Dopo l'operazione "Massacro nel deserto"

CENTRO-AMERICA, UNA "NORMALIZZAZIONE" DAI PIEDI D'ARGILLA: IL CASO NICARAGUA

Indice


Chi nell'89 pensava che il mondo si stesse avviando verso un'era ormai pacificata dalla fine della guerra fredda, e dalla vittoria della democrazia borghese in "progress" su scala planetaria, si è dovuto velocemente ricredere. Così come coloro che hanno pensato, fino a ieri, che l'aggressione imperialista nel Golfo ed il suo obiettivo di sedare l'insorgenza delle masse arabe, non riguardasse anche il proletariato latino-americano. L'attacco è stato portato contro tutte le sezioni del proletariato internazionale; la borghesia mondiale non ha rallentato affatto, in questi ultimi mesi, la sua morsa sull'America Latina. Ma i più subdoli "supporter" della controrivoluzione sono soprattutto coloro che dopo l'invasione di Panama, la sconfitta elettorale dei sandinisti in Nicaragua, e la vittoria militare riportata sull'Iraq, pensano che l'imperialismo sia sempre più un mostro invincibile. Una macchina perfetta, come i suoi ordigni di morte, capace di ricomporre le sue contraddizioni e arginare la marea montante dei suoi maremoti sociali. Questi fanno il paio con quanti vedono farsi sempre più lontana la definitiva resa dei conti fra il proletariato e l'imperialismo. Coloro che, nella "migliore" delle ipotesi, quando non si schierano direttamente con il proprio capitalismo (come ha fatto la quasi totalità dell'imbelle pacifismo italiano), cavalcano la tigre di questa o di quella borghesia nazionale, finendo comunque per schierarsi contro gli interessi del proletariato.

Le vecchie e nuove caratteristiche dell'attacco imperialista

In questi ultimi anni, l'imperialismo ha violentemente alzato il tiro della propria pressione economica, militare e politica contro i paesi del Sud del Mondo. Abbandonata la politica dei "conflitti a bassa intensità", è costretto sempre più spesso ad intervenire militarmente contro l'insorgenza rivoluzionaria delle masse diseredate. L'aggressione nel Golfo ne è stato l'esempio più sanguinario e brutale. E le condizioni sempre più disperate in cui versano milioni e milioni di sfruttati in America Latina, in Asia ed in Africa, stanno a dimostrare che non esiste nessun "emisfero franco" all'opera di rapina e di saccheggio della borghesia. Il "nuovo ordine mondiale", sempre più deve cementare le proprie fondamenta con le lacrime ed il sangue dei proletari del "Terzo Mondo". Ordine nel quale l'URSS, sempre più bisognosa di capitali occidentali per lo sviluppo del proprio capitalismo, è sempre più costretta a "passare il testimone", nel tentativo di assicurarsi uno spazio nell'agognata "casa comune".

Ma la pacificazione imperialista, dal Golfo al Canale di Panama, ha il fiato sempre più corto. L'ordine imperialista riportato dai cacciabombardieri o sulla bocca dei fucili della finanza mondiale è sempre meno in grado di risolvere le contraddizioni ed i cataclismi sociali che esporta ed alimenta nel Sud del Mondo.

La temporanea vittoria riportata in Medio-Oriente e le "normalizzazioni" conseguite in Centro-America, già oggi ripropongono amplificate tutte le ragioni dello scontro di classe con l'imperialismo.

Il Centro-America ne è l'esempio più emblematico.

Il "nuovo ordine mondiale" inaugurato dai marines con l'invasione di Panama e seguito, subito dopo, dalla sconfitta elettorale dei sandinisti, si dimostra ogni giorno più incapace di "normalizzare" la regione, circoscrivere l'esplosività sociale dei paesi centro-americani all'interno dei loro confini nazionali, sedare e soffocare l'insorgenza rivoluzionaria del proletariato e delle masse diseredate dell'area.

La crisi permanente del Centro-America trova nelle difficoltà dell'imperialismo nord-americano un potente fattore di acutizzazione. L'economia USA, in rallentamento da anni, è dal luglio 1990 in una fase di recessione vera e propria. Aumentano in America i licenziamenti; cala la produzione; il tasso di disoccupazione continua a crescere; i settori dell'edilizia e dell'auto vanno a picco. Cresce la concorrenza interimperialista tra USA e Europa e Giappone (quest'ultimo controlla ormai il 30% del mercato dell'auto negli USA ed indicativi, oltre alle note vicende sul controllo delle risorse energetiche in Medio-Oriente, sono lo stallo degli accordi GATT). In poche parole l'economia americana sente il fiato sul collo della concorrenza europea e giapponese, non solo nel Golfo ma all'interno del suo stesso "cortile di casa". Ragione di più per aumentare su di esso la propria pressione. Il 19/12/90 la CEE, ad esempio, ha deciso di aumentare del 70% l'entità dei propri investimenti in Bolivia, Brasile, Ecquador, Messico, Venezuela e Perù; a marzo di quest'anno si è incontrata, a Managua, con tutti i paesi centro-americani per concordare nuovi accordi economici con questi.

Sebbene, quindi, l'imperialismo occidentale abbia potuto affondare la sua stretta nei confronti dei paesi del Sud del mondo, grazie alla relativa pace sociale delle sue metropoli e grazie alla dismissione sovietica dal continuare ad appoggiare i movimenti antimperialisti, per nessun paese centro-americano è stato in grado di "offrire" ed imporre una normalizzazione "credibile". Al contrario, la crisi strutturale che lo attanaglia (che colpisce oggi in modo più sensibile gli USA ma che non risparmia l'Europa), lo costringe a drenare e sfruttare in modo sempre più selvaggio le risorse naturali ed umane dei paesi del Terzo Mondo. Disoccupazione, fame, sfruttamento, epidemie da anno Mille, sono gli effetti che sui paesi latino-americani hanno avuto le "tenute" delle economie occidentali (si pensi ad esempio che l'America Latina ha trasferito nelle metropoli, in questi ultimi dieci anni, più di 400 miliardi di dollari per il servizio sul debito). Il potere d'acquisto dei salari, per tutti i paesi latino-americani è paurosamente precipitato. Secondo l'Istituto de Nutriction de Centro America y Panama, il reddito reale medio pro-capite nel 1989, per tutto il Centro-America, è stato equivalente a quello di 20 anni fa. È cresciuta, conseguentemente, la polarizzazione sociale interna ai paesi centroamericani: milioni di diseredati sempre più sull'orlo della sopravvivenza contro un pugno sempre più ristretto di borghesia "compradora". Ma é cresciuto anche il loro indebitamento. Gli interessi pagati alla "generosità" del FMI e della Banca Mondiale, per i prestiti e gli aiuti concessi, sono ammontati nel 1990 a 9.031 milioni di dollari, spremuti dalle masse centroamericane per finanziare la pace sociale delle nostre metropoli.

Sempre più la borghesia mondiale è costretta a passare come un rullo compressore sui paesi del Sud del Mondo e la crisi strutturale che la attanaglia le lascia sempre minori spazi di flessibilità e margini di manovra. L'imperialismo è costretto, ad esempio, a ridurre sempre più drasticamente gli stessi sussidi ai suoi più fedeli "caudillos". Briciole che pur, negli anni passati, hanno costituito uno dei mezzi con i quali esso si assicurava, in loco, l'appoggio di certi settori di piccola e media borghesia. Oggi, la crisi in cui versa il capitalismo in generale e quello nord-americano in particolare non permette più neanche questo: per il 1991 gli aiuti totali degli USA ai 7 paesi centro-americani sono inferiori del 30% al miliardo e 200 milioni di 5 anni fa (vedi scheda allegata).

Nicaragua, il caso più emblematico

La sconfitta "elettorale" dei sandinisti in Nicaragua, ha segnato uno dei passaggi più importanti dell'acutizzarsi dell'aggressione imperialista in Centro-America.

Il 25/2/90 si consumava la débâcle elettorale del Fsnl, dopo 10 anni di assedio militare e finanziario dell'imperialismo. A pochi mesi di distanza dagli interventi americani in Salvador, Panama e Colombia. Il "crollo" dei paesi dell'Est e l'abbandono del sostegno sovietico, lasciavano mano libera alla "normalizzazione" USA in Centro-America.

La sconfitta elettorale dei sandinisti si è consumata in questo quadro, nel quale la totale assenza di mobilitazione della classe operaia nelle metropoli, e di un suo cenno di risposta agli appelli dei suoi fratelli di classe, ha definitivamente contribuito ad isolare la lotta antimperialista. Dalla "libera e democratica" competizione elettorale, trionfava la coalizione reazionaria e filo-imperialista della UNO, il ritorno revanscista della grande borghesia agraria nicaraguegna.

A questi rapporti di forza fra le classi a livello internazionale, si aggiungevano gli elementi di debolezza "genetica" della rivoluzione sandinista. I sandinisti pagavano nelle urne, una sconfitta che si era già data sul campo: sul terreno dei rapporti sociali interni e nel momento in cui la prospettiva della rivoluzione veniva confinata e circoscritta nel suo ambito nazionale. Davanti all'intensificarsi dell'aggressione imperialista, di cui gli agenti in loco erano e sono la grande borghesia agraria ed industriale, i sandinisti hanno pagato l'illusorietà della loro prospettiva piccolo-borghese, contribuendo a disarmare materialmente e moralmente il proletariato nicaraguegno.

L'inconsequenzialità del Fronte nel portare fino in fondo i compiti della rivoluzione democratico-borghese (a cominciare dalla "Riforma Agraria", che in definitiva si è alienata proprio l'appoggio dei contadini poveri e che non ha saputo né controllaredirigere la piccola-borghesia), ha contribuito a che si determinasse una profonda disaffezione da parte delle masse oppresse e proletarie che avrebbero dovuto dirigerla e sostenerla.

Tutto ciò ha permesso alla borghesia più legata all'imperialismo di ritessere la sua tela contro-rivoluzionaria. Facilitata sul piano interno quanto su quello esterno dalle misure inconseguenti adottate dall'Fsnln: gli "indennizzi" concessi per le terre confiscate; la non distribuzione generale delle terre; la politica sandinista di pacificazione regionale (che ha finito per legittimare i regimi dell'area ed ha sancito la possibilità - illusoria - di resistere all'imperialismo confidando più sugli accordi con le borghesia locali, che sulla lotta unitaria delle masse centro-americane).

A poco più di un anno dalla "vittoria" della borghesia in Nicaragua, l'imperialismo non celebra il suo trionfo, ma al contrario si scontra con una situazione sempre più instabile ed esplosiva Il violentissimo attacco che ha sferrato, tramite il governo Chamorro, contro le masse nicaraguegne non è riuscito a far terra bruciata della resistenza del proletariato e dei lavoratori. Né a poter assicurare alla Chamorro una, seppur labile, base materiale su cui rafforzare il suo governo e la sua dittatura di classe. La UNO è costretta a piatire "aiuti" promessi che non arrivano e a soli 15 mesi dalla sua "vittoria", la borghesia nicaraguegne si ritrova pressata tra l'insorgenza delle masse sfruttate, da un lato, e le richieste sempre più vampiresche dell'imperialismo, dall'altro.

La condizione a cui il governo Chamorro possa ottenere, per il 1992, gli 840 milioni di dollari promessi dalla Banca Mondiale e dal FMI è che esso riesca ad andare fino in fondo nell'attacco contro il proletariato ed i contadini poveri del paese. Che riesca come dice Locayo: "a mettere ordine", ossia a smantellare tutte le conquiste che le masse nicaraguegne avevano strappato durante la rivoluzione. Ma sebbene il governo si sia orientato proprio in questa direzione, cercando di liquidare tutte quelle conquiste "socializzate" (in una certa misura) dai sandinisti, questo non risulta bastare all'avvoltoio imperialista.

Oggi in Nicaragua, il 50% della popolazione è disoccupata; la mortalità infantile è tornata ai livelli somozisti del 100 per mille; le tariffe dell'acqua, della luce e di tutti i generi di prima necessità sono aumentati del 400%. Ebbene, nonostante questo micidiale attacco anti-proletario, attacco che sarebbe stato ancora più brutale se le masse non fossero scese in lotta, la iena borghese non è paga.

L'imperialismo non ha potuto, prima ancora che voluto, ringraziare la borghesia nicaraguegna se non scontandole di appena 1/5 i 360 milioni di dollari di interessi sul debito, che il Nicaragua deve pagare - entro i termini fissati - per poter accedere ad altri prestiti della Banca Mondiale.

Si capisce allora come il governo Chamorro, che si trova le porte sbarrate a Washington e che deve fare i conti con una situazione interna sempre più esplosiva, tentenni (non mettendo in discussione né l'attacco al proletariato, né tanto meno l'assetto sociale della regione) tra gli ossequi ai diktat dell'imperialismo nordamericano ed il tentativo di rilanciare una concertazione con i paesi dell'area, per ricontrattare spazi con esso. Con questa chiave di lettura si spiega la nascita del Parlamento Centro-Americano che ha come suo obiettivo, nel '92, di arrivare ad una unica tariffa doganale di tutti i paesi dell'area. Con questa stessa chiave di lettura si spiega come mai, a marzo, la Chamorro abbia ufficialmente ricevuto i rappresentanti del Fronte Farabundo Martì, accogliendone il piano di pace e sponsorizzandolo nell'incontro con la CEE ed i rappresentanti dell'ex gruppo di Contadora (ma pronta a fare come il Guatemala, che invio proprie truppe contro il Fmln, qualora la lotta del popolo salvadoregno mettesse in discussione lo status quo).

Dalla lotta di classe del proletariato nicaraguegno, i germi della ripresa

L'instabile e temporanea vittoria imperialistica riportata in Nicaragua, non prelude a nessuna pacificazione possibile della insorgenza rivoluzionaria delle masse. Il loro momentaneo soffocamento prepara necessarie e più violente esplosioni. Mentre il governo Chamorro si trova ad elemosinare, insieme alle altre borghesie dell'area, "aiuti" che l'imperialismo è sempre più costretto a dosare con il contagocce, cresce l'instabilità sociale del paese e riprende prepotentemente lo scontro di classe. Gli scioperi e le mobilitazioni delle masse sfruttate in Nicaragua, evocano la necessità della ripresa, ad un livello più alto, della lotta antimperialista. Qui, come in tutto il sud del mondo e nei paesi dell'Est, la normalizzazione borghese è sempre più fragile e foriera di cataclismi sociali più radicali ed esplosivi, sempre meno circoscrivibili nei "propri cortili di casa" e sempre più vicini al cuore della metropoli.

La "pace sociale" in Nicaragua non è durata neanche un mese. A marzo, aprile, giugno e luglio '90, imponenti manifestazioni proletarie hanno risposto, con scioperi e picchetti sui posti di lavoro, all'attacco del governo Chamorro alle loro condizioni di vita. Attacco che prevedeva, e tuttora prevede: la privatizzazione delle aziende statali; l'abolizione del diritto di sciopero; la restituzione ai vecchi proprietari delle terre confiscate dai sandinisti; la concessione delle c.d. "enclaves" ai contras.

Sebbene l'anno scorso, proprio la scesa in campo delle masse proletarie e diseredate, ha potuto impedire - in una certa misura - che la borghesia ed il governo passassero con un rullo compressore sulle loro conquiste, la Chamorro ha tutt'altro che abbandonato questo obiettivo (con buona pace di una certa "sinistra" nostrana, alla "Manifesto", convinta che la UNO sia divisa in una borghesia cattiva e filoamericana da una parte, ed in una borghesia "più progressista e nazionale" dall'altra).

Ma gli scioperi e le mobilitazioni proletarie e contadine che si sono date, a pochi mesi dall'insediamento del governo Chamorro, hanno evidenziato anche le linee di una futura scollatura, destinata a farsi sempre più profonda, tra i vertici dell'Fsln e le sue organizzazioni di base. Il primo, impegnato in un programma di "coesistenza pacifica" con il governo e portavoce di un "armonico processo di pacificazione nazionale" ha inizialmente osteggiato gli scioperi, le seconde invece - compulsate dalla pressione delle masse - hanno contribuito ad organizzarli. Il Fsln, solo in un secondo tempo, ha iniziato ad appoggiare le lotte, dopo che queste si erano estese a tutti i settori minacciati dalla privatizzazione, e solo quando si è visto scavalcato dalle sue stesse organizzazioni sindacali. L'FNT è stata costretta addirittura a respingere l'intesa che i vertici sandinisti si apprestavano a firmare con il governo.

Il "patto sociale" con la Chamorro (che prevedeva la denazionalizzazione parziale delle imprese pubbliche, la garanzia del posto di lavoro, il salario minimo garantito e un paniere dei generi di prima necessità), in nome del quale il Fronte ha chiamato, a luglio dell'anno scorso, i lavoratori a sospendere gli scioperi, non è mai decollato. Esso si è arenato non solo davanti all'intransigenza della COSEP (la confindustria nicaraguense) e alla riattivizzazione dei Contras, ma davanti alle stesse scelte del governo (tutt'altro che "neutrale") che continua a recuperare le terre nazionalizzate ed ad attaccare duramente le condizioni di vita del proletariato urbano.

Davanti all'intensificarsi dell'arroganza revanscista della borghesia nicaraguegna, la difesa proletaria potrà essere perseguita solo se le masse continueranno a mobilitarsi in prima persona. Solo la loro lotta ha posto, fino ad adesso, un freno alla tracotanza del governo. Al contrario, l'alternativa del Fronte di una concertazione legalistica con la Chamorro (come dimostra la "Carta d'Intenti" firmata a luglio e naufragata in settembre) è destinata ad una linea difensiva sempre più al ribasso. Ma soprattutto questa politica sancirebbe la rinuncia agli strumenti diretti di organizzazione e di lotta, che soli possono garantire la battaglia contro l'imperialismo e la propria borghesia.

L'illusione del Fsln di arrivare ad un "compromesso" con il governo (aspettando le prossime elezioni) e adottando una politica di "buon senso" e di cooperazione con esso, non ha un terreno materiale su cui fondersi; sono chiari, in questo senso, gli ultimi diktat del FMI.

La lotta del proletariato nicaraguegno, come quella di tutte le masse del sud del mondo, è destinata a radicalizzarsi. Sempre più le masse sfruttate e diseredate della periferia saranno costrette a travolgere i limiti delle forze nazionalistiche e piccolo-borghesi alla cui coda si sono finora mosse. Questa ripresa dovrà porsi la necessità di portare fino in fondo la battaglia contro l'imperialismo, senza illudersi di poterlo combattere attraverso la politica degli Stati e la delega ai propri governi; rilanciando la unitarietà della lotta di tutte le masse sfruttate contro le proprie inconseguenti borghesie nazionali.

Già da ora, il proletariato nicaraguegno è costretto a verificare, nella sua lotta contro il governo, che è sempre più illusoria e disarmante la prospettiva interclassista del Fronte di un "equo patto sociale fra le classi".

Qui in Occidente, ai cecchini della ripresa della lotta antimperialista, a coloro che - ieri - cavalcavano la "tigre di Sandino" ed - oggi - calano un sipario di indifferenza sulle lotte delle masse nicaraguegne, ai nuovi apologeti della "costruzione del socialismo in un paese solo" (ieri Nicaragua, domani magari in Salvador), a tutti coloro che non vedono e non vogliono vedere cosa arde sotto il vulcano dello scontro di classe, noi diciamo che il processo della rivoluzione centro-americana continua a procedere dal sottosuolo sociale. In Nicaragua, in Honduras, in Guatemala, a Panama, già da ora.

Le caratteristiche deva ripresa e la prospettiva proletaria

Non ci nascondiamo che, nell'immediato, la sconfitta dei sandinisti abbia avuto un effetto depressivo sulla lotta del proletariato nicaraguegno e su quello delle masse sfruttate di tutta l'area. Se a ciò si aggiunge il "crollo" dei paesi dell'Est, il venir meno del blocco sovietico come punto di riferimento materiale e politico dei movimenti antimperialisti centroamericani; la vittoria militare dell'Occidente sull'Iraq e soprattutto la totale assenza di una sponda proletaria nelle metropoli, si può comprendere il tragico isolamento in cui versa, oggi la lotta antimperialista. Al di là dei limiti "genetici" dei Fronti di Liberazione Nazionale (le URGN in Guatemala; il Fsln in Nicaragua; il Flmn in Salvador) la loro rapida involuzione, si inserisce in questo contesto.

Né ci nascondiamo che in Nicaragua si possano avere ulteriori rinculi sul piano interno (dei rapporti di forza fra le classi) e su quello esterno, con l'annunciata eliminazione dell'ultima "anomalia" cubana. Ma la necessità della crescente rapina imperialista ed il conseguente attacco che essa comporta alle condizioni di vita delle masse centro-americane, costringerà il proletariato nicaraguegno a rilanciare su nuove basi la propria battaglia contro l'imperialismo. Questa potrà apparentemente ripartire su di un piano più arretrato, ma le stesse condizioni oggettive dello scontro, determineranno la divaricazione delle forze sociali che costituirono il Fronte rivoluzionario nel '79. Già nelle lotte che si sono finora date, i contrasti tra il Fronte, l'FNT ed il comportamento adottato dall'UNAG, hanno lasciato intravedere le future linee di frattura e di polarizzazione all'interno del Fsln.

Queste stesse condizioni oggettive imporranno alle masse di ri-affrontare, con alle spalle l'esperienza di quest'ultimo decennio, tutti i nodi lasciati insoluti dal sandinismo. A partire dalla questione dell'alleanza fra operai e contadini, che è l'unica base sulla quale potrà essere rilanciata la lotta antimperialista, a condizione che essa si fondi sull'egemonia e un programma proletari. Il che richiede che, da un lato, le mobilitazioni e l'organizzazione delle masse operaie e contadine trovi una trama unitaria in organismi di tipo "sovietico" e, dall'altro, che la loro lotta sappia ricollegarsi con quella delle masse sfruttate di tutta l'area.

La possibilità, per la rivoluzione antimperialista in Centro-America, che questa unica strada percorribile si realizza è indissolubilmente legata all'apporto che ad essa dovrà dare il proletariato dei paesi occidentali. In primo luogo indebolendo, con la propria lotta, il proprio imperialismo, ed in secondo luogo offrendo concretamente alle masse in rivolta, la prospettiva di una battaglia unitaria ed internazionale che sola può distruggere il mostro imperialista. Ed è questa la base sulla quale le masse sfruttate potranno vedere, nell'esiguo proletariato dell'area, il rappresentante di un esercito mondiale e la vera direzione della lotta che le risolleverà dalla miseria e dall'immane sfruttamento a cui sono sottoposte. A questa condizione potranno essere superati anche gli effetti più drammatici della frammentazione sociale che l'imperialismo ha esportato nelle sue periferie, decomposizione sociale che sottoproletarizza milioni di uomini, estraniandoli dal terreno del lavoro e dell'organizzazione della lotta di classe. A queste condizioni, potranno sorgere embrioni di organizzazioni politiche che facciano riferimento al proletariato internazionale e al comunismo, e che potranno farsi direzione della lotta rivoluzionaria. In assenza di ciò, anche quelle organizzazioni rivoluzionarie come il Partito Marxista-Leninista del Nicaragua (ex-MAP), che hanno tentato negli anni scorsi, di ricollegarsi ad una prospettiva marxista, stentano a fare un bilancio dei propri errori; rimanendo ancorati ad una visione localistica ed economicistica, e - per ciò - non riuscendo a fungere da catalizzatore e da effettiva avanguardia rivoluzionaria.

Ai rivoluzionari in Occidente, il dovere di mantenere in piedi l'unico reale e concreto supporto alla lotta antimperialista delle masse del sud del mondo: il compito di sostenere all'interno del proletariato occidentale la battaglia contro il proprio imperialismo ed il legame che questa battaglia ha con la lotta delle masse diseredate. Ad essi il compito di vedere nella lotta del proletariato centroamericano la necessità di questa ricongiunzione soggettiva, e materialmente già posta, con lo sviluppo della lotta di classe nelle metropoli.