E così il vecchio Pci non c'è più, se non come mini trade-mark alla base della quercia per evitare che "altri" se ne possano impossessare "abusivamente" nelle aule dei tribunali (poveri noi!, l'aggettivo "comunista" difeso dagli uni alla stregua di un latifondo che non si intende più coltivare, ma ancor meno cedere, e dagli altri concupito quale diritto di proprietà da conseguire a colpi di lotte giudiziarie assicurando che vi s'intende mettere a dimora non il "vecchio" albero del comunismo rivoluzionario, dittatoriale, ma una "nuova" specie democratica, pluriclassista, liberopensierista ecc. ecc.: entrambi si contendono una "merce" che non è la loro...).
Che dire di questa contesa? Ha ragione Occhetto a sostenere che il Pds deriva storicamente dalla tradizione e dagli sviluppi dei Pci togliattiano e Post-togliattiano, dalla rottura da esso consumata sin dal '26 con le sue basi originarie del '21 e dell'Internazionale Comunista del '19. Hanno ragione Garavini e Cossutta a pretendere che, a sua volta, il Pds ha trapassato il limite oltre il quale la quantità delle trasformazioni si converte in qualità, che esso non è il Pci di Togliatti, e possono anche legittimamente esigere i loro titoli di proprietà nel tentativo di tornare indietro sulla strada che lo ha portato a questo svolto e fermare l'orologio della storia all’"era" pre-Occhetto. Si divertano i giudici a decidere. Che il comunismo non c'entri nulla in tutto questo non impedirà ad essi (ed ai contendenti) di fare il loro mestiere.
Occupiamoci, per quel che ci compete, di altre questioni.
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Da sempre ci siamo occupati della questione-Pci, dei suoi prevedibili destini, del rapporto tra i suoi percorsi e quelli della classe operaia. I criteri di fondo cui ci siamo attenuti nella nostra analisi si possono così riassumere: la combinazione tra l'elemento soggettivo della tradizione stalino-togliattiana e quello oggettivo di un incontrastato dominio del capitalismo imperialista nelle metropoli (con l'Italia ben piazzata nelle classifiche) non può portare che alla definitiva soluzione dei residui elementi "operaio"-borghesi in una formazione "di nuovo tipo", imbevuta sino al midollo dei "valori" social-imperialisti assorbiti nel corso del suo sviluppo; secondo: ciò non significa affatto l'espunzione della contraddizione storica costituita dal proletariato, alle cui esigenze immediate il "nuovo" partito deve comunque dare una risposta per non privarsi di questa sua (non esclusiva, non preminente) base sociale né, dato il quadro dei rapporti di forza tra borghesia e proletariato a scala internazionale, dà luogo a immediate rotture significative da parte del proletariato nei confronti del "riformismo" imperialista sulla via della ricostituzione del proprio partito di classe (tantomeno dall'interno del vecchio partito "operaio"-borghese giunto alla fine); terzo: non per questo è indifferente il ruolo giocato dall'avanguardia proletaria militante nel difendere comunque, o meno, un proprio "punto di vista di classe" (non diciamo comunista, non diciamo rivoluzionario) nella lotta che investe il partito cui essi fanno riferimento.
Nessun dubbio potrebbe essere avanzato sulla completa verifica che ha avuto il primo punto. Quanto al secondo, è un dato di fatto che persino il neonato Pds, pur non facendo esso mistero della propria vocazione "non operaista" (oltre che non tutto il resto), conserva tutto l'interesse e possibilità tuttora non marginali di tener legati a sé consistenti settori di classe operaia. Si potrebbe obiettare che la scissione oggi intervenuta da parte dei "rifondatori" mostra che una fetta non irrilevante di proletariato reagisce alla "deriva occhettiana" rimettendo "prepotentemente" sul tappeto l’"ipotesi" comunista. Rispondiamo: la "scissione" - da noi messa nel conto - è sì andata oltre i limiti ridotti dell'iniziale corrente cossuttiana (avevamo, d'altra parte, avvertito che lo scontro interno non sarebbe rimasto confinato ad essa - e nella sua prima definizione -, soprattutto in prospettiva futura), ma non si é trattato di alcun passo innanzi, bensì di una lotta di "resistenza" su vecchie e già bruciate trincee, che non apre alcuna finestra sul domani. Nessuna "rigenerazione" comunista da parte dei "rifondatori", ma una improbabile riedizione del vecchio Pci a ranghi ridotti. Che qualcuno voglia accomodarsi ad essa è scontato e legittimo; si abbia solo il pudore di non proporre questa minestra riscaldata come un piatto bell'e nuovo.
Sul terzo punto qualcosa in più va detto. È vero, noi c'eravamo "immaginato" (e prima ancora augurato) che la reazione operaia alla dégringolade finale del "loro" partito in senso liberal-democratico potesse assumere un aspetto più corposo e significativo. Questo non si è verificato. La massa dei militanti operai non ha neppur partecipato al dibattito precongressuale (solo uno su quattro all'incirca si è sentito impegnato appena a "votare"); della parte restante, la stragrande maggioranza ha firmato una delega (anche se non del tutto in bianco) ad Occhetto e solo una piccola parte si sta generosamente (e infruttuosamente) impegnando nel lavoro di "rifondazione".
Nel n.18, che data ad oltre un anno fa, tutte queste cose erano perfettamente analizzate e descritte in anticipo, a smentita degli illusionismi dell'ultima ora per cui la "sinistra interna" lasciava intendere che la battaglia rimaneva aperta dentro e fuori il partito, che la bandiera della "rifondazione" avrebbe catalizzato energie latenti pronte solo ad esplodere al richiamo. La base operaia, dicevamo, sarebbe rimasta largamente assente e passiva e si sarebbe, nella sua ristretta ala "partecipante", divisa trasversalmente tra sì e no senza che da nessuna parte potesse emergere un segno tangibile di una sua palpabile presenza in quanto classe. (Sia chiaro: imputiamo ai "rifondatori" di aver soggettivamente favorito questa deriva, ma non diciamo che un suo, del tutto ipotetico, posizionarsi sul terreno del marxismo avrebbe, nelle condizioni oggettive date, "rivitalizzato le masse"; la "crisi di direzione" è una cosa un tantino più complicata di quanto certuni s'immaginino).
Anni addietro la situazione ci era apparsa più aperta. Eravamo allora in presenza di una (sia pur parzialissima) ripresa del conflitto sociale, di cui la Conferenza Operaia del Pci era stata l'espressione distorta, ma, in ogni caso, un'espressione. La crisi capitalistica sembrava più vicina a mordere il cuore delle metropoli. Non c'era immediata smobilitazione proletaria, al contrario.
Che cos'è, dunque, che non ha quadrato? Diciamo pure che si è verificata la peggiore delle ipotesi possibili, da noi tutt'altro che ignorata, ma non data per scontata. E cioè: l'imperialismo è riuscito a scaricare ulteriormente i costi della crisi del sistema sulla periferia, mettendo a frutto l'organica incapacità dell'insorgenza delle masse oppresse dei paesi sottoposti al suo controllo e dominio a farvi fronte da sola; ha trovato una preziosa sponda in questo senso nella precipitosa catastrofe dell'Est; da parte loro, i "riformisti" metropolitani hanno preso la palla al balzo, facendosi più che mai portatori di una politica "social"-imperialista (molto poco "sociale" e molto imperialista), di diffamazione dei principi stessi del comunismo, identificati con le "macerie all'Est" e di blindatura all'estremo dei propri strumenti di controllo sulla classe, a partire dal sindacato. Ciò ha impedito che le diverse situazioni di conflitto di classe (nelle metropoli, all'Est, alla periferia) potessero congiungersi ed alimentarsi a vicenda.
La risalita da quest'abisso sarà, è vero, più "pura", a misura che si stanno bruciando le possibilità dell'opportunismo di tenere assieme i fili della matassa (tanto valga: la possibilità di rimettere in piedi un'Internazionale che si richiami al proletariato internazionale guidata da partiti traditori del comunismo non è più ipotizzabile), ma essa dovrà in pari tempo scontare una soluzione di continuità nell'organizzazione dei reparti di classe che implica tutta una serie di problemi di non lieve conto.
Negli anni che ci stanno alle spalle, tanto per esser più chiari, è saltata l'opportunità di legare assieme fenomeni quali, ad esempio, la rivolta operaia polacca, la lotta eroica dei minatori inglesi, la riattivizzazione parziale del proletariato italiano, la ripresa di conflittualità operaia in tutto l'Est e l'insorgenza delle masse dei paesi del cosiddetto "Terzo Mondo". La perdita di quest'opportunità ha significato non solo una "semplice" frammentazione del fronte di classe, ma il suo indebolimento all'interno dei singoli confini, lo smantellamento di pezzi interi dei residui margini, politici ed organizzativi, "indipendenti". Così, non ci sarà solo da ricucire una "separatezza", ma si tratterà di ricostruire (entro questo processo) le basi materiali stesse dell'organizzazione proletaria, qui e dovunque.
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Ritornando al Pds.
Nel guardare al suo futuro, due errori vanno evitati: quello di pensare, come abbiamo di continuo messo in luce, che esso si "libererà" progressivamente del suo referente operaio (con relative contraddizioni che ciò si porta dietro) e quello di immaginarsi come possibile una sua "riassunzione" in futuro al modo del passato. Primo punto: il Pds resta un partito radicato nella classe operaia e in questo consiste la carta particolare ch'esso è chiamato a giocare ai fini della difesa del sistema vigente. Secondo punto: l'evoluzione del riformismo "social"-imperialista si è spinta oggi ad un grado tale per cui se il richiamo alla classe operaia non è affatto escluso (sino all'estremo della sua "chiamata alle armi"), si è oggettivamente bruciato ogni tangibile spazio di (relativa) autonomia del movimento operaio "social"-imperialista nei confronti dello Stato, della "borghesia collettiva", sicché potrà darsi, all'occorrenza, un "protagonismo operaio" solo in quanto esso sia preventivamente e ferreamente disciplinato ad esigenze e bandiere non semplicemente borghesi, ma imperialiste tout court. Se ci sarà da lottare, magari contro "certi settori borghesi", lo si dovrà fare in nome degli "interessi generali" del "nostro paese", del "nostro" imperialismo. L'esempio di Noske e Scheidemann impallidisce di fronte allo scenario futuro di un'eventuale rimessa in campo del "protagonismo operaio" da parte degli attuali "riformisti".
Né la cosa resta confinata al solo Pds. Gli stessi "rifondatori", in quanto compartecipi di questo destino storico del riformismo, da cui non si può uscire che imboccando la via del comunismo (possibilità che essi hanno contribuito a scongiurare e non sarà da essi certamente recuperata), mostrano sino a qual punto abbiano introiettato le leggi - non scritte - di esso: partito "comunista" si, ma nazionale, astretto ai "nostri" interessi; "più potere" agli operai sì, ma entro questo quadro che lo rende possibile e legittimo. Con una contraddizione in più, è vero, dal momento che, nelle dichiarazioni e nelle intenzioni, la subordinata fa premio sulla principale. Esattamente la contraddizione che dovrà esser, però, sciolta uscendo e contrapponendosi al presupposto di fondo cui essa resta legata; il che significa: fuori dalla secche in cui si dibattono i "rifondatori".
E poiché dell'ex-Pci e del suo parto finale abbiamo più volte parlato in lungo e in largo, e non ci resta che rimandare a quanto già detto, vediamo proprio di spendere qualche parola in più sull'ala che se n'è staccata.