PER UN PRIMO INQUADRAMENTO DELLA QUESTIONE JUGOSLAVA

LE INSANABILI CONTRADDIZIONI DEL SISTEMA CAPITALISTA INTERNAZIONALE E NON PRESUNTE "SPECIFICITÀ NAZIONALI" STANNO ALLA BASE DELLA GUERRA CIVILE "INTERNA" IN ATTO NEL PAESE


Mentre scriviamo sono appena divampati in Jugoslavia i primi fuochi di quella "guerra civile tra nazioni" che i pasquali fatti di Plitvice avevano preannunziato. Dati i tempi di confezione alquanto "terzomondisti" di questo giornale, arriveremo al lettore quando le cose saranno ben altrimenti maturate e ci è perciò vietata ogni ambizione di cavalcare l’"attualità".

Non ce ne spaventiamo più di tanto. Quello che oggi viene al dunque lo abbiamo da tempo anticipato ed, oggi, si tratta per noi di offrire dei fatti (quelli già accaduti e quelli a venire) non una cronaca, ma una chiave di lettura marxista. I cronachieri, peggio ancora quando vogliono elevarsi al rango di "analisti", facciano pure la loro parte: come essi non hanno né saputo né voluto intendere, e far intendere, la sostanza dell'attuale tragedia jugoslava quando era in incubazione, così non lo sapranno e vorranno fare di fronte alla deflagrazione in atto, per quanto possano stare "sul posto" disponendo di tutti i mezzi (meno uno...) per "vedere" e "capire" quel che succede. Il compito che noi ci assegnamo è alquanto diverso.

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Il cosiddetto "problema nazionale interno" è solo il paravento dietro il quale si nascondono le reali ragioni del conflitto che devasta il paese. Questo il primo punto fermo che stabiliamo.

Certo. Le varie "nazioni" della Jugoslavia hanno storie diverse alle spalle e, attraverso esse, hanno maturato culture ed interessi diversi (e spesso divaricati). Ma si tratta precisamente dei fattori storici che hanno impedito ai vari popoli slavi del Sud di elevarsi al ruolo di un moderno stato unitario - obiettivo cui li predisponevano più che sufficienti elementi di comunanza di razza e cultura -, col risultato che, nel corso dei secoli, il territorio Jugoslavo è stato sottoposto a mille forme di smembramento e sottomissione dall'esterno (il termine "balcanizzazione" è altamente espressivo in proposito).

Uno "stato Jugoslavo" è, pertanto, potuto nascere solo in tempi recentissimi, alla fine della prima guerra mondiale. Ed è nato come solo poteva nascere: sotto l'egida del nucleo centrale serbo, coi suoi ripugnanti, ma comprensibilissimi, tratti "sciovinistici" all'interno del paese (né, d'altra parte, ci risulta che altri paesi, pur con "risorgimenti" alle spalle compiuti a tempo debito, siano andati esenti da simili decorsi: si pensi solo un momento ai modi in cui s'è realizzata l'unità italiana). Quest'aspetto di sopraffazione dei diritti nazionali si può attribuire al "panserbismo" solo in quanto ultimo anello di una catena ben stretta in mano dalle potenze imperialistiche europee, allora e sempre interessate a tenere la Jugoslavia sotto proprio controllo, impedendone un "normale" sviluppo economico e statuale unitario ed indipendente. E questa è una cosa di cui "studiosi illustri" si "dimenticano" con eccessiva disinvoltura.

Già dal '19 la soluzione del problema jugoslavo non poteva essere regolata se non da ne punto di vista di classe, attraverso un programma di attacco alle classi dominanti interne (tanto determinate nell'oppressione sociale ed in quella nazionale all'interno del paese quanto prone ai voleri ed ai ricatti delle potenze estere) e la sua naturale proiezione in direzione dell'imperialismo. In una parola: un programma rivoluzionario socialista a scala jugoslava ed europeo. Precisamente il programma della Terza Internazionale, si cui si trovarono assieme le avanguardie proletarie di tutto il paese negli anni '19-'20, prima di venir immobilizzate da una feroce repressione combinata da parte dei poteri borghesi interni ed esterni al paese.

Lo scoppio della seconda guerra mondiale mostrò la natura delle classi dirigenti della Jugoslavia con la rapida dimissione di esse da ogni velleità di indipendenza anche solo formale (quale era quella che gli era stata fin lì garantita) e l'offerta del paese alle potenze straniere perché se lo spartissero tranquillamente (con, al massimo, qualche titubanza sul tema se offrire il boccone all'Asse o al "blocco democratico").

In queste condizioni, il solo PCJ seppe far fronte ai compiti borghesi di difesa della Jugoslavia. Lo fece combinando la "lotta di liberazione nazionale" con i necessari elementi di una lotta sociale contro le classi e i gruppi sociali responsabili della disfatta (borghesia dipendente, latifondisti, piccolo-borghesi nazionalisti, clero cattolico possidente...). In questa lotta combinata si unirono solidariamente le masse sfruttate di tutto il paese, dando un'illustrazione vivente di quali siano le premesse politico-sociali per la soluzione del "problema nazionale" (anche se, come si vedrà, all'anticipazione non poté far seguito un compimento, data la natura borghese del movimento incarnato da Tito).

La nuova Jugoslavia nata dalla lotta di liberazione popolare si poneva come compito la realizzazione di un programma di indipendenza e sviluppo del paese entro cui potessero lavorare e crescere assieme le varie nazionalità. Sorretto dal sostegno popolare, il regime poté dar avvio a questo programma, rintuzzando i tentativi di Stalin di annettersi puramente e semplicemente la Jugoslavia e quelli dell'Occidente di gettargli un'ancora di salvezza che significasse... la stessa cosa alla rovescia. Limitate (cioè: entro il perimetro borghese), ma significative misure sociali valsero, nei primi anni, a rafforzare questo progetto, facendo su di esso convergere i concreti interessi e la concreta partecipazione delle masse sfruttate, a quella che esse stesse vedevano come una "costruzione del socialismo".

Si sarebbe andati a buon fine? Ciò, ben più che nel '19, era impossibile nel quadro di un programma di sviluppo ed indipendenza entro una ristretta cornice nazionale e nel quadro di un "fronte" tra tutte le classi del "popolo", ad onta del radicalismo (sempre e comunque borghese) messo in campo. A misura che quello sviluppo era - e non poteva essere diversamente, date l'assenza e l'esorcizzazione della prospettiva comunista internazionalista, in Jugoslavia e dovunque nel mondo -, la riproduzione allargata di categorie capitalistiche, queste ultime venivano necessariamente a trovarsi progressivamente avvolte nelle spire dello "sviluppo combinato e diseguale" dell'imperialismo ed esposte ad una riedizione, ad un gradino economico pur incomparabilmente più alto, rispetto ai livelli di partenza dei classici tratti della dipendenza.

Non solo. Se questo è valso per la Jugoslavia "come insieme", all'interno del paese il processo ha preso le forme di una sempre più netta divaricazione tra i vari centri "nazionali", gli uni - i più predisposti ai benefici dello sviluppo - sempre più insofferenti dei "vincoli centralistici" interni ed aspiranti ad un "autonomo" ingresso sul mercato internazionale "a condizioni di parità" (supposta), gli altri interessati al mantenimento di quei vincoli, per proteggere l'unità del paese ed, entro di essa, il proprio ruolo privilegiato (sempre più "amministrativo", formale) di "centro unificante".

Si è arrivati così alla situazione attuale in cui Slovenia e Croazia, col passaggio di mano dei poteri politici a nuovi gruppi sociali borghesi nati dal terreno di coltura dello sviluppo precedente ed assolutamente slegati da ogni e qualsiasi cordone ombelicale con la "rivoluzione" titoista, si affacciano sul mercato dell'Occidente chiedendo di esservi inserite quali entità statali in proprio (illudendosi in maniera del tutto irresponsabile di aver qualcosa da guadagnarci quanto ad indipendenza ed affluenza economica) mentre la Serbia tenta di tener unita la baracca senza venir meno di un centimetro al programma di "riforma economica" sotto egida del FMI e della Banca Mondiale che sta alla base dello scombinamento e delle contrapposizioni "nazionali" attuali e, quindi, impostando il problema della difesa dell'unitarietà jugoslava in termini del tutto contraddittori (e controproducenti). Nell'impossibilità di offrire una via d'uscita reale al problema dell'unità jugoslava (incompatibile col mantenimento della struttura internazionale dell'imperialismo), la Serbia non può che far ricorso a misure speculari a quelle degli avversari, pur se in nome di una Jugoslavia unita (parola d'ordine cui per tutt'altre ragioni e in tutt'altri modi è interessato anche il proletariato jugoslavo in quanto classe) e ben lo mostra la sua azione "jugoslavista" nel Kossovo che si traduce in un'autentica oppressione nazionale.

In questo baillame, sembra che l'Occidente stia a guardare, dispensando puri consigli affinché il paese resti unito (purché "democratizzato"). In effetti, l'Occidente non sta affatto a guardare. Esso è, innanzitutto, l'elemento determinante di quello "sviluppo combinato e diseguale" che ha, nei decenni trascorsi, legato a sé la Jugoslavia conducendo al suo smembramento strutturale. In secondo luogo, i suoi confessatissimi interessi stanno sì, "idealmente", nel mantenimento di un quadro statuale jugoslavo unitario su cui poter esercitare a tutto campo la propria opera di controllo, dominio e rapina (e qui "democratizzazione" altro non significa se non armonizzazione del quadro politico interno a questa propria bisogna), ma sin da ora si predispone ad un intervento per dividersi le spoglie del paese (qualora una divisione "dovesse malauguratamente avvenire"), non senza istruttivi episodi di concorrenza al proprio interno per decidere a chi debba andare il boccone più appetitoso.

Nell'una come nell'altra eventualità, il messaggio è inequivoco: la Jugoslavia è "cosa nostra!" Non è un mistero per nessuno che oltre le grandi manovre diplomatiche in corso in Occidente si stanno già apprestando altri tipi di manovre, non propriamente verbali. Sarebbe bene se ne rendessero conto certi struzzi delle nostrane "sinistre" ed "estreme sinistre" intente a nascondere la testa nella sabbia in attesa di doverla tirar fuori e... mettersi in riga quando "la patria chiama"! (C'è anche di peggio: tra queste forze non poche si sono già schierate en avance dietro la bandiera degli interessi della "nostra" democrazia uso esportazione).

Dunque. La Jugoslavia del dopoTito sta scontando l'incapacità della sua borghesia, della "nuova borghesia" incubata dal "socialismo in un solo paesotto", di conseguire uno status di borghesia nazionale jugoslava, e il suo sfilacciarsi in una miriade di informi congreghe micronazionali e persino regionali (se, ad esempio, in Istria ha corso la rivendicazione di una propria autonomia "nazionale" istriana, del tutto fantomatica) pronte a vendersi in affitto all'Occidente e nel "contraltare" di un "unitarismo" serbo privo di leve unificatrici reali da manovrare. La "rivoluzione" di Tito, fermatasi al livello nazional-borghese non poteva partorire nulla di diverso, e poco conta che i risultati attuali si presentino così mostruosamente difformi dalle premesse da cui essa era partita e dalle mete che essa si era inizialmente prefissa.

Ma la scena non è occupata unicamente da queste forze.

In armi le une contro le altre, le sotto-borghesie del paese si sono trovate ad agire lungo una stessa linea rispetto al soggetto di cui nessuno ama parlare: il proprio proletariato. Le loro fortune si sono ovunque edificate (all'ombra protettrice del FMI e della BM) su uno sfruttamento senza pari del proprio proletariato, sottoposto - da Lubiana a Zagabria a Belgrado - ad un identico giro di vite (salari, occupazione, servizi sociali, diritti sindacali e politici...) per spremerne sin l'ultima goccia di sangue, beninteso "per il bene della propria nazione" (o "della Jugoslavia", a seconda delle versioni). La contesa "nazionale" semplicemente tende a mascherare questo stato di cose, in quanto strumento di classe in mano alle singole borghesie in funzione antiproletaria e risultato, insieme, della difficoltà del proletariato jugoslavo a rispondere ai fenomeni disgregativi di cui si rende responsabile la borghesia difendendo l'unità jugoslava su proprie postazioni di classe.

Se ancora non è riuscito ad andare più oltre, il proletariato jugoslavo non si è accodato alle manifestazioni di isterismo "nazionale", da nessuna parte. Esso non si è mescolato alle folle di piccolo-borghesi, professionisti, mediatori d'affari, trafficoni e traffichini e... studenti. E la ragione, una materialistissima ragione, c'è: esso sente di non aver nulla da guadagnare dalla frantumazione della classe per linee nazionali, ha già provato che dietro lo sventolio patriottico delle bandiere nazionali esiste soltanto lo smisurato appetito del proprio nemico di classe, avverte quotidianamente la necessità di essere sé stesso e ciò, sia pur confusamente e tra mille difficoltà, ne orienta l'azione nel senso di un'azione di difesa comune a tutta la classe, nell'indissociabilità dei due termini: lotta contro l'insieme delle "proprie" borghesie, lotta per la salvaguardia dell'unità del paese contro le forze disgregatrici delle classi nemiche, interne ed internazionali. Quando una qualsiasi frazione del proletariato jugoslavo scende in lotta lo fa, di necessità, contro la borghesia locale, ma lo fa anche contro quella jugoslava complessiva (unita come un sol uomo attorno alla "riforma economica" portata avanti da Marković), ma lo fa anche contro i diktat e l'opera di spoliazione messi in atto dall'Occidente imperialista. Questo è il fronte su cui il proletariato jugoslavo si trova impegnato e che non gli permette alcun accomodamento nell'alveo dei singoli ed opposti schieramenti "popolari" nazionalistici.

Ne uscirà un programma ed uno schieramento di forze indipendenti e in grado di imporre il "proprio punto di vista"? Questo, lo sappiamo, è tutt'altro che scontato, dal momento che le vive tradizioni proletarie sono state spezzate, in Jugoslavia e nel mondo intero, sotto il tallone di ferro dell'imperialismo, del "riformismo" socialdemocratico, dello stalinismo (quello titoista compreso). Quello che è escluso è che le ragioni del conflitto possano essere tacitate o, addirittura, riassorbite: non lo è vero oggi, tanto meno lo sarà domani, qualora dovesse passare la "soluzione" cui stanno lavorando neo-ustascia, panserbisti a coloritura "socialista" o meno e via dicendo; al contrario, questa "soluzione" non farebbe che spargere barili di benzina in prossimità del nostro fiammifero...

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Già nel '72 (altro che problemi del dopo-Tito!), il vecchio Maresciallo aveva dovuto affrontare fenomeni di insorgenza nazionalista che prefiguravano appieno la situazione attuale. Merita ricordare quello che egli disse, sia per mettere in rilievo quanto di marxista c'era nella sua analisi quanto per rendersi conto della contraddittorietà presente in quell'analisi e della conseguente impotenza delle soluzioni proposte.

"La base del nazionalismo - così parlò il Grande Vecchio -, è una base di classe, si tratta, nella fattispecie, di una lotta fra avversari di classe. Il nazionalismo e il socialismo non possono marciare insieme. Sono due cose opposte. Le radici profonde del nazionalismo risalgono al periodo borghese (...) in cui la proprietà privata regnava sovrana. Essa si oppone allo sviluppo socialista, nel quale la proprietà privata non può essere predominante. Gli slogan nazionalistici sul presunto asservimento nazionale, il preteso saccheggio dei valori e dei beni nazionali, si prestano come meglio non si potrebbe alle imprese del nemico di classe". (Il "difetto" sta qui principalmente nel nascondere che il "defunto" periodo borghese era tuttora e più che mai vivo nella Jugoslavia dell’"autogestione"; senza di che neppur si capirebbe il rispuntare di grosse radici nazionalistiche).

Proseguiva: "Nessuna delle nostre Repubbliche potrebbe sopravvivere se fosse sola. Essa sarebbe immediatamente preda di uno di coloro che ci aspettano continuamente al varco". (Noi diciamo esattamente la stessa cosa; si tratta, "al più", di capire come mai possa esser cresciuto un particolarismo così cieco proprio dall'interno di una sistema che si vorrebbe "socialista").

Da qui due punti fondamentali: 1) la rinascita del nazionalismo va collegata all'opera di "sabotaggio del socialismo" di tecnocrati e burocrati, affannati ad alienare i frutti del lavoro operaio a proprio uso e consumo sino a trasformarsi in vera e propria "nuova classe proprietaria" sulla base dei "propri" interessi aziendali, regionali, "nazionali" (con la spinta a dare ad essi l'opportuna proiezione sovrastrutturale a livello di potere politico); 2) la classe operaia spogliata da costoro del frutto del proprio lavoro ("del profitto prodotto", dice antimarxisticamente Tito) deve ritornare al centro della società, ma per questo ha bisogno di un suo partito pan-jugoslavo, in contrasto con la tendenza della LCJ stessa a "disintegrarsi" lungo linee di percorso nazionalistiche, e cioè asservite agli interessi della suddetta "nuova borghesia".

Tito si limitava a prender nota che il "sistema" aveva prodotto tutta una serie di veleni ed a proporre una cura di disintossicazione. Ma su quale base economico-sociale? Esattamente quella precedente, che ha dato i frutti che solo poteva e doveva dare. Su quale base politica? Una LCJ in via di "disintegrazione" da rimettere in piedi per ripercorrere la strada del "socialismo nazionale autogestito" (cioè ultrafrantumato, non sottomesso e non sottomettibile ad alcun piano centrale, riproduttore a scala continuamente allargata di rapporti di produzione e rapporti sociali capitalistici). Occorreva ben altro.

Occorreva ed occorre che il proletariato jugoslavo unito ingaggi una battaglia che per sua natura non può trovar soluzione entro le frontiere "indipendenti" del proprio paese; occorreva ed occorre che esso si dia il corrispondente partito, capace di parlare non in nome degli "interessi nazionali di uno sviluppo economico indipendente jugoslavo" (vana ubbia!), ma in quello della lotta contro l'insieme del dominio capitalistico, che non occorre andare a ricercare altrove perché già ora e qui si manifesta in pieno.

Questi i compiti più che mai all'ordine del giorno, oggi, nel momento in cui è saltato in aria il coperchio "socialista" che mistificava e, in parte, mitigava le contraddizioni capitalistiche che bollivano in pentola e da essa esce fuori ogni genere di miasmi prodotti dalla consumatasi putrefazione del "sistema" precedente. La parola d'ordine dei proletari jugoslavi dev'essere: ogni centimetro quadrato nelle mani delle "nostre" borghesie deve essere ad esse strappato; ogni centimetro quadrato del territorio della rivoluzione sociale jugoslava dev'essere difeso contro gli interessati tutori imperialisti della "democrazia" che ci garantirebbero i "nostri" quisling. Una sola classe!, un solo sindacato!, un solo partito comunista!

Meta grande e lontana? Può darsi. Ragione di più perché a quest'appello che sta nelle cose, prima che in "uomini" capaci di farselo proprio, rispondiamo qui, in Occidente, come necessario: giù le mani dell'imperialismo dalla Jugoslavia!, non un soldo, non un uomo per l'ennesimo export di una "civilizzazione" che già qui ci appesta e che non sarà mai troppo presto quando riusciremo a mandare a carte quarantotto!