole a livello internazionale e grazie anche al mix di collaborazionismo sindacale e repressione "anti-sindacale"), sia per l'utilizzo che le confederazioni sapranno fare della spinta operaia dell'autunno caldo (dopo averla incanalata nell'ambito "operaio"-borghese della gestione delle compatibilità), un utilizzo che permetterà a Cgil-Cisl-Uil di presentarsi più forti nella richiesta di essere maggiormente corresponsabilizzate nelle decisioni a livello nazionale ed aziendale. Questo primo passaggio raggiunge l'apice con la "svolta dell'Eur", compiuta sulla scia della politica di unità nazionale del Pci, con la quale il sindacato fa notevoli concessioni alle esigenze dell'economia nazionale, accettando pienamente la politica dei sacrifici operai. Naturalmente, questa politica non prospetta solo e soltanto sacrifici, bensì anche amministrazione di "conquiste" da usare come base per l'inserimento nello stato delle rappresentanze "operaie" da una posizione di forza dal punto di vista della classe. La classe operaia ha manifestato un proprio interessamento a quella politica (si pensi ai riflessi istituzionali del '68 in materia di contratti di lavoro, garanzie, ecc.). I guai sono cominciati a risultare evidenti quando si è trattato di amministrare la fase discendente del ciclo post-bellico (e del connesso welfare state). È certo che una discesa libera, pilotata esclusivamente dalla borghesia, avrebbe avuto, ed avrebbe oggi, altri connotati. E però il punto centrale, per noi, è che questa esperienza prova, una volta di più, che nessuna "conquista" legata alle sorti del capitalismo può essere stabile e che, subordinandosi alle esigenze del "proprio" capitalismo, il proletariato si divide ed arriva disarmato al "momento" in cui deve scontrarsi con istanze capitalistiche più dure .
L'ulteriore, e sotto certi aspetti decisiva, accelerazione del processo che stiamo esaminando avviene alla fine degli anni '80, sulla base dell'arretramento generale del movimento operaio e contestualmente alla "ripresa" dell'economia italiana (come di tutti i paesi imperialisti). In questi anni si colma il peculiare ritardo italiano (così come a livello partitico si scioglie 1’"anomalia" Pci e questo partito va a posizionarsi, oltre la stessa esperienza socialdemocratica, sulla sponda liberal-democratica). Oggi il sindacato va oltre la "semplice" subordinazione alle compatibilità aziendali e nazionali e si propone come forza "attiva e decisiva" nella difesa e nel sostegno dell'economia nazionale, quale forza "propositiva" di "nuovi" strumenti economici e politici per il governo della società. Quello cui ci troviamo di fronte è una vera e propria irregimentazione delle strutture sindacali - dall'alto verso il basso - entro le politiche governative dettate dagli interessi del "nostro" capitalismo imperialista.
I passaggi di tale percorso si sono dati, negli ultimissimi anni, in tempi via via accelerati: tornata dei contratti integrativi '88-'89 che stabiliva un legame diretto tra salario e "stato di salute" dell'azienda (ed è la prima volta che tale principio di sottomissione si afferma in modo così esplicito ed evidente); in casa Cgil, nello stesso periodo, si impone la direzione Trentin, che rappresenterà la "nuova" linea sindacale segnando la fine della precedente fase di "incertezza" (espressione delle difficoltà e delle resistenze della classe operaia e delle strutture di base di fronte a tale passaggio). Su questa strada si arriva all'intesa con la Confindustria del gennaio '90 in cui, oltre a prevedere misure per il "raffreddamento" dei conflitti sociali, sindacato e padroni "assumono come parametri dei propri comportamenti nelle relazioni contrattuali la coerenza degli obiettivi di politica economica e di competitività internazionale" e le confederazioni si impegnano a perseguire per gli imminenti rinnovi contrattuali "condizioni di competitività e di produttività dell'intera economia, tali da consentire il rafforzamento del sistema industriale". La gestione e la conclusione dei più recenti contratti di categoria è stata fin troppo coerente con tale impegno!
Un posto di rilievo nel processo di più profonda integrazione va dato sicuramente al rapporto con il governo. Il tipo di relazioni che si è andato affermando è stato di un pieno coinvolgimento del movimento sindacale nelle scelte governative di politica economica (e.., internazionale!). Dalla "questione fisco" alla trattativa confederazioni-Confindustria sul costo del lavoro passando per le varie leggi finanziarie fino al rinnovo del contratto dei metalmeccanici si è registrata un'ampia convergenza tra governo e sindacati. In più di un'occasione (vedi per tutte la conclusione del contratto dei metalmeccanici) il sindacato ha chiamato i lavoratori a valutare positivamente le posizioni di "mediazione" espresse dal governo, accreditandolo (ora in modo più sfumato, ora più accentuato) come un ente "super partes" su cui la classe può in certa misura contare. I1 passaggio diretto, senza soluzione di continuità, di Marini da segretario sindacale a ministro del lavoro, se è un riconoscimento al più alto livello del ruolo di responsabilità nazionale assunto dai sindacati, allo stesso tempo è espressione di una politica che mira a coinvolgere sempre più strettamente Cgil-Cisl-Uil nelle scelte dell'esecutivo al fine di tentare di assicurarsi una stabile pace sociale (come esplicitamente dichiarato da Andreotti).
Nulla più dei recenti accordi alla FIAT rende chiari i passaggi avvenuti nella linea sindacale. La data-simbolo da cui partire è il luglio '88 con l'intesa separata sul premio di produttività, perché di lì in poi è un susseguirsi di "cedimenti", di accordi unitari che faranno da laboratorio e da battistrada per tutte le relazioni sindacali in Italia. Nell'89 viene definito il premio di performance, poi l'accordo che chiude la campagna sui "diritti negati". Nello stesso tempo la FIAT concorda con il sindacato metodi di "formazione" delle strutture sindacali: impresa e sindacato costituiscono commissioni miste per definire i contenuti e le modalità dell'attività "formativa" dei delegati. Testualmente: "...l'area di interessa è definita nell'ambito dell'economia di impresa: lettura di bilanci aziendali, principi di marketing, rapporto col mercato, concetto di qualità globale", ecc. È questa la "formazione" fornita oggi ai delegati! Ancora: all'annuncio del ricorso alla cassa-integrazione, il sindacato non "drammatizza" e si impegna a governare questo "momento difficile per l'azienda". Poi accetta, senza neppure consultare le sue strutture territoriali di base, tutte le condizioni poste dalla FIAT per la costruzione dei due nuovi stabilimenti a Melfi ed Avellino. Ancora: i due accordi del gennaio-febbraio '91 che riguardano il "piano qualità", che per la prima volta coinvolge il sindacato nei "circoli di qualità", istituiti a titolo sperimentale in alcuni stabilimenti del gruppo. Infine, l'accordo sulla mensa in cui il sindacato si impegna a non effettuare ricorsi (ed ostacola in tutti i modi la raccolta delle deleghe) e che sancisce l'esclusione della voce mensa dal calcolo dei vari istituti salariali.
L'accelerata integrazione-irreggimentazione del sindacato segna anche una diversa impostazione del rapporto forza lavoro-azienda, quella che in gergo sindacale viene definita democrazia economica e democrazia industriale. Si tratterebbe, in sostanza, di "democratizzare il sistema economico e il suo governo, con un sistema legislativo adeguato, avviando forme di democrazia industriale con la partecipazione dei lavoratori e del sindacato". L'impresa non va più "demonizzata" ma, al contrario, "valorizzata". Il punto di vista della democrazia economica e industriale si basa sul presupposto che l'impresa capitalistica sia un "insieme di soggettività diverse, che però si confrontano e si danno un limite nel rapporto necessario di efficienza e di efficacia". In questo senso il sindacato legge l’"arretramento" del movimento operaio degli anni '80 non solo come definitivo, ma, in un certo senso, come giusto e fecondo per le nuove relazioni sindacali; esso riconosce alle controparti una lungimiranza nei comportamenti e nei contenuti nell'aver prefigurato il nuovo modello. Il problema, - è detto chiaramente da Sabattini -, è la concezione dell'impresa: nella vecchia visione l'unica possibilità era l'antagonismo, mentre oggi essa viene assunta come "luogo di interessi comuni". Il conflitto (... se e quando!) non viene annullato, ma deve mirare a valorizzare la prestazione lavorativa, la responsabilità dei lavoratori, e il ruolo del sindacato nel governo dell'impresa. La logica è quella del pieno coinvolgimento del sindacato nelle sorti dell'azienda puntando ad una qualche partecipazione decisionale. La più agguerrita concorrenzialità a livello internazionale e le condizioni di mercato per cui la flessibilità della forza-lavoro assume un ruolo centrale, richiedono una maggiore cooperazione e una più profonda collaborazione dei lavoratori al proprio sfruttamento (vedi progetto qualità totale). I padroni mirano ad allargare il consenso, ma per questo serve un sindacato diverso, più "moderno" da utilizzare quale "cerniera" tra lavoro salariato e capitale.
La trattativa di giugno (che esaminiamo a parte), vista l'impostazione data dal sindacato ai temi del salario, della contrattazione, del conflitto, del rapporto operaio-impresa ecc., e considerato ancora l'indirizzo (obbligato!) del dibattito precongressuale nella Cgil, con la formazione di un "correntone riformista" e il peso decisivo ormai assunto dalla componente socialista di Del Turco - che tira la volata verso la più piena "omologazione" - rappresenta un ulteriore passaggio verso l'irreggimentazione del sindacato.
Cosa sta dunque succedendo nel sindacato (e in particolar modo nella Cgil, visto che per Cisl e Uil l'attuale linea ha più profonde radici)? Per caso la Cgil cambia natura e da sindacato di classe si trasforma in sindacato-istituzione così come affermano le varie correnti di sinistra della Cgil da Bertinotti a Charta '90? NO! I passaggi attuali rappresentano un salto, e non indifferente -questo è vero - nella politica della Cgil rispetto ad un sindacalismo riformista-stalinista molto più conflittuale. Da questo dato inoppugnabile non ne discende, però, un accreditamento di una presunta natura classista rivoluzionaria della vecchia Cgil. La Cgil, sorta dal patto di Roma non era di certo un sindacato antagonista al "proprio" capitalismo nazionale. Il salto, o - per dire meglio - i salti ci sono stati, ma secondo una linea di sostanziale continuità: ciò che è cambiato, in sostanza, (non diciamo che sia poco, diciamo che non è un mutamento della sua natura di classe) è il livello e la profondità dell'integrazione. È più che mai chiaro che solo a partire da una precisa identificazione delle ragioni e dei contenuti del processo di irreggimentazione si può costruire una reale alternativa di classe alla politica sindacale. Corso del capitalismo a scala storica e a scala più immediata per il "caso" italiano, crisi e acuita concorrenza sul mercato mondiale, necessità di una diversa e più forte collaborazione, sono le cause della più profonda integrazione del sindacato nello stato imperialista. (Senza dimenticare che questo percorso si è potuto dare in modo finora "indolore" in mancanza di una scesa in campo da protagonista della classe operaia).
Ma - si faccia il massimo dell'attenzione su questo "particolare" - anche questo processo di più profonda integrazione non rende uguali le organizzazioni sindacali alle altre strutture direttamente statali; infatti è sempre in nome degli interessi "anche" dei lavoratori che l'irreggimentazione viene condotta (e questo "in nome" non può essere un dato semplicemente formale). Il grosso della classe operaia fa tuttora riferimento ai sindacati ufficiali (sia per la "forza d'inerzia" della situazione precedente, sia in relazione alla "tenuta" dell'economia nelle metropoli che ha finora permesso di dilazionare i passaggi più duri dell'attacco al proletariato). Se è vero che i sindacati sono parte dell'apparato statale, va però ben compresa la specificità della loro funzione. Essi sono, sì, uno strumento dello stato, ma il loro compito specifico resta quello di "organizzare" i lavoratori. E questo è possibile soltanto a patto di assumersene - in qualche modo e, certo, vieppiù blandamente - la tutela degli interessi "particolari" (distinti, cioè, da quelli delle altre classi della società capitalistica, ed in primis dalla classe borghese), tramite una loro rappresentanza all'interno del sistema via via più blindata rispetto ai veri interessi di classe, ovvero alla prospettiva della emancipazione rivoluzionaria dallo sfruttamento capitalistico.
In nessun modo, quindi, dal dato di fatto della profonda integrazione di Cgil-Cisl-Uil entro le istituzioni statali va tratta la conclusione che bisogna incitare i lavoratori ad uscire subito dai sindacati collaborazionisti e che questa uscita sia la pre-condizione della ripresa della lotta. Un tale appello, oggi, cadrebbe nel vuoto per quanto riguarda la massa (abbiamo spiegato molte volte il perché, e dovrebbe essere superfluo ripeterci), mentre per quei settori disposti da subito a "far da sé" si tradurrebbe in una misura di auto-isolamento (oltre a non dare garanzie, di per sé, di essere la premessa certa di una coerente politica classista) e contribuirebbe, anzi, alla frantumazione del fronte di classe, abbandonando all'influenza del nemico di classe le masse in esso ingabbiate. Ancora una volta, la politica rivoluzionaria è altra cosa dagli astratti teoremi propri di un certo "estremismo".
I rivoluzionari non rinunciano alle masse (comunque organizzate), ma all'opposto lavorano in e verso queste sulla base dell'accresciuta frattura, oggettiva e soggettiva, tra "riformismo" e classe. Se l'attuale sindacato è irreversibilmente integrato nello stato, non altrettanto lo possono essere le masse in esso prigioniere. Così pure non ci asteniamo dalla lotta per la "democrazia sindacale", anzi, denunciamo con forza come questo "nuovo corso" sindacale abbia coinciso con il massimo restringimento del potere decisionale dei lavoratori e delle strutture di base e chiamiamo i lavoratori a contrastarlo. La sempre più stretta blindatura "anti-classista" della struttura dei sindacati, obiettivamente rafforza il legame tra lotte operaie e nuove forme d'organizzazione per le lotte immediate. Nell'acuirsi dei contrasti di classe sotto l'incalzare della crisi, la rottura tra classe e sindacati di tal fatta si darà in termini più radicali e in modo verticale. La soluzione, però, non può essere di carattere "organizzativo" ma è necessariamente collegata alla più generale ripresa delle lotte, che sulla strada della difesa classista degli interessi operai potrà e dovrà darsi anche gli adeguati strumenti di organizzazione, mirando sempre a costruire il più ampio fronte unitario dei lavoratori.
Il processo di irreggimentazione delle strutture sindacali non poteva non avere sviluppi anche sul piano organizzativo interno e sul terreno della "rappresentanza". Il primo marzo, ad un anno e mezzo di distanza dalla proposta dei CARS, i sindacati confederali hanno raggiunto un accordo sulle rappresentanze sindacali e un'intesa sulle regole per le relazioni tra Cgil-Cisl-Uil. Si tratta di una vera e propria liquidazione dei Consigli di fabbrica e delle procedure anche di semplice consultazione dei lavoratori (non a caso deliberata con grande celerità in "tempo di guerra"), a cui si è accompagnata un'apertura "pluralista" ai cobas e simili a condizione che essi assumano gli stessi tratti istituzionali di fondo di Cgil-Cisl-Uil, ed ulteriori passi in avanti nella centralizzazione delle decisioni in ambito sindacale e nella normalizzazione delle strutture e delle posizioni "indisciplinate" (valga per tutte la definitiva liquidazione della Fim-Cisl milanese con l'espulsione di dirigenti e delegati "dissidenti").
L'intesa-quadro sancisce i criteri per la costituzione delle Rappresentanze Sindacali Unitarie. L'elezione delle RSU avverrà su liste di organizzazione distinte, oppure su una sola lista elettorale confederale. Il 67% dei seggi verrà assegnato alle diverse liste in misura proporzionale ai risultati conseguiti; il restante 33% verrà ripartito fra tutte le liste sempre in misura proporzionale ai risultati conseguiti, ma indipendentemente dalle "preferenze" dei lavoratori in modo che ogni organizzazione possa assicurarsi la presenza dei suoi uomini anche se non "graditi" dai lavoratori. Cgil-Cisl-Uil si impegnano a ripartire comunque in misura paritetica fra di loro tale quota, così come a garantire un’"adeguata rappresentanza" alle professionalità medio-alte. Possono presentare liste anche soggetti diversi dai sindacati confederali "purché formalmente organizzati o costituiti in sindacato autonomo" e sempreché raccolgano almeno il 5% di firme sul totale dei lavoratori. Il significato è fin troppo chiaro: viene esclusa ogni forma di autorganizzazione dal basso non formalizzata in sindacato (o simile); il superamento del monopolio sindacale è condizionato dall'istituzionalizzazione di qualsiasi soggetto presente. È inoltre previsto, nel caso lavoratori aderenti ad una confederazione si presentino alle elezioni sotto altra sigla, la loro espulsione dal sindacato. Nell'accordo viene esplicitamente ribadita la funzionalità delle RSU alla "democrazia economica in direzione della partecipazione dei lavoratori alle scelte aziendali". Le competenze contrattuali delle RSU (intese come "rappresentative dei lavoratori ed espressione dell'articolazione organizzativa delle confederazioni") sono esclusivamente di livello aziendale e consistono nello svolgere, "con il concorso ed il sostegno dei sindacati di categoria", le attività negoziali proprie "nel rispetto delle politiche confederali e compatibilmente alle decisioni centrali". La forte centralizzazione delle decisioni già ampiamente sperimentata negli ultimi anni viene ora sancita ufficialmente, per "legge". Nell'intesa si delinea un patto di unità d'azione e si ribadisce la volontà di procedere unitariamente nell'elaborazione politico sindacale, prevedendo un protocollo di intesa sui reciproci comportamenti sindacali e delle norme unitarie per la composizione di eventuali conflitti. Le decisioni potranno essere assunte solo all'unanimità delle organizzazioni sindacali e le eventuali divergenze dovranno essere trasferite alla struttura immediatamente superiore.
Così, se da un lato si riconosce formalmente ai lavoratori il diritto di esprimere i propri rappresentanti, dall'altro (e sostanzialmente) si nega la possibilità di incidere realmente sulla politica sindacale. Infatti è esclusa ai lavoratori ogni possibilità di contestare e modificare le scelte sindacali e il ricorso alla consultazione diretta (finanche quella referendaria) è considerato uno strumento da non utilizzare per piattaforme e accordi. Se un richiamo viene fatto all’"opinione" dei soli iscritti, questo è più che altro formale, visto che nella realtà dei fatti anch'essi sono esclusi da qualsivoglia possibilità decisionale (vedi tutti i più recenti accordi firmati). Quale forza avranno e di quali interessi saranno espressione organismi siffatti è facile prevedere, tanto più che nello svolgimento dell'attività contrattuale a livello aziendale è previsto, a ulteriore blindatura, il diretto coinvolgimento dei sindacati di categoria interessati.
I segnali del "malessere" operaio verso l'attuale linea sindacale (e da questo punto di vista la stessa spaccatura del Pci e la partecipazione operaia a "Rifondazione" è un sintomo della volontà di non disertare il campo di battaglia, è l'espressione delle attese proletarie per una difesa efficace. Che poi "Rifondazione" non possa soddisfare tali attese, mancando di una prospettiva per la ripresa e senza aver operato alcuna reale rottura col proprio passato, questo è un altro problema) non sono certo mancati, così come i tentativi di organizzarsi per una reale scesa in campo nel conflitto di classe; ma nello stesso tempo si è dovuta registrare una loro sostanziale inadeguatezza rispetto al livello dello scontro.
Così, ad es., gli "autoconvocati" non hanno costruito nessuna credibile alternativa ai sindacati ufficiali; e se inizialmente hanno rappresentato uno strumento per il coagulo delle spinte operaie per una difesa efficace, hanno poi contribuito a bloccare quell'iniziale movimento di ripresa che pure si era manifestato durante i rinnovi contrattuali. Innanzitutto non hanno compreso la reale portata dello scontro sottovalutando la pesante offensiva borghese (tanto più mentre a livello internazionale si preparava l'aggressione alle masse del mondo arabo), e allo stesso tempo sopravvalutando lo stato reale e la forza del movimento operaio, illudendosi di poter vincere lo scontro senza unificare tutte le energie operaie. Si è tentato così di rispondere alle difficoltà del movimento proletario frammentando le forze e concentrando l'azione nelle "realtà avanzate" (nella stessa logica della divisione per "specificità"). Anziché estendere ed intensificare la mobilitazione, hanno poi concentrato la loro azione su di un ambito istituzionale-legisiativo, proponendo surrogati della lotta in fabbrica (vedi i ricorsi alla magistratura) percorrendo una scorciatoia allo sviluppo di un effettivo movimento di lotta, strada certo più difficile ma l'unica realmente efficace. L'inconsistenza di una tale alternativa si è riconfermata pienamente alla luce della guerra del Golfo e del "dopo-guerra". Gli autoconvocati non hanno mai denunciato chiaramente l'aggressione imperialista e non hanno lavorato conseguentemente per la mobilitazione operaia in preparazione dello sciopero generale, alla fine lasciato cadere.
Nonostante le attuali difficoltà a scendere in campo con decisione e compattezza, il proletariato è comunque chiamato ad affrontare questioni ineludibili sia sul terreno sindacale (a partire, appunto, dalla trattativa di giugno e dalla questione delle rappresentanze) che su quello politico. Ma per affrontare questo scontro (con una borghesia ben decisa a scaricare su di esso i costi delle accresciute difficoltà economiche e i "nuovi" compiti del capitalismo italiano a scala internazionale) è essenziale comprenderne la portata complessiva interna e internazionale, e da qui far sì che maturi una linea globale di indirizzo sindacale e politico realmente alternativa a quella social-imperialista e ben al di là delle varie inconsistenti alternative di "autoconvocati" e "rifondatori" varii.
I compiti che il proletariato si trova ad affrontare sono complessi e di non immediata soluzione. Si tratta di risalire la china partendo da molto in basso. La ricomposizione di un fronte unitario di classe, di contro ai tentativi molteplici di divisione e frammentazione; la riacquisizione dell'autonomia di classe, attraverso la materiale presa d'atto della incompatibilità e della contrapposizione dei propri interessi rispetto a quelli borghesi; la riconquista della fiducia nelle proprie forze e nella possibilità di modificare a proprio favore i rapporti di forza; la ricostituzione di una direzione e organizzazione operaia all'altezza dello scontro, sono le questioni a cui la ripresa delle lotte (quanto mai necessaria!) dovrà dare soluzione. La fiducia nelle determinazioni oggettive - alla base della rimessa in moto della lotta proletaria -, la consapevolezza del percorso "a salti" della ripresa operaia, capace di mutare "da un giorno all'altro" il livello della conflittualità sociale, ci indicano la dinamica obbligata per il ritorno in campo da protagonista del proletariato. D'altronde la rabbia accumulata in questi anni di compressione delle esigenze operaie è destinata a scoppiare. Le contraddizioni che si vanno accumulando a livello internazionale e la necessità di un duro attacco al proletariato spingono ad una ripresa della conflittualità operaia; la pace che la borghesia si è riuscita a garantire non potrà durare a luogo.
Per l'immediato la classe ha innanzitutto bisogno di riprendere la discussione nei posti di lavoro, di riorganizzarsi, ricucendo un tessuto organizzativo alquanto sfilacciato, mettendo al centro la decisa ripresa delle lotte quale unico strumento per un'efficace difesa delle condizioni operaie, senza nulla concedere a qualsivoglia riconoscimento di "compatibilità" e di "superiori" e comuni interessi con la borghesia. È questa la soluzione che l'intervento dei rivoluzionari deve favorire e per cui deve lavorare fin dall'oggi.