UN NUOVO PROGETTO ARCHITETTONICO:
SI "RIFONDA" SULLE SABBIE MOBILI


La definitiva deriva occhettiana ha provocato, com'è noto, la reazione di quella parte del vecchio Pci che si raccoglie attorno all'insegna della "rifondazione comunista", in cui sono insieme confluite l'ala cossuttiana che è quella da più tempo dichiaratasi contro il progetto di "liquidazione" dei Pci - ed una parte del fronte "ingraiano" - inizialmente a favore del "rinnovamento" occhettiano, purché "entro certi limiti" ed "a determinate condizioni" di salvaguardia degli elementi positivi di "continuità" da preservare.

Si tratta già in partenza di un amalgama alquanto posticcio, in seno al quale nessuna delle due parti è portatrice né di un progetto unificante tra le due parti (e tantomeno all'esterno) né, a più forte ragione, di un abbozzo di reale programma comunista.

Cossutta aveva avuto il bell'ardire di opporre ad Occhetto che, in presenza di una liquidazione della "presenza politica comunista" sulla scena politica, le condizioni stesse delle contraddizioni e dell'antagonismo di classe insite nell'essere del capitalismo avrebbero posto il problema di una "ricostituzione" di essa, in quanto esigenza oggettiva per il proletariato, cui non può, alla fin fine, mancare l'elemento soggettivo, per quanto lo si voglia "artificiosamente" espuntane. Tutto giusto, salvo intenderci su quel termine "ricostituzione", che non può essere inteso come un ritorno a supposte condizioni quo ante, cioè allo stadio entro il quale si è fatta travolgentemente strada il "liquidatorismo" (di Occhetto, ma anche dei vertici dell’"opposizione" interna ad esso ed attraverso un consenso ampiamente maggioritario alla base problemino che sarà pur da capire -).

La battaglia iniziale di Cossutta avveniva già col piede sbagliato: la questione fondamentale da lui avanzata era quella del rifiuto dello "strappo" nei confronti dell'URSS e del modello di "socialismo" da essa impersonato. Un terreno di per sé franoso, dal momento che non solo e non tanto con Berlinguer era cominciata la presa di distanze da quel modello, ma se ne distanziavano a passi accelerati proprio quei dirigenti sovietici che se ne sarebbero dovuti ergere a custodi.

Strappo con Mosca o non piuttosto strappo a Mosca? Ridicolmente Cossutta opponeva alla "slittata" berlingueriana la "vitalità" della "via socialista" (staliniana riveduta e corretta) impersonata dal "nuovo corso" gorbacioviano e solo oggi vede come, alla conclusione di tale "nuovo corso", non esista più alcuna affinità elettiva tra Mosca e "rifondatori comunisti", isolati e respinti come la peste proprio da Gorbacev, mentre questi non manca occasione di incensare gli Occhetto (ed altri, e di altre forze politiche, - nonché rappresentanti ufficiali degli stati borghesi -) come interlocutori privilegiati.

Era, allora, da ricucire uno strappo con l'Ottobre in atto tanto alle Botteghe Oscure che al Cremlino? Per anni Cossutta non ha inteso questa lezione, che solo oggi di tanto in tanto gli si affaccia alla mente, suggerendogli comunque delle soluzioni da "pezo el tacòn che el buso". La doccia fredda moscovita, anzi, pare aver messo la sordina a quel tanto di socialismo quale via internazionale all'emancipazione sociale di cui ancora si ammantava l'opposizione cossuttiana ed aver ristretto il tema della "rifondazione" ad una questione strettamente italiana, di... ritorno al togliattismo (anche qui con molte revisioni e correzioni in peggio dell'originale). Internazionalismo comunista mai, "solidarietà internazionale" tra autonome forze del "campo proletario" non più; resta solo una nazionalistissima "via italiana" da "ricostruire" e... poi si vedrà.

Questo superamento dell'ostacolo del legame a Mosca per sopravvenuta assenza di puntelli cui appoggiarsi laggiù, ha favorito la confluenza dei cossuttiani nel "fronte unico" dei "rifondatori" della frazione Garavini, da "sempre" più spostato su un terreno di contestazione "operaista" contro la destra (e poi contro il centro) del Pci in nome di una via esclusivamente italiana al "socialismo". E questo è il terreno su cui Cossutta e Garavini sono costretti a ritrovarsi nella loro attuale "comune" lotta alla "deriva liberal-democratica" del Pds.

Ma sarà mai possibile "rifondare" una presenza comunista "a partire" (ed "a concludere") da un'esclusiva base nazionale di applicazione? Sarà mai possibile contrastare (e non andiamo più oltre!) gli effetti perversi del "capitalismo italiano" senza prendersi carico della struttura internazionale del capitalismo imperialista (da cui consegue la struttura internazionale del movimento comunista)? Sarà mai possibile un "fai da te" per hobbisti italiani (e solo italiani) escludendo dal proprio orizzonte questa "questioncella"? Venuta meno la "sponda" sovietica, Cossutta si è dovuto rassegnare a tanto (...poco). Da buon figlio dello stalinismo, egli non è neppure in grado di immaginarsi uno scenario comunque internazionale per la ripresa del movimento comunista. Eh, già: la mamma "patria del socialismo" è defunta, e tocca a noi suoi figli andare ciascuno per la sua strada. Il fatto è che, così muovendovi, non andrete per nessuna strada che non sia quella di un ruolo di rappresentazione impotente degli "interessi immediati" dei "nostri" lavoratori laddove arrivano solo gli impulsi finali del sistema mondiale di dominazione capitalista-imperialista, senza - quindi - neppure ambire ad aggredire la radice di essa.

L'angustia di un orizzonte dall'a alla zeta "italiano" è l'altra faccia dell'angustia teorico-programmatica, ben prima che politica, dei "rifondatori".

"Mantenere e difendere le tradizioni del Pci" significa per essi, come prima cosa, ripudiare definitivamente l'orizzonte della rivoluzione e della dittatura del proletariato. "Inattuali" l'una e l'altra. Il che, tradotto in soldoni, significa: lo sviluppo delle contraddizioni di classe in seno al capitalismo non sono oggi e saranno ancor meno domani tali da postulare la necessità di una rottura sociale e politica di quel "vecchio" tipo; il capitalismo attuale (quello della massima concentrazione e centralizzazione imperialista !) è, al contrario, per definizione permeabile a sempre più avanzate "riforme" in grado di trasformarlo in fine in qualcosa di qualitativamente diverso.

Siamo qui di molte spanne al di sotto di Togliatti che, ancora all'ultimo Congresso da lui presieduto, nel '62, teneva legata la "via democratica e pacifica, evitando le asprezze della insurrezione armata e della guerra civile" all'estendersi - sulla carta almeno - di movimenti sociali di massa sempre più radicali ed al "retroterra" d'appoggio del "campo socialista", ed ammoniva comunque: "che la insurrezione e la guerra civile possano venire evitate non è una certezza". I "rifondatori" attuali partono, invece, dal riconoscimento preliminare che il "campo socialista" non esiste più, è morto da sé, di morte ingloriosa e meritata (persino Cossutta deve sottoscrivere che in URSS non si stava costruendo socialismo, ma un regime di dittatura peggiore, politicamente, socialmente ed economicamente, del regime "democratico" di cui ad ogni buon conto godiamo in Italia); che, rispetto ad esso e ad ogni ipotetica sua risurrezione futura, i "comunisti italiani" dovranno restare rigorosamente "indipendenti", perché la "via al socialismo" cui si guarda è italiana e solo italiana; che gli stessi movimenti di massa - infine - non possono più, neppur formalmente, essere legati ad un programma e ad una centralità del movimento operaio, perché nel frattempo la società ha dato vita ad una "pluralità" di soggetti ed interessi tra loro "autonomi" collegabili "federativamente" soltanto in ragione della loro "comune" aspirazione alla "democrazia" (la democrazia dell'operaio, dell'imprenditore, del professionista, della "differenza sessuale" e via dicendo, all'infinito). Altro che "movimento consapevole della classe operaia e delle masse lavoratrici, volto a spezzare il potere delle classi borghesi per diventare le nuove classi dirigenti della società" ! Togliatti ci fa la figura del "terribile leninista"!

Non ci discostiamo di un palmo, qui, dalla retorica "democratica" di Occhetto, alla quale difatti essi rimproverano non le basi teorico-programmatiche, ma "una politica" inconseguente e rinunciataria, di cui essi si pretendono i veri portavoce. E non s'è subito chiarito che il partito "rifondato" è pronto ad intese e collaborazione con "tutte le forze di progresso", della sinistra tradizionale (leggi: Psi) ed oltre (ad Orbetello hanno subito trovato un interlocutore progressista "locale" nella Dc)? Che l'aspirazione dei "comunisti democratici" è, se mai sarà possibile, di arrivare assieme a tutte queste forze ad un "governo riformatore comune"?

Le stesse accentuazioni "operaiste" dei "rifondatori" non vanno più in là delle analoghe, e non meno spinte, declamazioni di un Bassolino. Più democrazia, più potere nelle fabbriche e sui luoghi di lavoro, più "rappresentatività" nei centri di governo. Ma che significa tutto ciò se la stessa lotta sindacale non è armata di un programma politico anti-capitalista? Potrà significare, al massimo, l'affiorare di qualche punta di maggior conflittualità in alcuni dei terminali in cui si manifesta il conflitto di classe, contro questo o quel padrone, questo o quel gruppo padronale, rinunziando "programmaticamente" ad unificare le forze sparse del proletariato in un unico, attrezzato esercito di classe. (E, sia detto a scanso di equivoci, noi spereremmo che almeno questi fuochetti di "guerriglia quotidiana" vengano tenuti accesi: ma persino su questo c'è da nutrire più d'un dubbio).

L’"occasione" della guerra contro l'Irak ("l'aggressione imperialista alle masse sfruttate arabo-islamiche", come noi l'abbiamo definita) mostra poi sino a quale punto di "fedeltà alle tradizioni" si siano spinti i "rifondatori"

Sulle pagine del nostro giornale abbiamo ricordato le roventi dichiarazioni "anti-imperialiste" cui, nel vecchio Pci, sino a date relativamente recenti si osava arrivare (giusto lo schema di una "via pacifica" in Italia basata su un ampio movimento di masse operaie combinato con l'esistenza di un "campo socialista" d'appoggio e con la presenza di lotte di liberazione nazionale o comunque anti-imperialiste ad esso biunivocamente intrecciate).

Orbene, i nostri "comunisti democratici" non hanno saputo distinguersi, in questo caso, dalla tradizionale posizione "pacifista" piccolo-borghese: l'Irak andava sì condannato e piegato alla "ragione" per l'oltraggio da esso inferto al "libero" Kuwait, ma i mezzi dovevano essere quelli "democratici" dell'embargo jusqu'au bout e non quelli di un intervento militate, a meno che non se ne facesse carico l'intiera "comunità internazionale" tramite i caschi blu dell'ONU (tutti pronti, in tal caso, a marciare su Baghdad!); gli USA hanno agito "per i propri esclusivi interessi" e non per assicurare il "nuovo ordine internazionale" (che resta un obiettivo per cui lottare anche per i nostri - nell'ambito dell'imperialismo! -); il "governo italiano" ha tradito gli interessi "nazionali" (anche quelli delle grandi corporation industriali ed affaristiche?) intervenendo nel conflitto a queste condizioni e si è mostrato così di nuovo succubo dei diktat USA (e neanche un poco interprete dei propri interessi "nazionali" borghesi?). E le masse arabo-islamiche nel mirino? Neanche una parola in direzione di esse, per non parlare poi di un concreto appoggio.

Anche per imboccare una "via nazionale al socialismo" si deve avere una "politica estera". La "politica estera" dei "rifondatori" ha avuto il merito, se così possiamo dire, di rendere più palesi (sotto i riflettori della scena internazionale) quelli che sono i presupposti della sua "politica nazionale": alla superstizione di una democrazia (imperfetta, è vero) da difendere e sviluppare in Italia, compatibile con le impalcature borghesi, ha fatto fragorosa eco quella di una democrazia imperialista internazionale che va altrettanto difesa, corretta e dilatata sino alla realizzazione di un "nuovo ordine mondiale"; alla rinuncia "programmatica" della rivoluzione socialista in Italia tanto più ha corrisposto la ripulsa netta di ogni e qualsiasi impegno con la lotta anti-imperialista dei paesi oppressi e/o dominati dell'imperialismo (ai quali si promettono "nuove relazioni internazionali" a venire tacendo del nostro sfruttamento imperialista nei loro confronti, forse perché, tutto sommato, le "vecchie relazioni internazionali" ci stanno piuttosto bene dato che ci offrono le risorse per mantenere qui democrazia, welfare, benessere e, domani, chissà, un pizzico di "socialismo nazionale").

***

Mettiamo pure nel conto una legge che presiede ad ogni scissione: la necessità delle due parti separatasi è, in un primo tempo, quella di definirsi nettamente l'una rispetto all'altra per guadagnarsi uno spazio sulla scena politica, con una contrapposizione in qualche modo radicale di idee e programmi. La dinamica stessa, poi, dell'epurazione dal contrappeso interno precedente porta a tale radicalizzazione. In tempi storicamente vicini ne abbiamo avuto un esempio con la rottura Psi-Psiup: in seguito alla scissione, il primo poté correr di volata verso il Midas, grazie al quale fu cancellata ogni ombra superstite di "vecchio classismo operaista"; il secondo fu portato ad abbozzare degli spunti "quasi rivoluzionari", spingendosi "alla sinistra" del Pci. Non è escluso che i "rifondatori" possano seguire un'analoga via, lasciando iniziale sfogo a posizioni un tantino più "estreme" delle attuali (e ci vuol, francamente, assai poco), anche per lo spazio che si darà a certe correnti aggregate al carro.

Ma c'è un'altra legge accanto a quella sopra ricordata: in assenza di una rottura realmente profonda, che investa da cima a fondo le fondamenta dell'edificio da cui si stacca, in assenza cioè di un chiaro e deciso orientamento marxista, lo scissionismo "di sinistra", se proprio non arriva a ricomporsi organizzativamente col partito da cui s'è staccato (dal momento che questo, poi, ha compiuto per conto suo un altro pezzo di strada), è destinato a riallacciarsi alle sue basi di partenza. Con gradualità, può darsi, ma a sicuro... passo di gambero. Orbene, un'organizzazione che risponde ad Occhetto con Togliatti non potrà far altro che sviluppare nel concreto le premesse del togliattismo, ripercorrendo con ciò esattamente la strada che ha portato agli esiti attuali. (Ricordiamo che gli psiuppini erano andati a ripescare, per rispondere a Nenni, la Luxemburg, Mao, persino un po' di Trotzkij, la rivoluzione sud-americana... per poi finire nel Pci).

Ci toccherà così assistere ad un Pds sempre più sbilanciato verso la liberal-democrazia ed un neo-Pc pronto insieme a gettargli un ramoscello d'olivo (questo è già scritto nel programma dei "rifondatori") ed a contestargli l'abbandono del "programma riformatore" originario per farselo infine proprio.

Sarà arduo per chiunque dimostrare che la scissione Garavini-Cossutta sia avvenuta sotto stelle più propizie. Le tavole costitutive delle mozione di "rifondazione" al XX Congresso (di cui diamo a parte una silloge) brillano per l'assenza di ogni e qualsiasi discriminante globale. I punti di riferimento più significativi sono praticamente gli stessi di Occhetto: vedi 1’"analisi" dei "paesi socialisti", il rifiuto dei concetti stessi di forza, violenza, dittatura di classe, l'ubriacatura demo-populista, l'esclusivismo del riferimento all'Italia e tutto il resto che già s'è detto.

Non solo: alla scissione si è arrivati in extremis, dopo essersi trovate sbattute tutte le porte in faccia e dopo aver proposto sino all'ultimo al Pds una struttura "federativa" del nuovo partito per poter stare tutti assieme, non da "separati in casa", ma da "soggetti autonomi" concorrenti ad una "politica comune".

Che poteva capirci la "base" invitata a sbarrare la strada ad Occhetto? Quello che ha, in un certo senso, giustamente capito: che dagli "scissionisti" non c'è da aspettarsi alcuna nuova alternativa, ma una battaglia per difendere vecchie trincee, consumandovisi dentro senza neppur la prospettiva di uscirne per qualche sortita in avanti; che, a questa stregua, tanto vale accettare, col beneficio d'inventario, e certamente senza grandi entusiasmi, quel poco di concreto che Occhetto promette con maggior credibilità sul piano della "politica concreta" e dei numeri cui affidarla; che, date sempre queste condizioni, l’"unità del partito" e "del movimento" è un bene che forse val la pena di preservare da incomprensibili ed infruttuose rotture.

Sarebbe davvero il caso che i "rifondatori" si affannassero un po' a studiare le ragioni per cui non sono stati capiti prima ancor che seguiti (nella misura, almeno, necessaria a produrre un partito pesante sulla scena e non un semplice partitino marginale autosoddisfatto d'aver portato a casa senza fatica soverchia un bottino di centomila e più tessere). Suggeriamo a questi nostri amici di ristudiarsi un po' l'esperienza di Livorno '21 per imparare come si fa una scissione vera, sotto tutti i punti di vista: teorico, programmatico, politico, organizzativo. La loro risposta a questo nostro suggerimento la conosciamo già, e ci manca l'animo di commentarla...