Dopo l'operazione "Massacro nel deserto"
Gli Stati Uniti hanno ufficialmente designato Cuba come prossimo obiettivo della "pacificazione internazionale". Perché espugnare la piccola isola Caraibica è obiettivo così importante per l'imperialismo? Cosa ha rappresentato e cosa rappresenta 1’"anomalia cubana" nello scontro di classe internazionale? La fine dell'appoggio sovietico e lo svanire delle condizioni internazionali che hanno permesso la tenuta del "modello socialista" di accumulazione capitalista segnano l'ultimo atto della resistenza antimperialista? O sono piuttosto il segno di una nuova fase dello scontro tra imperialismo e masse cubane che esige il superamento dell'orizzonte nazionalistico del castrismo chiamando in causa tutte le masse sfruttate latino americane ed il proletariato occidentale?
Dicembre 1989: poco dopo l'invasione di Panama e la cattura di Noriega un aereo yankee sorvola la prigione in cui é rinchiuso l'ex caudillo degli USA facendo sventolare uno striscione di avvertimento: "il prossimo sarà Fidel".
All'indomani dell'agosto 1990 l'attenzione dell'imperialismo internazionale si sposta in Medio Oriente e sul "nemico" che più da presso insidia "l'ordine internazionale". Ma in tutta l'America latina un sentimento di spontanea solidarietà alla resistenza delle masse arabo-islamiche prende corpo in una serie di manifestazioni culminate in una importante dimostrazione di piazza a Città del Messico. All'atteggiamento conciliatorio verso l'aggressione nel Golfo delle più importanti borghesie latino-americane faceva riscontro l'evidente schieramento antimperialista delle masse. La "speranza" che la guerra agli sfruttati mediorientali distogliesse l'attenzione imperialista e ne mitigasse la rapacità, è stata condivisa illusoriamente solo dai governi latino-americani (vedi quello Argentino) ormai "affittati" a colpi di debt-swaps agli USA e dai "circoli pacifisti" europei, smaniosi di togliersi dai piedi il "fastidioso problema" della guerra e desiderosi di tornare ad adorare il mito dello sviluppo pacifico ed armonioso del "nuovo ordine mondiale" capitalistico. Sulla pelle delle masse latino-americane, invece, l'ombra sinistra dei B52 si rifletteva immediatamente sul presente del proprio sfruttamento e sul futuro annunciato di una aggressione imperialista che non ha mai smesso di esercitare la suo pressione in America Latina e nell'area caraibica.
Solo chi non capisce (non vuole capire) l'intensità dello scontro tra imperialismo e paesi sfruttati (aspetto dell'incrudirsi dello scontro internazionale tra capitale e lavoro) può sperare nella cessazione delle ostilità da parte dell'imperialismo. Può cinicamente sperare che l'eliminazione degli "intemperanti" come Saddam Hussein non faccia risorgere nelle plaghe sfruttate del mondo la resistenza all'aggressione imperialista.
Solo chi beve ancora a piene mani nelle coppe dei sovrapprofitti delle metropoli può essere tanto cieco da non vedere che l'apparente trionfo del "nuovo ordine mondiale" è necessariamente il trionfo della vampiresca opera devastatrice nei confronti dei paesi del "Terzo Mondo" da parte del capitale accumulato e concentrato in Occidente ed il sintomo dell'acuirsi delle sue contraddizioni. Solo costoro possono stupirsi se nel cuore del "cortile di casa" gli Stati Uniti si accaniscono contro Cuba. Solo costoro possono non vedere come "lo spettro" di Cuba evoca non già le passate lezioni di "playa Giron", ma l'attualità del fuoco dell'insorgenza delle masse di tutta l'America Latina e l'impossibilità da parte del declinante gigante imperialista statunitense di tollerare il seppur minimo segno di opposizione alla sua corsa disperata verso il drenaggio di profitti.
Per costoro allora è meglio dimenticare le vecchie passioni terzomondiste e l'interesse romantico-letterario per le imprese del "Che" e dei "Barbudos" ed unirsi al coro di chi chiede a Castro di mettersi da parte, di favorire la "democratica" apertura al mercato capitalistico (casomai nella sua veste europea), di smetterla col suo "caudillismo" e di "adeguarsi ai tempi". I tempi della completa e totale sottomissione all'imperialismo. Questa pletora di neo-comunisti democratici e di ex-terzomondisti è pronta a sostenere la tremenda pressione imperialista contro Cuba, resa drammatica dall’"abbandono" sovietico, intonando i versetti del vangelo imperialista: "liberalizzatevi", "democratizzatevi", "affittatevi al nostro Dio imperialista". Questi neomissionari del capitale non esitano a denunziare, con la ferma autorità dei difensori della fede capitalista, la "mancanza di diritti umani" a Cuba, la "burocrazia autoritaria" del "regime" di Castro. Essi assolvono in pieno al compito già svolto dai missionari al seguito dei colonizzatori spagnoli: convincere gli indigeni a convertirsi alla fede degli oppressori all'ombra degli archibugi di Diego Velasquez. E davvero viene in mente il dialogo tra il capo indio Tainos, cacicco Hatuey, ed il frate francescano che nel 1511 lo battezzava prima dell'esecuzione da parte dei colonizzatori: "...sono qui per battezzarti così potrai andare in paradiso". "Ma in paradiso ci vanno anche i vostri morti?". "Certo...". "Allora preferisco andare all'inferno".
Noi che non abbiamo nessun idolo indigeno da difendere (nemmeno quello del presunto socialismo cubano), e che all'inferno intendiamo mandarci padroni e lacché, riprendiamo però in pieno la necessità della denuncia dell'aggressione imperialista a Cuba come aggressione a tutto il proletariato internazionale. Mai cesseremo di lavorare per l'appoggio incondizionato alla lotta delle masse cubane e latino-americane e di indicare al proletariato occidentale la strada dell'unitaria lotta con esse contro l'imperialismo. Solo questa condizione irrinunciabile potrà andare oltre l'asse della resistenza nazionalistica cubana e spostare la lotta sull'unico terreno vincente contro l'imperialismo: quello internazionale e proletario. Quello del socialismo internazionale.
Ironicamente Castro ha affermato che Bush è ossessionato dall'idea di "conquistare" Cuba tanto da vederla ogni mattina nella tazzina del proprio caffè. Ma tale ossessione è imperialisticamente del tutto giustificata, non tanto e non solo perché con la conquista di Cuba si completerebbe lo sgretolamento del "muro" politico ed economico che intorno all'URSS ha posto un argine allo sfondamento dell'imperialismo internazionale; non solo perché l'isola di Cuba, quasi attaccata alla Florida, è un vitale punto strategico per il controllo dell'area caraibica, ma soprattutto perché la sorte di Cuba, fin dal '59, è intrinsecamente legata all'insorgenza delle masse latino-americane. Ed anche se la sua "politica estera" non esce dai confini della concertazione statale (o dei rapporti con i fronti guerriglieri in qualità di potenziali "governi amici"), essa continua a raccogliere l'adesione di tutti i settori popolari dell'area centro e sud americana che aspirano all'indipendenza dagli USA.
D'altronde proprio negli ultimi anni l'attività di Castro è stata strettamente legata ai tentativi dei paesi latino americani di porre un argine all'offensiva finanziaria e militare degli Stati Uniti. I quali, non a caso, hanno accostato nei loro programmi di normalizzazione i nomi di Noriega, Ortega e Castro. Ed in più, dopo la "dismissione" sovietica dall'area e la caduta del sandinismo, ogni aspettativa dei movimenti guerriglieri centro-americani è riposta nella "resistenza" di Cuba. Il "pericolo" Cuba è dunque ben attuale ed il quadro interpretativo delle sue vicende, del suo rapporto con l'imperialismo (e quindi delle prospettive di lotta alla rinnovata aggressione) non può essere limitato all'analisi del presunto carattere socialista della sua economia (facendo poi oggetto di illusorio sostegno la difesa della sua autarchia economica e politica). Cuba è un'anomalia intollerabile per l’imperialismo in quanto costituisce esempio vivente (come lo è stato lo stesso sandinismo) non già di un "diverso modo di produzione", ma della resistenza antimperialista delle masse latino-americane. È solo a partire da questa realtà che l'asse di rottura tra imperialismo e masse cubane si inserisce nello scontro internazionale tra capitale e lavoro ed è oggettivamente destinato a volgersi verso il proletariato e la rivoluzione socialista internazionale.
L'affrancamento di Cuba dall'imperialismo nord americano nel '59 si è inserito ed è stato il prodotto del moto internazionale dei paesi oppressi che dal dopoguerra agli anni '60 ha scosso il mondo. Il programma "socialista" (ovvero la prospettiva di una forma statuale centralizzata per operare l'accumulazione primitiva e la costruzione del mercato interno) è stato adottato dal movimento rivoluzionario antimperialista cubano nella sua fase discendente come strumento per impulsare la costruzione capitalistica e difendersi dal blocco economico americano.
In una prima fase (1958) la direzione rivoluzionaria aveva un programma economico e di alleanze sociali moderato (la riforma agraria progettata dai "barbudos" era abbastanza ambigua e concessiva verso il latifondo). Fu nel corso della rivoluzione, sotto la spinta non solo delle masse cubane ma di tutto il moto antimperialista internazionale che lo stesso programma della direzione rivoluzionaria assunse toni più radicali. La necessità di resistere al ritorno dei latifondisti sponsorizzati dagli USA, la pressione terribile del nemico praticamente alle porte di casa, si sono incontrate con tale moto sociale. Ne sono testimonianza gli stretti legami col movimento rivoluzionario latino-americano e nord africano e le aspirazioni guevariane all'insurrezione di tutta l'area. Aspirazioni che pur non trovando una risposta nell'internazionalismo proletario e pur ricadendo nei limiti del rivoluzionarismo piccolo borghese, coglievano e si facevano espressione della necessità di trovare una soluzione alla lotta antimperialista oltre i confini del nazionalismo. Ciò, tanto più necessario per la piccola isola di Cuba sovrastata dal vicino gigante imperialista. L'incontro con l'URSS e la costruzione della "pianificazione socialista" ha segnato il punto d'arresto di questa prima fase rivoluzionaria; arresto sancito dalla "partenza" del "Che" e della successiva sconfitta e morte dello stesso rivoluzionario sulle montagne boliviane.
L'autarchia cubana, osannate dallo stalinismo di ogni genere, è il prezzo da pagare alla mancata estensione del moto rivoluzionario.
In questo ambito le prospettive della lotta antimperialista a scala internazionale vennero abbandonate in funzione della "costruzione economica nazionale" ed i problemi connessi al permanente scontro con l'imperialismo temporaneamente risolti con l'alleanza interstatale con l'URSS.
Il "blocco statunitense" e la fine di una prima rapida fase di sviluppo estensivo presentano rapidamente a Cuba il conto degli insormontabili problemi dello sviluppo economico capitalistico dei paesi arretrati nell'epoca imperialista. La piccola e debole economia cubana si affacciava al mondo del capitale internazionale come un bambino tra i giganti. D'altronde il "blocco" statunitense sbarrava il passo alla vendita della canna da zucchero ed all'acquisizione delle tecnologie e dei capitali necessari per sostenere questo rapporto (nello stesso tempo per paradosso proteggendo Cuba dalla sottomissione ai capitali imperialisti). Il sodalizio con l'URSS diveniva quindi una necessità per proseguire la strada dell'accumulazione. Il sostegno sovietico e la pianificazione centralizzata furono quindi strade obbligate per sopperire all'impossibilità di un naturale sviluppo dell'economia di mercato e per gestire nella maniera più equilibrata possibile l'accumulazione capitalistica, stretta dall'anarchica pressione dei contadini, dalla debolezza di partenza e dal peso incombente del boicottaggio statunitense. Da questo punto di vista l'interscambio privilegiato con l'URSS ed il Comecon ha significato per Cuba potersi garantire la vendita ad un prezzo "fuori mercato" della canna da zucchero e l'acquisto di tecnologie e capitali, evitando una strozzatura immediata e rapida da parte del mercato internazionale. Inoltre (e soprattutto) l'inserimento nell'alveo sovietico ha garantito la protezione politica e militare dagli Stati Uniti.
Naturalmente ciò non ha implicato che questa copertura fosse perenne e senza contropartite (tanto è vero che il fraterno accordo tra stati è saltato non appena le esigenze del capitalismo sovietico hanno sollecitato una maggiore profittabilità degli investimenti "internazionalisti" e la fine dell'utilità del blocco interstatale "socialista" in funzione protettiva) né tantomeno ha evitato che Cuba rimanesse confinata nel girone infernale dei paesi del terzo mondo. La propria economia per sopravvivere ha dovuto polarizzarsi nella mono-produzione della canna da zucchero per ripagare l'acquisto di tecnologie dall'URSS. Inoltre la pianificazione centralizzata, nonostante tutti gli sforzi a tale fine realizzati, ha trovato sempre di più all'interno la cauzione imposta dall'anarchica piccola accumulazione contadina, testimoniata dalla perenne esistenza del mercato nero parallelo. Alla fine degli anni sessanta il governo si adoperò ad arginare il calo di produttività nell'agricoltura privando i contadini impiegati nelle aziende statali del piccolo appezzamento privato in favore del quale si spostava la capacità produttiva. Anche questa ulteriore collettivizzazione non ha evitato naturalmente che la tutela centralizzata dello sviluppo capitalistico scontasse i tempi e le cauzioni imposte dalle "naturali" esigenze dell'araba fenice piccolo borghese, né che la pianificazione avvenisse nelle more del classico rapporto di dipendenza dei paesi arretrati (stretti nella morsa della dipendenza dal mercato delle materie prime e del debito).
Nella seconda metà degli anni settanta il peso delle spinte convergenti di questi fattori porta il governo cubano a varare una serie di misure di "liberalizzazione" economica: garanzia di una base di autofinanziamento alle imprese, introduzione di criteri di profittabilità ed incentivi, promozione del decentramento economico, legalizzazione parziale dell'attività privata (liberi mercati contadini). Dopo una prima fase propulsiva, che portò all'aumento della produzione agricola, la liberalizzazione (oltre a produrre il rapido arricchimento di uno strato contadino e profondi scompensi sociali culminati con la crisi del Mariel) rinnovarono i problemi senza sbocco di un salto intensivo della produzione agricola e della connessa necessità di approvvigionarsi dei capitali e delle tecnologie per realizzarlo. Questo insieme di problemi fu risolto momentaneamente con il blocco del mercato libero (campagna di "rettificazione"), da un nuovo "impulso dall'alto" all'utilizzo estensivo delle risorse umane, e soprattutto con la congiuntura favorevole del prezzo dello zucchero che garantì per la prima volta l'acquisto di beni e tecnologie dall'occidente.
La resa dei conti avverrà alla fine degli anni '70 allorché Cuba sarà costretta a seguire la stessa sorte degli altri paesi latino-americani, messi in ginocchio dal crollo del prezzo delle materie prime e dall'aumento del debito (a Cuba si è passati dai 660 milioni di dollari del '74 ai 2,86 miliardi di dollari del 1984 dell'ammontare del debito verso l'occidente oltre alla ben più notevole quota del debito con l'URSS). Contemporaneamente i passi successivi della perestrojka di Gorbaciov cominciavano a togliere il terreno privilegiato attraverso il quale Cuba poteva mitigare l'esplodere delle contraddizioni e la dipendenza cruda e diretta dal mercato internazionale. Nel suo viaggio a l'Avana Gorbaciov viene accompagnato da posizioni della dirigenza sovietica che ben illustravano i temi dell'incontro. La rivista "Nuovi Tempi" riporta a chiare lettere l'atteggiamento liquidatorio nei confronti degli ex-fratelli: niente più regali ai "parassiti" cubani. Il contraccolpo del "nuovo" atteggiamento sovietico è tremendo. L'invito di Gorbaciov a Castro a "fare da soli", ad impiantare una propria perestrojka non può che suonare come una condanna. La perestrojka cubana degli anni precedenti ha ben dimostrato come un approccio diretto al mercato internazionale del debole capitalismo cubano viene pagato con l'immediata sottomissione, senza possibilità di difesa, al capitale imperialista. E "l'allontanamento sovietico" espone Cuba agli attacchi sempre più diretti degli Stati Uniti.
Le enormi difficoltà economiche, il cui peso è già terribile su Cuba (destinate ad aggravarsi per il futuro, tenuto conto che, tra l'altro, dal '91 anche gli scambi commerciali con l'URSS avverranno in moneta convertibile, dopo che questo è già stato imposto dagli altri "fratelli" dell'est e che l'acquisto della canna da zucchero ad un prezzo doppio del mercato durerà solo per un altro anno), la fine di ogni garanzia di difesa politica e militare dagli USA, riportano dunque le masse cubane al problema di partenza. La necessita di riprendere la lotta antimperialista e di superare i confini della "costruzione del socialismo" (della costruzione di una propria autonoma economia nazionale integrata a pari titolo nel mercato internazionale) attraverso la battaglia unitaria con le masse latino-americane ed il proletariato occidentale. Il grosso sforzo di sfuggire alla pressione imperialista attraverso l'alleanza interstatale con l'URSS ha solo rinviato la continuazione della battaglia del '59 e l'alternativa storica in essa contenuta: o continuare la rivoluzione con una prospettiva internazionale o ricadere sotto la dipendenza completa dagli USA. E diviene drammaticamente attuale fare i conti con le ipoteche negative che la "costruzione del socialismo" ha sancito nei rapporti di classe interni e nell'autonoma capacità organizzativa del proletariato e delle masse cubane.
Il castrismo ha tentato di affasciare intorno alla costruzione del capitalismo cubano tutti i settori sociali e, nonostante acuti momenti di crisi (vedi la crisi del Mariel), ci è riuscito utilizzando i margini di garanzia offerti dalla collaborazione privilegiata con l'URSS. Ciò se ha consentito che la pressione verso il proletariato fosse di gran lunga minore che negli altri paesi dell'America Latina, non ha ovviamente evitato l'espropriazione dell'autonomia di organizzazione e di lotta in omaggio alle esigenze della costruzione capitalistica. Gli stessi contadini, vera solida base sociale del castrismo (favoriti come soggetti naturali dell'accumulazione capitalistica), garantiscono un sostegno minacciato dalla disgregazione economica che si paventa. Mentre la piccola borghesia urbana ed i "ceti emergenti" delle grandi città stanno ben dimostrando di voler abbandonare l'abbraccio con il castrismo in favore di un futuro più remunerativo nelle mani dell'imperialismo ("vivamente sollecitati" a ciò dalla campagna per i diritti umani degli USA e dal ponte con l'imperialismo costituito dalla comunità cubana in Florida). In questo contesto l'auspicabile ripresa della lotta antimperialista (destinata a mettere in discussione il blocco sociale costruito intorno al castrismo) potrebbe non aver una partenza immediata impulsata dalla ripresa dell'attivizzazione rivoluzionaria delle masse, consentendo una temporanea vittoria dell'imperialismo senza ricorrere all'invasione diretta. Ma ciò non cesserebbe di riproporre immediatamente all'ordine del giorno la ripresa della lotta e la necessità di collegarsi alle masse sfruttate dell'America Latina. Ancora una volta la premessa e la velocità di questo processo di riorganizzazione è legato alla ripresa della lotta del proletariato occidentale. Ancora una volta il sostegno a tutti gli atti di risposta all'aggressione imperialista diviene compito vitale dei rivoluzionari in Occidente per contribuire al ritorno sulla scena delle masse cubane.
Il tentativo di Castro di intessere una rete protettiva nei confronti dell'aggressione statunitense fidando in una concertazione regionale e gli appelli e le concessioni del governo cubano agli Stati Uniti perché si rendessero disponibili ad allentare la pressione (il ritiro di Cuba dall'Angola e gli accordi sulla Namibia, il riconoscimento diplomatico degli USA, le concessioni a tutto campo alla chiesa cattolica, la scarcerazione della peggior specie di banditi al soldo di Washington) hanno trovato come risposta l'intensificazione delle provocazioni degli USA.
Nel 1985 Castro rilancia ai paesi latino-americani una proposta di rinegoziazione collettiva del debito. Gli Stati Uniti rispondono con il piano Brady che ha l'obiettivo dichiarato di costringere i singoli paesi ad una contrattazione bilaterale promettendo sconti contabili in cambio di sudditanza politica e dell'abbandono di ogni ipotesi di concertazione. Rapidamente i principali paesi latino-americani (tra gli altri Brasile e Perù) si allineano ai diktat statunitensi. Nello stesso tempo gli USA intensificano la campagna di provocazioni lanciate contro Cuba (allestiscono "la voce della libertà": radio Martì; più tardi completata con "tele Martì") e mettono a punto la strategia di intervento in centro-America che porterà negli anni successivi agli interventi in Salvador, a Panama ed alla caduta del Sandinismo. L'intelligence statunitense definisce questo piano contro i "ribelli" centroamericani con la sigla NOC (Noriega-Ortega-Castro). Viene a tal proposito varata la campagna contro il Narcotraffico che punta decisamente a giustificare l'intervento diretto nell'area caraibica e quella sui "diritti umani" che si rivolge direttamente contro Cuba.
Una prima mozione di censura dell'ONU contro Cuba proposta dal Capo delegazione di Washington (l'ex campione del diritto all'uso della colt 45 al servizio di Batista: Armando Vallarades) viene respinta con i voti di Perù, Colombia, Messico e Argentina. Più tardi, nei primi mesi del '90, una seconda mozione verrà approvata con il voto decisivo degli ex fratelli dell'est. Nei primi mesi del '91 una terza mozione sarà invece approvata con il voto decisivo dell'Argentina. Emblematicamente questi voti testimoniano la debolezza della strada castrista per difendersi dall'imperialismo. Sono un esempio di quanto sia fragile la difesa basata sulle relazioni interstatali e degli stessi accordi con i paesi latino-americani. L'anno della prima mozione di censura (1989) è tra l'altro quello dell'arrivo di Gorbaciov all'Avana. Nel febbraio dello stesso anno Baker a Mosca evita di garantire la non invasione di Cuba ed al vertice dei 7 di Houston Bush chiede esplicitamente a Mosca di "abbandonare" Cuba in cambio di aiuti economici.
La catena delle provocazioni assume, ormai, i toni della crociata. In risposta ad una intervista di Castro che auspica un dialogo con gli USA, questi sponsorizzano il "manifesto degli intellettuali" (protagonista il solito Vallarades) per la "democratizzazione della società cubana". In quello stesso anno la campagna contro il narcotraffico - traffico che tra l'altro è uno dei mezzi che gli USA utilizzano per l'infiltrazione interna a Cuba - raggiunge il culmine. In risposta a questa campagna (i tribunali della Florida avevano cominciato ad accusare direttamente personalità cubane sulla scorta delle dichiarazioni di narcotrafficanti "pentiti") Castro processa e giustizia Ochoa. Nel 1990 gli Stati Uniti varano la provocazione in grande stile delle operazioni navali nei Caraibi denominate Ocean Venture. Contemporaneamente viene preparata la "crisi delle ambasciate".
Cecoslovacchia e Spagna accolgono e danno grande risalto (si distinguono particolarmente nel fervore democratico i diplomatici cecoslovacchi, neo assunti dalla civiltà occidentale) alla richiesta di asilo di un gruppo di "profughi" cubani. Più tardi saranno gli stessi profughi a confessare di aver ricevuto indicazioni dal Dipartimento di Stato americano.
La strategia statunitense stringe i tempi basandosi sugli effetti del tracollo economico e cercando di utilizzare una sponda interna per l'aggressione. Nel frattempo si prepara l'eventualità dell'invasione diretta .
La risposta di Castro si è sostanzialmente ancorata all'alleanza con le borghesie sud americane. Dopo il fallimento del 1985, però, i suoi contatti ed accordi con il Brasile ed il Messico sono continuamente messi in discussione dalla polarizzazione dello scontro imposto dall'imperialismo. E, fatto ben più grave, mentre non arginano l'offensiva degli USA, ribadiscono l'abbandono dal terreno della lotta di ogni prospettiva rivoluzionaria che chiami in causa l'insorgenza delle masse latino-americane.
Tutte le borghesie latino-americane auspicano un allentamento della pressione imperialista, ma (e non potrebbe essere altrimenti) nell'ambito di un proprio accreditamento sul mercato internazionale e del contemporaneo blocco dell'insorgenza sociale. La pressione imperialista, però, mette tutti i governi latino americani di fronte all'alternativa: o spostare la contraddizione con gli USA su un terreno di scontro radicale o sottomettersi ai suoi diktat senza discutere. Di fronte a questa alternativa tutti i piani di concertazione si bruciano velocemente pur essendo evocati dalla pressione delle masse e dall'aggressione economica imperialista. La stessa speranza di Castro, per esempio, di approvvigionarsi al mercato del petrolio messicano e di inserirsi nel mercato latino-americano è contemporaneamente frustrata dalla creazione del mercato libero tra Messico-USA-Canada che consente agli Stati Uniti di mettere le mani definitivamente sul Messico e sulla produzione petrolifera di quel paese.
Gli stessi rapporti con l'imperialismo europeo (sponsorizzati controcorrente da Pds e relativo strame sociale, come alternativa democratica all'imperialismo USA) sono fin dall'inizio condizionati dalla richiesta democratica di defenestrare Castro (e cioè di abbandonare ogni lontana idea che Castro o chi per lui avesse di preservarsi in qualche modo dall’"abbraccio democratico"). Il comportamento della Spagna durante la crisi delle ambasciate è significativamente indicativo al proposito. Come lo è l'atteggiamento forcaiolo ed anticastrista del partito socialista italiano.
Questo contesto rende ancor più evidente che la stessa strada per opporsi all'imperialismo non può continuare senza rimettere sul piatto la mobilitazione delle masse latino-americane.
Il dilemma: saprà Cuba resistere?, sarà la Stalingrado dei Caraibi?, è il modo di affrontare la questione di un certo stalinismo che confina le prospettive del proletariato nella difesa della propria economia "socialista" e nella conservazione dello status quo dei rapporti tra stati; status continuamente messo in discussione dal procedere inarrestabile dello scontro di classe a livello internazionale. È tipico di questa illusione fondare le prospettive della lotta di classe sulle "capacità di resistenza" di un modello statuale borghese e di vedere nella sconfitta di questo il crollo della soluzione proletaria. Più volte i fans delle rivoluzioni latino-americane hanno gettato la spugna di fronte al crollo di tali modelli. In maniera micidiale per la stessa lotta antimperialista, il "realismo" di un impossibile accreditamento degli stati liberatisi dal giogo imperialista in un mercato o "modello" alternativo ha spinto nel dimenticatoio le prospettive rivoluzionarie, accreditando le borghesie locali e quegli strumenti di difesa dall'imperialismo sempre rilevatisi drammaticamente perdenti. Ed oggi quello stesso stalinismo in estinzione non ha altro da proporre alle masse cubane che improbabili e micidiali alleanze con le borghesie latino-americane o il pietistico allestimento di una petroliera (iniziativa intrapresa dal PCF).
Non si tratta quindi di sostenere la resistenza di "Stalingrado" nel bunker delle sue mura, ma di lavorare per la ripresa immediata del legame tra lotta antimperialista delle masse cubane ed insorgenza di tutta l'area latino-americana e di entrambe con il proletariato internazionale. Di propagandare senza sosta la necessità di ostacolare i piani imperialisti contro Cuba come aspetto dell'unitaria iniziativa anti-proletaria del capitalismo internazionale.
Saprà Castro farsi protagonista di una resistenza eroica all'imperialismo?
Per noi il dilemma è nei fatti già sciolto in quanto il nodo e la possibilità di tale resistenza non risiede negli attributi del "Barbudo". Se essa si darà, sarà la benvenuta perché sarà richiamata e richiamerà inevitabilmente uno scontro con l'imperialismo che travalica la stessa risposta del castrismo ed evocherà l'iniziativa delle masse cubane e latino-americane. Ma se anche l'offensiva imperialista dovesse incrinare la resistenza di Castro (e momentaneamente delle masse cubane), non cesserà assolutamente di esistere e crescere fin dal giorno seguente lo scontro tra i veri protagonisti della lotta (masse sfruttate ed imperialismo) e l'urgenza di sciogliere il veto nodo della questione. E cioè l'abbattimento del sistema internazionale capitalistico attraverso la lotta internazionale del proletariato per il comunismo.
La battaglia che a "Playa Giron" le masse cubane vinsero contro la revanche imperialista fu il frutto di un movimento rivoluzionario internazionale proveniente dalle ex colonie dell'imperialismo che dette il segnale della continuità dello scontro tra socialismo e barbarie. Su quelle stesse spiagge una nuova fase di quello scontro si profila, ed è il segno di una battaglia che supera gli stessi confini degli anni '60; poiché la stessa ferocia imperialista è frutto della sua crisi, poiché è esso stesso ad evocare la lotta rivoluzionaria non solo sulla costa soleggiata di Playa Giron, ma in tutti gli anfratti del continente americano, fino alle spiagge putride dell'opulento Occidente.