Anche questo numero si presenta largamente "sbilanciato" in direzione di scenari extradomestici di crisi, dalle vicine Jugoslavia e Germania al Medio Oriente e all'America Centrale. Conosciamo in anticipo la critica che ci può venir mossa in proposito: ma non è che andate sempre sulla luna e vi dimenticate dei fatti di casa nostra?, non è che parlando sempre dei problemi degli altri trascurate i nostri? Internazionalismo sì, vada pure, ma coi piedi ben piantati in terra (sul bel suolo italico).
Non è la prima volta che dobbiamo rispondere ad una simile obiezione, ma va bene ripeterci.
Se così spesso ed abbondantemente "usciamo di casa" ciò si deve ad un solo motivo: non facciamo altro che seguire sui suoi passi il nostro padrone di casa, il nostro capitalismo. È proprio lui a scorazzare da ogni parte del mondo (ben al di là degli itinerari da noi sin qui presi in esame) e noi non capiremmo un accidente dei problemi di casa nostra qualora pretendessimo di considerarli separatamente da questo movimento complessivo in cui sono inseriti né mai troveremmo le forze atte a risolverli escludendo da esse quelle che stanno dentro esso.
Per sua natura il capitalismo non si lascia imprigionare entro confini nazionali (e per la stessa ragione non lo è consentito ad un proletariato che intenda agire in quanto classe antagonista). Nell'epoca presente, di putrefazione imperialista, l'evidenza di ciò è fuori da ogni discussione. Le scorribande internazionali dell'imperialismo diventano regola: i problemi "interni" non possono essere risolti da alcun paese senza: a) estendere il raggio del proprio controllo e dominio - economico, politico, militare - su tutta una serie di paesi "indipendenti"; b) ridefinire gli spazi di potere all'interno del fronte imperialista di appartenenza; c) attaccare gli spazi della propria classe operaia. Il terzo punto è indissociabile dagli altri due e, tanto per tornare al "concreto italiano", ha suscitato veramente pena in noi lo sforzo "sincero" di certuni di sollevare le "ragioni operaie" sulla base di un "ragionevole" invito alla nostra borghesia che suonava più o meno così: levatevi il peso della partecipazione ad una guerra che non ci riguarda e ci costa soltanto; lasciate fare agli altri e pensate a voi e noi stessi... Meraviglia delle meraviglie, i borghesi non hanno saputo... capitalizzare un così prezioso consiglio!
Ripartiamo proprio dall'esempio Golfo, per vedere come a, b, c stiano ordinatamente assieme; del che noi proletari, noi comunisti dobbiamo prender nota diligentemente.
Solo dei traditori della classe operaia o degli imbecilli hanno potuto accreditare la favola dell'intervento USA & Soci nel Golfo quale missione - sui cui "modi" eventualmente "discutere" - per ristabilire la "sovranità" sul Kuwait di quei begli esemplari di porci sanguinari di emiri che ne sono "legittimi" detentori contro una "violazione del diritto internazionale" da parte dell’"imperialista" (!) Hussein. Sarebbe bastato dare una scorsa a quanto scrivevano fuori dai denti economisti e politicanti USA per capire di che si trattava invece: il fiato grosso della recessione stava già appressandosi al collo del gigante malato USA prima che scoppiasse il contenzioso, con la perdita di ulteriori posizioni di fronte alla concorrenza dei "partner" europeo-occidentali e giapponesi; l'atto di forza iracheno si aggiungeva ad esso, ridando voce (non importa qui ridire quanto deformata e deviata) alle spinte anti-imperialiste delle masse arabo-islamiche della regione, minacciando l'accesso indiscriminato USA alle risorse petrolifere e, quindi, introducendo un ulteriore elemento di scompenso nella sua economia; la pressione interna da parte del proletariato e delle masse povere (indovinate un po' chi registra "un tasso di mortalità infantile superiore a quello del Bangladesh") rischiava, in queste condizioni, di portarsi vicino alla soglia di rischio. Tre problemi da risolvere assieme: "disciplinare" le masse arabo-islamiche, "disciplinare" i partner-concorrenti riaffermando il proprio ruolo imperiale numero uno, "disciplinare" gli sfruttati all'interno, vedendo, semmai, di riuscire a concedere a settori di essi qualche briciola dello sperato rilancio.
Gli altri stati dell'Occidente, cui era giocoforza seguire gli USA nell’"impresa", vi sono entrati rispondendo allo stesso ordine di problemi: interesse comune per tutti era ristabilire nel Medio Oriente l’"ordine" imperialista; interesse particolare (della Germania e del Giappone in primis) che esso non finisse per profittare ai soli USA (per cui "una certa" partecipazione alla guerra e, soprattutto, al dopoguerra è stata ed è giocata esattamente a scaricare il maggior onere possibile sugli States, ritagliandosi in prospettiva uno spazio di manovra a buon mercato in zona); il tutto con l'esigenza, ormai universale, di una politica restrittiva all'interno, direttamente penalizzante la condizione della classe operaia, non solo - come negli anni '80 - dal lato lavorativo e normativo, ma anche da quello salariale ed occupazionale (obiettivo magnificamente servito dall’"emergenza guerra" e dal fossato sempre più vasto da essa aperto tra proletariato metropolitano a guida "riformista" e masse sfruttate della periferia).
Nel numero precedente abbiamo enfatizzato al massimo l'aspetto della lotta delle masse oppresse aggredite dall'imperialismo, mai stancandoci di mettere in luce il nesso tra quest'aggressione, le condizioni di incipiente collasso dell'economia metropolitana che l'hanno dettata, l'esigenza di una lotta proletaria qui saldata all'insorgenza anti-imperialista là quale unica prospettiva di resistenza e ripresa di classe ovunque. In questo numero siamo per così dire costretti ad insistere sullo stesso tema seguendo l'allargarsi del fronte di scontro dominanti-dominati: così, non solo prendiamo in esame dettagliato il quadro medio-orientale (analizzando nello specifico la situazione dell'Iraq del day alter e i cinici giochi imperialisti attorno alla questione curda), ma ci spostiamo verso il Centro-America (spiaggia un tempo in voga presso i "rivoluzionari" nostrani ed oggi da tutti o quasi dimenticata e sprezzata). È questa un'altra e vitale pedina nel gioco tra imperialismo e paesi oppressi, all'interno dei paesi imperialisti costretti a fottersi l'un l'altro, tra proletariato delle metropoli e sfruttati della periferia da un lato e sistema capitalistico mondiale dall'altro.
Saremo andati "troppo lontano", saremo "fuori tema" rispetto alle "urgenze" del momento?
Noi facciamo la nostra parte, ritenendo che la coscienza politica di cui il proletariato metropolitano ha disperato bisogno per ingaggiare qui le sue battaglie sia indissociabile dalla comprensione del movimento complessivo del capitale che necessariamente lo sospinge sempre più acutamente a ciò che altri chiama l’"avventura" esterna (dando ad intendere che "farebbe bene" a riguardare invece i "problemi di casa propria" - come se per l'imperialismo tutto il globo non fosse casa propria! -, industriandosi poi magari a "ridefinire il rapporto Nord-Sud" in maniera "democratica", "umana": e non è un caso che cotanto "umanitaristi" finiscano poi per lasciare impunite tanto le "scappatelle" in casa d'altri quanto in casa propria).
Tra l'altro, con l'accelerarsi del corso di cui sopra, le distanze spaziali sono destinate ad accorciarsi. Le linee di scontro si avvicinano progressivamente alle famose porte di casa. Qualche semplice annotazione: lo sforzo di penetrazione ad Est (con obiettivo principale l'URSS), la questione jugoslava che "c'impegna" direttamente ai confini (e, "se sarà necessario", al di là di essi, come rimarchiamo in questo numero), l'operazione Germania unita (altro tema che ci occupa costantemente)... In tutti questi casi la variante, rispetto al "classico" schema del conflitto metropoli-periferia, consiste nel fatto che qui sono messi a confronto dei puri proletariati metropolitani (nel caso della Germania addirittura appartenenti ad una stessa nazione tedesca), col conseguente venir meno dei vecchi diaframmi che li dividevano e un'esigenza per essi più tangibile di unirsi contro lo sfruttamento capitalistico che li interseca.
Come e per quanto, ad esempio, potrebbe l'operaio polacco, "liberato dalla schiavitù comunista", non sentire sulle sue spalle, oltre il peso dei nuovi padroni interni, quello dell'imperialismo occidentale che si compra a prezzi stracciati pezzi interi dell'industria nazionale, altri pezzi semplicemente li elimina ed ai rimanenti impone - quale supremo contrassegno di "vitalità competitiva" - una "razionalizzazione" (leggi: torchiatura all'estremo della manodopera utile, eliminazione impietosa di quella eccedente) oltre ogni limite? E questa "sensazione" di processi imminenti non si dà già nella stessa URSS? E non la vivono di già angosciosamente i proletari jugoslavi, per i quali tutto ciò si è accompagnato alla lacerazione del paese precisamente quale frutto dell'abbraccio imperialista?
E, di rimando, fino a quando gli operai delle nostre metropoli potranno non avvertire il bisogno, "per proteggere sé stessi", di far fronte coi fratelli di classe dell'altra sponda, in assenza di che sarebbe fatale il via libera ad un peggioramento delle condizioni di vita di entrambi? (In Germania il problema addirittura si pone all'interno di una cornice statale unitaria, il che non impedisce al capitale di procedere per linee "combinate" e diseguali e con l'obiettivo di tener... scombinato, diseguale, diviso e in concorrenza al proprio interno il proletariato).
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Un esame più approfondito delle contraddizioni che mordono il cuore metropolitano dell'imperialismo certamente s'impone, e sarà al centro dei prossimi numeri del giornale. Vale la pena qui di anticipare appena alcune considerazioni.
In primo luogo: la vittoria sull'Iraq, nonostante la notevole ricaduta sull'industria bellica yankee ed i positivi riflessi psicologici sui "consumatori", non è stata sufficiente a far ripartire l'accumulazione USA e potrebbe anzi, per l'inasprimento dei rapporti con i suoi massimi concorrenti, rendere più complicata l'uscita dalla recessione. È ormai certo che la ripresa reaganiana è giunta al palo alla metà del '90: la droga reaganiana (l'indebitamento statale di Washington) ha esaurito sostanzialmente i suoi effetti. Gli indicatori economici più freschi sono "sconfortanti" ("Il Sole-24 ore" 27/4/91): "La caduta accelera, e per la prima volta è diffusa su tutte le componenti della domanda... Nel primo trimestre di quest'anno sono diminuite tutte le componenti della domanda interna, così come le vendite finali". L'esibizione muscolare nel Golfo, se è servita a dimostrare che gli USA restano la potenza militare principe, disposta a giocare quest'arma quale diretto mezzo economico per sbarrare alla concorrenza la strada in Medio Oriente e ovunque nel mondo (si pensi, ad esempio, all'America Latina, dove gli USA si trovano a fronteggiare una penetrazione di capitali alquanto agguerrita da parte dell'Europa), non è valsa a risolvere il vero nodo; anzi: "È un paradosso crudele, ma gli USA potrebbero accelerare il loro declino anche in caso di vittoria perché peggioreranno il loro problema di fondo, che è quello economico" (P. Kennedy, ivi, 17/8/90).
D'altra parte, a questo declino USA (registrato da tutti: si discute solo sul suo possibile carattere transitorio o storico), non corrisponde alcun passaggio di mano della guida della locomotiva economica mondiale ad altri soggetti sostitutivi in grado di rilanciarla. Ovunque il vulcano della produzione urta contro la palude del mercato, con la conseguenza di un universale ristagno. Il miraggio della "conquista dell'Est" quale sbocco all'incipiente asfissia interna incontra molte maggiori difficoltà del previsto: la ricaduta positiva ad Ovest non sarebbe comunque questione di breve momento ed, in ogni caso, la realizzazione del progetto richiederà sforzi aggiuntivi e grandi manovre, non solo economiche, destinate a squassare i quadri complessivi attuali (all'interno dei paesi proiettati in avanti, del blocco di cui fanno parte, dei paesi disposti ad accogliere la "cooperazione"). Ammesso che esso vada in porto, starà ad annunziare non una nuova stagione di rilancio generalizzato ma una serie di nuovi e sin qui imprevedibili, nelle loro forme e dimensioni, sconvolgimenti internazionali.
Quello che è certo è che l'arretramento USA, comportando al presente difficoltà per l'insieme dell'economia capitalistica mondiale, si tradurrà da parte della concorrenza essenzialmente in una lotta a coltello per ritagliarsi sul mercato una maggior fetta della torta (decrescente) disponibile. La competizione sarà spinta al limite e già se ne intravvedono le conseguenze sul piano politico e militare: l’"unità occidentale" attorno al Golfo, ben lungi dal realizzare un riallineamento di Europa e Giappone alla coda degli USA, ha riacceso le polveri di una divaricazione politica netta ed ha offerto, intanto, questo prezioso insegnamento: se Germania e Giappone, in primis, vogliono giocare in proprio devono pensare innanzitutto a ripartire alla grande col processo del riarmo nazionale. Giganti economici non possono restare dei pigmei politici e militari. Il potenziale militare, per l'appunto, è un mezzo economico, ce l’hanno insegnato gli USA e ne faremo tesoro. Con una "piccola" complicazione: chi finanzierà questo riarmo che ci è necessario, ma viene a cadere anzitempo rispetto ai nostri desiderata, e cioè in un momento in cui già insorgevano difficoltà nel reperimento dei capitali necessari alla "grande marcia" verso Est, tanto per dire?
Proletari, drizzate bene le orecchie, qui è di voi che si parla!
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Non sono temi questi che si prestino a banalizzazioni. Ci limitiamo qui a dei semplici enunciati ed a ribadire la promessa di tornarci sopra sistematicamente. Intanto, però, ci sia concesso registrare come, nel giro degli ultimi due anni, la realtà abbia confermato puntualmente le previsioni da noi caparbiamente avanzate nel bel cuore dell'euforia universale per la caduta dei vecchi muri e il preteso conseguente avvio di una nuova era di pace e progresso. Ciò che ci sta avanti per il futuro non è che la moltiplicazione di tutti i fattori di crisi presenti:
Questi sono i fili "sparsi" che la classe operaia deve saper cogliere e ricongiungere per dotarsi delle armi necessarie a parare i colpi dell'offensiva capitalista oggi e replicare ad essa, domani, sull'ineludibile terreno della guerra civile di classe per il socialismo.
È quanto ripetiamo anche in questo numero affrontando la questione sindacale: per difendere "anche solo" i propri interessi immediati, la classe operaia deve per forza di cose muoversi in direzione di rottura con la logica imperialista trapiantata nel suo seno dai "riformisti", deve svincolarsi nei fatti dalla linea delle "compatibilità" e darsi un programma ed un'organizzazione incompatibili col capitalismo. La ripresa di classe non avrà spazi neutri su cui svilupparsi.
Tanto più queste considerazioni valgono quando si parli del problema centrale della classe operaia: il Partito. Qui, se il passaggio delle vecchie formazioni "comuniste" al campo capitalista pieno e confessato è di evidenza palmare, va sottolineato come nessun reagente ad esso possa venire da forze che programmaticamente si rinchiudono in un'ottica nazionale (del tipo "comunismo all'italiana" dei "rifondatori" di cui parliamo all'interno): nel "migliore" dei casi, una siffatta posizione potrà significare una volontà (con atti sparsi e incongrui) di opposizione agli effetti ultimi del sistema, giammai una comprensione delle sue dinamiche internazionali complessive e la messa in atto di un esercito di classe ad altrettale altezza. Questa posizione altro, in sostanza, non è che la traduzione, sul piano politico, dei termini di "compatibilità" ed "interessi nazionali" propri del "riformismo" sindacale.
Si potrà meglio capire la nostra insistenza sulle questioni "extra-italiane" rispondendo ad un semplice quesito: c'è o non un nesso tra la debolezza in cui versa attualmente il proletariato italiano e la posizione di neutralità e distacco, quando non di complicità, cui esso è stato indotto ("rifondatori" compresi) rispetto alle masse oppresse arabo-islamiche (o a quelle cubane domani, o al proletariato jugoslavo già oggi, tanto per limitarci alle "zone calde")?
La nostra catena si compone di anelli ben stretti tra loro. Essa è solidamente attaccata alla causa del socialismo, della rivoluzione. Non ne conosciamo altre che non siano attaccate altrove...