Dopo l'operazione "Massacro nel deserto"
L'Iraq è stato duramente battuto nella guerra. Ma per le classi e le nazioni oppresse è sempre preferibile perdere combattendo che arrendersi senza lottare. E poi, c'è sconfitta e sconfitta. Questa sconfitta non è stata una riedizione della lotta del 1948 né della catastrofe della "guerra dei sei giorni", quando bastò poco al solo stato di Israele per sbaragliare la coalizione "anti-sionista". Certo: alla fine l'Iraq si è piegato al diktat dell'imperialismo, ma si è piegato soltanto a prezzo della guerra, e di quale guerra!
L'ampiezza della alleanza capitanata dagli USA, la sua potenza di fuoco e l'incredibile sproporzione tra le forze dei due schieramenti (la reale consistenza delle forze armate irachene era enormemente inferiore a quella descritta dalla propaganda bellicista in Occidente) esaltando obiettivamente la resistenza dell'Iraq e la portata della sua sfida allo schieramento imperialista. È dal luglio 1830 - data d'inizio dell'occupazione francese dell'Algeria - che le nazioni capitalistiche "più evolute" di Europa e d'America non cessano di aggredire il mondo arabo con lo scopo di ridurlo prima, e mantenerlo poi, permanentemente al rango di colonia. E che, in risposta, le popolazioni arabe non si stancano di sollevarsi e di ribellarsi ai nuovi schiavisti. In questa lunga storia, l'ultima guerra del Golfo sarà ricordata come quella in cui, per la prima volta, l'intero campo del capitale imperialista dovette consorziarsi, ammassare in Arabia, dai quattro angoli del globo, la meglio equipaggiata armata d'ogni tempo, assicurarsi il concorso della parte più addomesticata e retriva delle classi proprietarie arabe, per poter ricacciare indietro non tanto e non solo l'Iraq (un paese di 18 milioni di abitanti!) quanto la minaccia di una travolgente Intifadah arabo-islamica. Mentre - nonostante il modernissimo apparato di protezione - il territorio di Israele veniva violato, il corso degli eventi rovesciava il vecchio stereotipo (di ascendenza coloniale) secondo cui "gli arabi hanno paura" in una presa d'atto di segno diverso: gli arabi, ovvero: gli sfruttati arabi - fanno paura.
Risibile è, perciò, il clangore delle fanfare imperialiste. La sconfitta dell'Iraq, come non porta gloria alcuna agli Schwarzkopf, non costituisce un'onta per i popoli del Medio Oriente. Tutt'altro. Essa era nell'ordine "naturale" delle cose. E tuttavia, sia ben chiaro, non è neppur lontanamente la sconfitta della lotta all'imperialismo in quanto tale, bensì soltanto di un episodio di questa, e di un modo borghese, inconseguente di condurla. Visto per quello che realmente è stato, lo scacco dell'Iraq, benché abbia momentaneamente prodotto delusione e abbattimento nel movimento di massa sceso nelle piazze a sostegno dell'insubordinazione irachena, è un'esperienza da cui possono e debbono essere tratte importanti lezioni per il futuro.
Fondamentale tra tutte (una verità ben nota al marxismo rivoluzionario) è che la guerra dei paesi oppressi al sistema imperialista può vincere solo a condizione che siano il proletariato e le masse sfruttate ad assumerla come proprio diretto compito, sul piano sociale politico e militare, ad estenderla e radicalizzarla fino alle estreme conseguenze "interne" ed internazionali. Solo a condizione, insomma, che essa entri a far parte della rivoluzione socialista mondiale.
In tutt'altra direzione si è mosso, evidentemente, il regime di Saddam Hussein che, pur proclamando la necessità della "jihad" all'imperialismo dell'intero mondo arabo-islamico, si è poi ben guardato dal tradurre, in Iraq e fuori, questa enunciazione "di principio" nelle consequenziali misure pratiche. Emblematico, a riguardo, il comportamento tenuto dal regime baathista nella questione dell'arruolamento dei volontari. Dapprima il veemente appello ai "fratelli arabi" e di tutto l'Islam acché venissero in aiuto in armi al paese aggredito e disarcionassero i governi compartecipi dell'attacco dell'Occidente. Poi, dinanzi alla forte risposta delle masse povere della regione (sembra che gli iscritti nelle liste di arruolamento siano stati oltre un milione in Algeria e tra cento e duecentomila nella piccola Giordania, per non parlare dei molti altri paesi coinvolti), il tracheggiamento di Baghdad ed infine la sua cooperazione di fatto con i governi da... disarcionare nel porre argini al movimento anti-imperialista. Immancabile, l'epilogo sospeso tra l'enigma e la farsa, con il primo (ed unico) contingente "internazionale" pro-Iraq composto da 50 militanti accortamente "selezionati" del FIS algerino che, dato per imbarcato ad Algeri, non sarebbe mai giunto a Baghdad...
Se il processo di unificazione e di armamento generale delle masse lavoratrici del Medio Oriente non è riuscito a passare, in questi mesi, dallo stadio di esigenza largamente avvertita a quello di realtà effettuale, ciò si deve anche alla politica passata e presente di Saddam Hussein (e dell’"anti-imperialismo" borghese più in generale), da sempre ostili a che siano gli sfruttati i veri protagonisti dello scontro con l'imperialismo. Non intendiamo, evidentemente, sostenere che l'arruolamento di folte schiere di volontari (in ipotesi: anche di tutti i disponibili) avrebbe potuto capovolgere l'esito di questa battaglia. Il valore di un simile contingente, di certo modesto sul piano militare a breve, sarebbe stato però egualmente enorme sul piano socio-politico (e quindi anche su quello militare a medio-lunga scadenza), in quanto avrebbe determinato un inizio di spostamento di fronte nel senso di un inizio di affrancamento della lotta di classe anti-imperialista degli sfruttati dalle ipoteche borghesi alla Saddam, un primo momento di concreta rottura delle castranti barriere statali, una prima forma di diretta assunzione (senza nessuna passiva attesa di ordini "dall'alto") di tutti i compiti della guerra di liberazione dall'imperialismo da parte delle masse oppresse. Ben ovvio che anche il regime iracheno ne ostacolasse la costituzione.
Il regime borghese di Baghdad è corresponsabile della sconfitta subita, e soprattutto del modo in cui essa è maturata, né poteva essere diversamente. Tale corresponsabilità appare maggiormente evidente proprio se si considera l'estensione senza precedenti dell'insorgenza anti-imperialista dei lavoratori dell'area, ritrovatisi uniti nella condanna dell'intervento imperialista, al di là di posizioni anche molto differenziate circa lo stato iracheno ed il "cavaliere della nazione araba" Saddam.
Torniamo a sottolineare il grande significato di classe di tale sollevazione, sia di contro al rifiuto della borghesia araba ed alla incapacità del nazionalismo piccolo-borghese di impiegarne il potenziale di combattimento (in senso lato), che di contro alla denigrazione sciovinista di essa quale (presunta) espressione di "fanatismo" e di "barbara" ripulsa per i "superiori valori" della democrazia e del diritto internazionale. Il ribollire delle piazze arabe, con mille e mille episodi di solidarietà con il popolo iracheno, fin dentro - ed é quanto dire - il corpo scelto dell'aviazione saudita, molti dei cui piloti non hanno avuto lo stomaco di bombardare l'Iraq; l'aperta simpatia dei diseredati iraniani ed asiatici per la resistenza irachena; il sostegno ad essa, sia pure solo "ideale", delle popolazioni musulmane dell'URSS (tra le meno propense alla svendita all'Occidente); esprimono, al di là dei non secondari limiti di questo movimento (primo fra tutti il prendere, almeno in parte, Saddam Hussein come punto di riferimento), una istanza che è propria specificamente delle classi sfruttate: quella della necessità della lotta e della massima unità nella lotta contro il capitalismo imperialista. Una istanza che, guarda caso, è spuntata anche nelle dimostrazioni popolari anti-americane svoltesi in Messico, che - converrete - rimane un po' fuori mano rispetto alla culla dell'Islam...
A taluno, completamente dimentico sia della struttura dell'imperialismo che delle caratteristiche dello scontro di classe nei paesi dominati dall'imperialismo, questa insorgenza può sembrare un arretramento rispetto alle "più dure" rivolte maghrebine degli anni '84-'88. Ma non è cosi. Per il proletariato e le masse povere dei paesi oppressi la lotta alle proprie borghesie nazionali e la lotta alla borghesia internazionalmente dominante non stanno in alternativa, bensì vanno insieme. Si può ben dire che quelle rivolte a contenuto più immediato ed "interno" hanno preparato il terreno per questa sollevazione a carattere più generale e "verso l'esterno", la quale ha gettato, a sua volta, le premesse per l'allargamento e l'acutizzazione della lotta di classe rivoluzionaria in tutto il mondo arabo-islamico e di rimando nelle metropoli. La guerra del Golfo ha reso più fondo il solco tanto tra l'imperialismo e l'esercito dei supersfruttati dall'imperialismo, quanto tra le classi sfruttatrici e le masse lavoratrici arabe.
Facendosi complici della devastazione dell'Iraq o rimanendo "neutrali" davanti ad essa, le borghesie arabe hanno bruciato buona parte del loro residuo credito "anti-imperialista". Non si può dire che la borghesia araba abbia trascorsi rivoluzionari fulgidi. Giunta troppo "in ritardo" sulla scena del mercato mondiale, costretta perciò a misurarsi con un capitalismo imperialista già consolidato, avrebbe potuto conquistare uno spazio meno angusto per la "nazione araba" soltanto a patto di portarne a termine l'unificazione (un solo mercato, un solo stato pan-arabo unitario) e di assicurarsi realmente (ovvero: in solido), sottraendolo all'imperialismo, il controllo delle proprie ingenti risorse naturali. Ma essa si è rivelata impotente ad assolvere questo cruciale compito storico, non riuscendo neppure a liquidare quelle monarchie, emirati e sceiccati che rimangono le pedine ideali dell'assoggettamento e della balcanizzazione imperialista del Medio Oriente. A bloccarla è stata la preoccupazione - di già reazionaria nei confronti di una rivoluzione borghese condotta fino in fondo e, tanto più, nei confronti del comunismo - di mettere in moto le masse lavoratrici sfruttate e di dare impulso ad una lotta sociale gravida di effetti non desiderati, quali - per partire dal meno - lo smantellamento generalizzato delle istituzioni pre-borghesi, delle autentiche riforme agrarie, delle reali garanzie di organizzazione per il proletariato e le masse, ecc.
Mancata la realizzazione, foss'anche parziale, dell'unificazione panaraba, - l'unica esperienza di un certo rilievo, quella della RAU (la Repubblica araba unita raggruppante Egitto, Siria ed Iraq), abortì precocemente -, la borghesia araba ha continuato a mantenere la questione in caldo (in tiepido...). E ad agitarla di quanto in quando ora per secondare (a parole) le aspettative popolari, ora per allentare la stretta dell'imperialismo occidentale, mettendo in ogni circostanza avanti l'irrisolto problema palestinese come il principale momento di coagulo ed il simbolo del riscatto di tutti i popoli arabi. L'accordo di Camp David inferse un primo colpo a questa situazione: una frazione importante della borghesia araba desolidarizzava dalla causa palestinese e, separandosi dalla "nazione araba", stabiliva la pace con lo stato usurpatore di Israele. La guerra del Golfo gli ha inferto un colpo definitivo, sia perché è stata la prima guerra tra stati arabi, e soprattutto perché è rimasto isolato dal consenso dei governi arabi non lo stato connivente con Israele e con l'imperialismo (come avvenne, per lo meno formalmente, con l'Egitto di Sadat), bensì lo stato arabo che - anche in nome della Palestina da liberare (autentica o meno che fosse l'assunzione di questo obiettivo) - ha osato, costrettovi, sfidare tanto Israele che l'imperialismo.
La crisi del capitalismo mondiale sta facendo saltare per aria l'una dopo l'altra (nelle metropoli come in "periferia") le ipotesi di "terza via" tra capitalismo e socialismo. Insieme con la velleitaria prospettiva del "non allineamento" del "Terzo Mondo", sta tramontando anche quella della unificazione del mondo arabo per iniziativa delle borghesie arabe. Incapace di una vera e propria coesione "anti-imperialista", alla "guida" di economie "nazionali" esclusivisticamente centralizzate sui bisogni del "centro" imperialista, la borghesia araba si presenta sempre più divisa. Ciascuna frazione corre ormai soltanto per sé stessa (ovvero per il capitale finanziario che la tiene sotto controllo), in concorrenza con le altre, e tutte risultano maggiormente esposte al ricatto delle borghesie dominatrici. E pensare che qui da noi, all’"estrema sinistra", c'è ancora chi è convinto che la "soluzione araba" (promanante dai "concreti" regimi borghesi e semi-feudali arabi esistenti) avrebbe potuto costituire una realistica alternativa "di progresso" allo scatenamento della guerra...
Ma acuendo le divisioni dentro la borghesia araba, la guerra del Golfo ha al tempo stesso allargato la linea di frattura tra le borghesie arabe e le masse sfruttate. E lo ha fatto ovunque, proprio per la riluttanza delle stesse borghesie non direttamente coinvolte nella guerra ad andare oltre le deplorazioni diplomatiche e qualche marginale gesto "anti-imperialista" di facciata. Vediamolo in una rapida carrellata, a partire dai paesi schieratisi al fianco degli USA.
L'Egitto ha, ufficialmente, vinto; ma i suoi lavoratori, pur avendo fondatissime ragioni di avversità e di recriminazione contro le classi sfruttatrici irachene ed il loro regime, non considerano affatto la distruzione dell'Iraq ed il reinsediamento degli al-Sabah come una propria vittoria. Non si segnalano feste popolari pro-Bush o anche soltanto pro-Mubarak, in Egitto. Ed il governo non vi si è provato ad organizzarle. Le uniche manifestazioni di piazza sono state, al contrario, a sostegno dell'Iraq e perfino la troppo paziente Città del Cairo ha provveduto, con la sua protesta contro "i traditori della causa araba" a far disciogliere precipitosamente la prima riunione post-massacro della Lega araba. In Siria soltanto una sanguinaria repressione preventiva ha impedito che si esprimesse con chiarezza il sentire anti-imperialista della massa. In Marocco, presente al fianco degli imperialisti con un contingente militare "simbolico", il pugno di ferro usato da Hassan II contro la rivolta sociale (a dicembre) ha sortito, invece, l'effetto di gettare benzina sul fuoco di una larghissima mobilitazione di lotta contro l'aggressione imperialista, che ha richiesto anche il ritiro delle truppe marocchine. Ritiro che la monarchia, nonostante le ipocrite parole latte-e-miele profuse sul "fratello" popolo iracheno, non ha potuto effettuare. La Turchia, vero perno locale del vecchio come del "nuovo" ordine imperialista nella regione, è stata scossa da nord a sud dalla più ampia andata di scioperi operai e di dimostrazioni anti-governative da un decennio a questa parte, con una fusione tra temi di lotta interni ed "esterni". Nello stesso Kuwait "liberato", non soltanto è mancato qualsivoglia segno di giubilo "popolare" e di accresciuta solidarietà intorno alla corte, ma la pur addomesticatissima "opposizione" musulmana e "nazionalista" è scesa nella strada (non era mai successo) per condannare l'inasprimento dello "stato di polizia" voluto dalla corte e dagli "alleati" occupanti. Nel mentre a Riad un'Oriana Fallaci (una tantum leggibile) ha avuto modo di raccogliere i segni del "crescente rancore anti-occidentale" della popolazione povera e di vedere da vicino come la stessa facoltosa borghesia saudita provi vergogna per le decisioni della autocrazia ("Corriere della sera", 18 febbraio).
Quanto ai paesi arabi rimasti "neutrali", il quadro è più complesso. Qui, infatti, talvolta (a Tunisi, a Tripoli) sono stati i governi o i partiti al potere a promuovere delle iniziative contro la guerra all'Iraq, salvo passare, al primo pretesto utile, a proibire ogni manifestazione, ovvero a compiere, a guerra ultimata, gesti di massima distensione verso l'Egitto (ma la piazza araba aveva già gratificato di Pilato, l'ex-enfant terrible Gheddafi... - ed anche questo non era mai successo). In altri casi, invece, i regimi borghesi si sono limitati a seguire, fino ad un certo punto, un'insorgenza anti-imperialista che non richiedeva davvero eccitanti aggiuntivi. E però anche laddove il "gioco" si è spinto più avanti, come in Giordania ed in Algeria, l'acrobatico Hussein travestitosi da ex-re non ha potuto fare a meno di opporsi alla richiesta popolare di entrata in guerra al fianco di Baghdad e la ritrovata vena "anti-colonialista" del FLN algerino non ha tollerato l'impiantamento dei campi di addestramento per i volontari reclamato da una parte degli islamici. Sinanche la direzione dell'OLP, così prodiga di dichiarazioni pro-irachene ed in questo in sintonia con le masse palestinesi, non ha poi dato ad esse - a differenza di quel che le masse si attendevano, ed il Comando unitario dell'Intifadah aveva chiesto - alcuna apprezzabile traduzione pratica.
"In tutti gli eserciti arabi - ha constatato Ben Bella - si respira un profondo malessere perché i loro governi non si pronunciano chiaramente. Si è già moralmente in guerra contro coloro che combattono l'Iraq" ("Corriere della sera", 13 febbraio). Esattissimo. Il non pronunciarsi chiaramente potrà addirittura aver risollevato le quotazioni di qualche regime rispetto ad "opposizioni" ancora più imbarazzate ed ambigue (è il caso dell'Algeria), a prezzo - però - di far crescere il malessere delle masse sfruttate (anche di quelle in armi!) in profondità per non avere dato man forte in armi al popolo iracheno brutalmente violentato dall'Occidente.
Per quanto abili siano state le borghesie arabe nel cavalcare e contenere il movimento di massa là dove esso minacciava di straripare, l'ondata anti-imperialista che ha solcato il Medio oriente ha globalmente indebolito la loro presa sulle proprie masse lavoratrici e rivitalizzato la spinta verso l'autonomia del movimento proletario. Se i regimi che hanno invocato l'attacco all'Iraq (Kuwait e Arabia Saudita) sono finiti per sempre, agli occhi delle masse oppresse, sulla lista nera dei servi dell'imperialismo; se i regimi che vi hanno attivamente concorso (Egitto e Siria) sono destinati a perdere qualsiasi residuo prestigio (nel caso egiziano già scarsissimo) quali portatori della "causa araba"; si può star certi che anche i regimi rimasti "neutrali" non potranno a lungo ripetere i loro funambolici esercizi, consistenti nel far credere di stare dalla parte dell’anti-imperialismo", senza in effetti muovere un dito in questo senso. Glielo impediranno appunto i programmi imperialisti di "pacificazione" del mondo arabo-islamico, di cui la devastazione dell'Iraq è stato appena l'avvio.
Ne sa qualcosa, del resto, lo stesso movimento islamico, che "inaspettatamente" esce dalla crisi del Golfo con diverse ammaccature. La definitiva bruciatura del nazionalismo pan-arabo (nello stesso Baath iracheno si è aperta ora la discussione sulla sua archiviazione) forniva alle organizzazioni islamiche, per lo meno in astratto, l'opportunità di affermare a pieno l'unità (interclassista) dell'intero Islam come l'unica prospettiva (borghese) "vincente" di lotta all'imperialismo. L'opportunità è andata sostanzialmente mancata. Anzitutto dall'Iran post-khomeinista che avrebbe dovuto esserne, sempre in astratto, il principale centro di irradiazione ed ha svolto, invece, piuttosto, il ruolo di pompiere. La ragione di fondo di questo "buco" è che si è concluso anche in Medio Oriente il ciclo di una rivoluzione "anti-imperialista" capace di tenere assieme, in un solo blocco nazionale, tutte le classi del "popolo" e se ne é aperto un altro segnato dall'inesorabile approfondimento della divaricazione tra classi sfruttatrici e classi sfruttate nel (ed a causa del) movimento "anti-imperialista". Abbiamo notato, nel n.15 del "Che fare", come questo processo si rifletteva nella polarizzazione politica crescente del movimento islamico; la guerra dei Golfo ha fatto fare alla cosa un altro passo in avanti, obbligando entrambe le tendenze dell'islamismo a scoprire un po' di più le proprie carte (truccate).
L'Iran di Rafsanjani non ha, evidentemente, represso le dimostrazioni contro l'Occidente: non ne aveva interesse. Tuttavia, impegnata com'è ad "uscire dall'ombra di Khomeini" (o meglio: dall'insurrezione del '79) ed a dare velocità alla propria ricostruzione in termini "post-rivoluzionari", ha fatto quanto era in suo potere per frenare, entro e fuori i propri confini, la radicalizzazione e l'unificazione delle masse oppresse islamiche. L'ala "pragmatica" del regime ha cercato di non alienarsi la propria base sociale più povera istintivamente postasi (un buon istinto!) contro gli "alleati" ma, pur con cautela, ha dovuto pronunciarsi per la fine dell’"esportazione della rivoluzione" e, con varii pretesti, contro la "jihad all'imperialismo". L'ala populista ha rispolverato le vecchie insegne di lotta "all'imperialismo" (il "Kayan International" è giunto a preconizzare un contingente internazionale di difesa dell'Iraq comprendente, oltre i paesi islamici, anche Cuba, Corea del Nord e Vietnam), ma - quanta scuola ha fatto il riformismo! - senza agire coerentemente in questa direzione, salvo che per "azione" non debbano intendersi i discorsi "parlamentari" e gli articoli di giornale fine a se stessi. Le celebrazioni del 12° anniversario del rovesciamento dello Scià hanno messo in luce che nessuna di queste due tendenze ha realmente riflesso le attese della parte più militante della massa "islamica", invocante a gran voce effettive iniziative contro il "grande satana" statunitense ed il "piccolo satana" israeliano. L'episodio avvenuto nella base di Khorramshar - un'unità militare dispose le proprie batterie missilistiche contro l'Arabia Saudita ed i mezzi navali "alleati" - ha fornito, nel "piccolo", un riscontro analogo: le autorità hanno disposto l'immediato disarmo e trasferimento dei "colpevoli" (che non sono stati, però, puniti: ecco tutto ciò che hanno strappato i "radicali"). Un riscontro perfino più imbarazzante l'hanno avuto congiuntamente il regime e la sua "opposizione" islamica quando la piazza iraniana è rimasta fredda davanti alle loro grida a sostegno degli sciiti iracheni insorti contro Saddam (e anch'essi, in parte, fiduciosi verso gli imperialisti aggressori, sui quali invece continua a concentrarsi prioritariamente l'odio di classe dei mostazafin).
Non più agevole è stata la navigazione del FIS algerino, appena salito alla ribalta e già costretto a conciliare l'inconciliabile (istanze di classe antagoniste), tra condizionamenti della propria originaria matrice pro-saudita e violente pressioni "dal basso" in senso diametralmente opposto, tra proposte avanzate (la trasformazione dell'Algeria in un unico grande campo militare di addestramento "anti-imperialista", il taglio delle forniture di petrolio e di gas agli stati imperialisti, inclusi i "bravi" europei) e il vuoto dei piani di attuazione. Non è andata meglio neppure agli islamici giordani, essi pure chiamati a dar conto, nel dopo-guerra, della propria inconcludenza, dal momento che anche la Giordania (come stato) ed il suo "iper-rivoluzionario" parlamento sono rimasti alla finestra mentre l'Iraq veniva fatto a pezzi. Comunque, al di là dei singoli casi, vi è un dato d'insieme: l'insorgenza anti-imperialista provocata dalla guerra del Golfo ha interposto molteplici elementi di contraddizione e di attrito tra direzioni islamiche e masse diseredate, facendo complessivamente crescere la distanza tra queste e quelle. Per chi, come noi, vede nelle masse sfruttate inquadrate dalle organizzazioni islamiche un potenziale rivoluzionario che il proletariato ed i comunisti possono e debbono liberare, è uno sviluppo promettente. (Ed é un'ennesima conferma che la lotta alla dominazione imperialista necessariamente divarica le classi "anti-imperialiste").
Si possono notare, in parallelo, i primi passi di un processo di affrancamento del proletariato e dei lavoratori medio-orientali dalle prospettive (e dalle strutture) del nazionalismo borghese. Ne abbiamo parlato, a suo tempo, per l'Iran e per l'Intifidah palestinese. Ora l'ascesa del ruolo politico degli sfruttati e la tendenziale differenziazione delle loro organizzazioni da quelle "nazionali" (inter-classiste) cominciano ad essere visibili nell'intera regione. Due aspetti meritano, anche per il futuro, attenzione: 1) il peso che hanno avuto gli organismi sindacali nell'allargamento della mobilitazione; 2) l'emergere di una embrionale linea di frattura tra il movimento sindacale arabo (in trasformazione) e i governi arabi a cui è stato tradizionalmente legato, a grado che esso va raggruppando nuove energie "di base" e assumendosi sempre più estesi compiti politici.
Superfluo rimarcare come la ripresa in grande stile degli scioperi operai (minatori, metalmeccanici, tessili) in Turchia ha avuto una ricaduta positiva sulla protesta di massa contro l'intervento imperialista e la partecipazione ad esso della Turchia. Più determinante ancora, forse, il ruolo svolto dal movimento sindacale in Giordania, in Marocco, in Tunisia nel dare impulso e ampiezza alla lotta.
Particolarmente significativa, tra molte, la presa di posizione della Confederazione dei lavoratori turchi in Europa (ATiK) che in un volantino diffuso in Germania, riconosce, la guerra all'Iraq come guerra "contro tutti i popoli delle regione" e chiama "i popoli del Medio Oriente che si trovano al centro della guerra" a "trasformare la guerra imperialista in guerra civile". Né si arresta qui: "Anche nelle regioni lontane dal teatro di guerra - aggiunge, ed è aggiunta fondamentale - i compiti sono molti. Soprattutto l'opinione pubblica europea deve combattere l'azione imperialista e mettere in atto tutte le possibilità contro questa guerra. Gli operai tedeschi e stranieri dovrebbero erigere delle barricate contro questa guerra imperialista e dare un buon esempio di solidarietà Internazionale. Ciò è più necessario che mai per l'umanità civilizzata!".
Sebbene monca sul decisivo versante della proiezione verso il proletariato dell'Occidente, è di rilievo anche la presa di posizione del Movimento Comunista d'Algeria che ben sa distinguere, dall'interno del mondo arabo, tra la solidarietà "al popolo iracheno" e la necessità di "non sviluppare illusioni sulla natura (borghese) del regime irakeno"; che incita le masse arabe a non avere "nessuna pietà per i regimi arabi" allineati nella loro maggioranza "sulle posizioni dell'imperialismo" e rappresentanti "borghesie avide, indebitate e dipendenti dall'imperialismo"; che giustamente lega il rafforzamento della mobilitazione anti-imperialista alla condizione che "il movimento non (resti) a rimorchio di Saddam Hussein"; e che, infine, formula con grande chiarezza il passo in avanti che gli sfruttati medio-orientali sono chiamati a compiere: "Le masse del mondo arabo debbono smettere di mettere il loro destino nelle mani di uno zaim: Nasser ieri, Saddam Hussein oggi. Non c'è che un solo eroe, è il popolo, a condizione che trovi piena fiducia nelle proprie forze (...). Sono le masse popolari, con alla propria testa la classe operaia, che devono condurre la lotta contro l'imperialismo, il sionismo e le borghesie arabe".
Sappiamo bene che queste sono punte avanzate della lotta e che, nello stesso tempo, il loro mancato pieno ancoraggio alla dottrina comunista le inibisce dallo svolgere coerentemente il compito di avanguardie rivoluzionarie. Non sottostimiamo i limiti di un'insorgenza anti-imperialista che continua a prendere come proprio punto di riferimento, benché con atteggiamento sempre meno delegatario, i Saddam Hussein o le direzioni borghesi "islamiche", e come propri interlocutori i governi arabi rimasti "neutrali" nella guerra del Golfo. Escludiamo categoricamente che questi limiti possano essere superati fino in fondo localmente e per mezzo della sola spinta di massa.
Ben altro è il contenuto ed il senso del nostro discorso. Primo: il tirarsi indietro delle borghesie arabe e dello stesso movimento borghese islamico dai compiti di lotta allo sfruttamento ed alla sopraffazione imperialisti (che è, comunque, sempre molto contraddittorio, non potendo venire meno le ragioni di conflitto con l'imperialismo) non fa scomparire, per il proletariato e le masse sfruttate del mondo arabo-islamico, la necessità della lotta all'imperialismo. Ché anzi è il contrario: la potenzia, dal momento che l'imperialismo non può non riprodurre, a nuovi livelli, elementi di oppressione nazionale e "coloniale" (vedi la guerra del Golfo e la natura della "pace" che ad essa l'Occidente vorrebbe far seguire) e che a questa oppressione la stessa borghesia arabo-islamica è oggi materialmente più co-interessata di ieri. Secondo: nel contesto dell'avviarsi del sistema capitalistico internazionale ai passaggi più catastrofici della propria crisi, la crescente non-consequenzialità dell’"anti-imperialismo" borghese ha l'effetto di rendere oggettivamente stretto come mai lo è stato il legame tra lotta di liberazione anti-imperialista e lotta sociale anti-borghese, tra ogni "singolo" movimento nazional-rivoluzionario e la rivoluzione mondiale comunista, ovvero - per restare al nostro tema - tra i grandi sconvolgimenti rivoluzionari che stanno maturando in Medio oriente e la ripresa delle lotte operaie e la rinascita del movimento proletario comunista in Europa. Terzo: leggendo con cura dentro gli avvenimenti recenti (e meno recenti) del mondo arabo-islamico, è dato cogliere i primi segni del fatto che il (pur strutturalmente e... "sovrastrutturalmente" debole) proletariato di questa regione sta facendo dei passi in avanti verso la propria indipendenza politica. Li sta facendo dall'interno di un movimento anti-imperialista che è ancora diretto, per non congiunturali cause internazionali prima che locali, da classi non proletarie; né potrebbe essere altrimenti, in mancanza della dittatura proletaria nei paesi più sviluppati e del Partito comunista internazionale. (Tuttavia già oggi l'insegna dell'unità arabo-islamica cosi come la agitano le masse sfruttate in sommovimento è altra e conflittuale cosa rispetto al pan-arabismo e pan-islamismo borghesi). Quarto: la piena e definitiva liberazione del proletariato e dei popoli oppressi del Medio Oriente potrà aversi soltanto con il totale e definitivo rovesciamento dell'ordine sociale capitalistico, del sistema imperialista. È questo il punto di arrivo al quale i comunisti finalizzano il proprio lavoro in Medio Oriente e verso il Medio Oriente. Ma perché questo riferimento al socialismo internazionale, all'unità internazionale del proletariato e degli sfruttati, alla ricostituzione del Partito comunista non rimangano formule prive di contenuto, per aiutare da qui realmente i nostri fratelli di classe arabo-islamici a sbarazzarsi di ogni illusione nei Saddam Hussein, è indispensabile comprendere, sì: comprendere. la situazione reale del Medio Oriente e dei paesi dominati in genere, ragionare sui fatti ed i processi reali (senza inventarsi, tanto per dire, un Medio Oriente "ultra-borghesizzato ed ultra-capitalistizzato" che non sta né in cielo né in terra né... in Medio Oriente), condurre una completa analisi di classe delle contraddizioni. Soltanto su questa base si potranno tracciare linee di indirizzo per l'azione (le nostre le abbiamo già illustrate nei precedenti numeri del giornale e ci sembra inutile ripeterci) che realmente servano ad avvicinare e domani a fondere le due sezioni del nostro esercito di classe, sicché possa finalmente aver ragione delle armate imperialiste e borghesi. C'è davvero bisogno di ricordare, a certi nostri critici che ci scambiano per "attendisti" o "sottovalutatori" sulla questione e sui compiti del Partito, che questo altro non è se non il necessario lavoro "di partito"?