URSS

Qualche domanda ulteriore e ulteriori abbozzi di risposta

SULLA SITUAZIONE PRESENTE E I FUTURI DESTINI DELL'URSS


Indice


Lo svolgersi, tutt'altro che tranquillo e in positivo, delle vicende "sovietiche" e l'amplificarsi, attorno ad esse, delle campagne di pseudo-informazione e pseudo-spiegazioni dei mass-media (con tanto di super"cremlinologhi" sui libri-paga), inducono il "pubblico" a dubbi ed obiezioni ulteriori, cui vanno date opportune risposte.

1) E' "irreversibile" o no la perestrojka e resta o no valida l'ipotesi di una sua accelerazione ulteriore? Oppure se ne può prevedere una reinversione? Il processo di privatizzazione non va troppo a rilento? E non affiorano persino dei segnali antitetetici ad esso? 2) E' davvero iniotizzabile un "golpe" conservatore in Urss? Non è che già oggi Gorbačev appare in una certa misura prigioniero di certe forze di destra pronte, all'occorrenza, a sferrare contro la perestrojka le forze repressive di cui dispongono? 3) Che ne è della classe operaia sovietica? Si sta essa dimostrando in grado di intervenire attivamente e in positivo sulla situazione? Quando? Come? Oppure dovremo riconoscere che essa non sa darsi un ruolo proprio ed autonomo?


Tutte domande che toccano i punti centrali della nostra "interpretazione" complessiva del "fenomeno Urss", ben al di là di questo o queI singolo "fatto attuale". Rispondiamo ad esse - entro i limiti consentitici dalla struttura e dalla funzione di questo giornale - riprendendo il filo del nostro discorso.

Punto uno: indietro non si torna

Per prima cosa ribadiamo quanto segue: la strada imboccata da Gorbačev non è il frutto di una "scelta", tanto meno individuale ed improvvisa, ma il risultato cui tendeva tutta l'evoluzione in senso capitalista dell'economia e della società sovietiche (ivi comprese le "discontinuità" e le rotture necessarie, trapassando da una fase all'altra), da Stalin al perestrojkista ante-marcia Chruščev, da Brežnev ("ribaltatore" del precedente, ma anche erede delle istanze decentralizzatrici e dell' "attenzione all'agricoltura" di esso) a Gorbačev.

Per decenni, nell'indifferenza e nell'ostilità generale, la corrente marxista ha studiato e descritto in anticipo quest'evoluzione ("persino" oltre le date e i "protagonisti" presenti). I sostenitori della "teoria" della "rottura gorbacioviana" ("rivoluzionaria" o "controrivoluzionaria", a seconda dei gusti) al di fuori d'ogni considerazione sulle basi da cui s'è mossa (e che l' hanno determinata) semplicemente respingono l'abc del marxismo, riducendo ad "imponderabile" quello che il marxismo ha da lunga pezza - e definitivamente - …ponderato. La conclusione cui costoro mettono capo è una: il marxismo non offre strumenti sicuri di "divinazione" per l'Urss (ovvero: per nessun altro accidente di nulla!); non resta che seguire l' "attualità".

Ben al contrario, proprio l'indagine marxista della natura e funzione dello stalinismo permette di spiegare come e qualmente il "sistema sovietico" dovesse metter qui capo, per proiettarsi, altrettanto necessariamente, più avanti sulla strada della piena costruzione (e "confessione") di capitalismo iniziata con Stalin. Caso mai, quello che dovrebbe stupire è il ritardo accumulato nell'imboccare decisamente questa strada, visto e considerato che già sotto Chruščev ne apparivano i tratti essenziali. Ma questo stesso ritardo, da cui dipendono le anomalie e le strozzature attuali, è non solo la causa, ma l'effetto dell'insieme delle condizioni interne ed internazionali entro cui si è trovata a muoversi l'Urss per decenni. In primo luogo: la persistenza, per lunga pezza, di un "modello" di sviluppo dell'Urss "non comunicante" ed l'antagonista" rispetto a quello imperialista, con l'oggettiva possibilità di compattare attorno ad esso forze sociali interne e il movimento "comunista" internazionale. Negli anni di Chruščev, questi due elementi non avevano ancora esaurito le proprie potenzialità (controrivoluzionarie). Solo oggi essi sono venuti definitivamente a consunzione, allorché da un lato in Urss si è chiusa la fase dello sviluppo "estensivo" e dall'altro le "vie nazionali" additate al "movimento comunista internazionale" (da chi, se non da Stalin?) hanno portato i Pc di Occidente a recidere i legami di unità e financo di semplice solidarietà con il "paese guida del socialismo".

Attualmente, ogni ulteriore ritardo o incoerenza della perestrojka si tradurrebbe in una rovina pura e semplice. Nessuna forza interna avrebbe l'utilità e la possibilità di ritornare allo stato quo ante, a misura che la realtà economico-sociale dell'Urss si è definitivamente lasciata alle spalle il "tipo di sviluppo" precedente ed ha sedimentato un personale economico-sociale e politico proiettato verso la realizzazione "piena" della perestrojka che, di fatto, detiene nelle proprie mani il potere. E' vero, altresì, che nessuna accelerazione è possibile in modo tranquillo ed indolore e questa "contraddizione" favorisce le resistenze "conservatrici" di vecchi centri di comando ed anche di una buona fetta della classe operaia (con talune possibili intersecazioni tra questi due antitetici poli). E' tuttavia escluso che la vecchia "nomenklatura" (o meglio: una sua parte, quella più "burocratica") possa disporre di un piano alternativo (volto all'indietro) e la sua funzione ad altro non si riduce che alla ricerca di freni e contrappesi stabilizzatori per assicurarsi (dentro la perestrojka) il permanere di propri privilegi nella difficile fase di "transizione" badando a gestire quest'ultima come un indolore trapasso dalle vecchie e sorpassate alle nuove forme di comando. Tanto meno, quindi, essa può disporre di un "piano" che vada stabilmente ed organicamente incontro agli interessi della classe operaia (in questo "conservatrice": in quanto mira a difendersi dagli effetti di una molto più accentuata concentrazione e centralizzazione del capitale).

"Privatizzazione" a rilento?

Qualcuno ci obietterà: vediamo però che le grandi aziende non vogliono o non possono, o tutte due le cose assieme, "privatizzarsi". Per taluni ciò starebbe addirittura a dimostrare la forza di resistenza degli "acquis de l'Octobre" (da difendere, ovviamente, in modo incondizionato). Per altri, di parte dichiaratamente borghese, starebbe a dimostrare la strutturale estraneità del sistema "messo in piedi da Stalin" alle leggi del capitalismo occidentale per cui non c'è un esagerare in aperturismi nei suoi confronti. Nell'un caso abbiamo a che fare con "rivoluzionari" andati a male, nell'altro con borghesucci di vista corta (i borghesi "con le palle" ragionano in tutt'altro modo).

Vediamo un po'.

E' semplicemente da pazzi immaginare che la perestrojka potesse significare la "privatizzazione" delle grandi imprese capitalistiche di Stato, quasi che la storia del capitalismo in Urss dovesse ricominciare ab ovo, dall'accumulazione originaria. Questa già si è data, nelle forme della titolarità statale delle grandi imprese (agenti sul mercato della produzione e della distribuzione di merci e sull'acquisto monopolistico della merce forza-lavoro) com'era inscritto nelle condizioni storiche della realizzazione dei compiti borghesi della rivoluzione (come tale portata abbastanza avanti - anche se non "fino in fondo" - da Stalin). Né Gorbačev n El'tzyn né chiunque altro potrebbe rinunziare a questo armamentario statale da cui (e non contro cui) dipende la realizzazione degli obiettivi ulteriori. In gioco, non è una pura e semplice "privatizzazione" di "tutte" le aziende (magari cominciando dal centro), ma l'affermazione generalizzata delle "moderne leggi di mercato " dal centro alla periferia, e viceversa, e questa ha precisamente bisogno del volano di una grande industria statale "ristrutturata" in ossequio a dette leggi in quanto, tra l'altro, da essa dipendono la diffusione e la crescita di una rete di moderne aziende (queste sì '"private" ad ogni titolo) di piccola e media grandezza.

Gli "indirizzi fondamentali di stabilizzazione dell'economia nazionale e di transizione all'economia di mercato", approvati dal Soviet Supremo il 19 ottobre '90 (e pubblicati sulle Izvestija del 27) sono estremamente chiari in proposito.

A) "Le misure immediate per la destatizzazione e privatizzazione si realizzano prima di tutto in quelle sfere in cui il funzionamento di strutture statali è più adatto. Ad esse si riferiscono il commercio, il settore alimentare e della ristorazione, servizi, le organizzazioni di riparazione-costruzione nonché non grandi imprese in altri settori". B) "Al contempo si realizza già nel corrente anno la trasformazione in società per azioni e tovarisestva delle grandi e medie imprese dei diversi settori dell'industria e di altre sfere". Ma la stessa trasformazione in società per azioni richiederà necessariamente tempi lunghi, perché "oggi il valore di bilancio dei fondi fissi del paese (senza la terra, il sottosuolo, i boschi e il patrimonio personale dei cittadini) si aggira sui tre trilioni di rubli; tenendo conto della loro usura, sui due trilioni", mentre "i mezzi circolanti delle imprese e organizzazioni arrivavano a 800 milioni di rubli". La prima misura che s'impone, di conseguenza, è quella della "demonopolizzazione" in vista dello "sviluppo della concorrenza" (all'interno dello stesso settore a titolarità statale). A breve (e non tanto) lo Stato rimarrà quindi "proprietario" della fetta maggiore dell'apparato produttivo, ma l'importante è che sia smantellato "il sistema amministrativo di comando" in modo tale da promuovere più competitività, più produttività, più alti tassi di profitto ad uso e consumo dell'insieme della classe borghese.

Si può comprendere, in certa misura, la diffidenza del (piccolo) borghese mostrano verso il mastodonte Stato-padrone "sovietico", data la difficoltà di individuare fisicamente una classe borghese anagrafica già in partenza bell'e compiuta e in grado di tenere a guinzaglio lo Stato e dato il pericolo di una congiunzione tra il potere economico di tale Stato e quello politico rivoluzionario, che al nostro borghesuccio filisteo, può sembrare ancora non del tutto scongiurata.

Quello che assolutamente non si riesce a capire è come gli aspiranti marxisti osino fare del potere economico dello Stato un segno di per sé di "post" od "extra"-capitalismo astraendo: a) dalla natura del potere politico che attraverso questo Stato si esprime, b) dalla natura delle leggi cui risponde l' "economia statizzata". E' penoso che si risponda ad a): "Il potere politico è controrivoluzionario e al servizio della borghesia mondiale", ma poi, si replichi a b): "In quanto a proprietà statale, l'economia non ubbidisce alle leggi capitalistiche; le categorie di danaro, merci, lavoro salariato, investimento e profitto -nonché concorrenza - vi appaiono, ma solo di nome…". Chissà che domani non si dica che anche l'azionariato ed il taglio delle cedole sono solo un "nome" di comodo, mentre "la cosa", dato che c'è una titolarità statale di mezzo, resta diversa. Domandina: i dividendi dei Bot e dei Cct sono sinonimo di "appropriazione sociale?"

Alla radice della "resistenza antiprivatistica"

Se il processo di "riforma" incontra in Urss ritardi e difficoltà, questo non dipende dall'intrinseca riluttanza di una pretesa "struttura economica di stato" nei confronti della "privatizzazione", bensì da strozzature proprie di un'economia già privata" nel senso marxiano del termine, ed è problema che, sintomaticamente, si presenta non solo per l'Urss, ma per tutti i paesi dell'Est, anche laddove testa del potere politico ed economico-sociale sono sparatissime forze borghesi ispirate al più fervido liberalismo (molta Tatcher e, se non basta, molto Pinochet).

Il compito primario sarebbe, per tutte queste società, passare decisamente alla ristrutturazione delle grandi imprese statali (vale per i Walesa e gli Havel, sicuramente non custodi degli "acquis de l'Octobre") per dare di qui impulso e garanzia al generale sviluppo capitalistico. Sulla carta nulla osterebbe a tagliare, putacaso, 1/3 o più della manodopera "in esubero" ivi presente, solo che è alquanto difficile farlo non disponendo degli ingentissimi capitali necessari a -ringiovanire" il capitale fisso e tantomeno di quelli necessari alla promozione di una moderna piccola e media imprenditoria "privata" e, di conseguenza, non essendo in grado di offrire un'alternativa praticabile agli l'esuberanti" da decapitare. Si capisce così come persino un Walesa abbia dovuto tenersi i "Cantieri Lenin" dopo averli messi all'incanto: il "vantaggio" economico a breve sarebbe stato immediatamente annullato dalla fagocitazione di quel pezzo di "proprietà statale" da parte del capitale straniero e la "radicale" soluzione dell'eccedenza di manodopera, semplicemente gettando sul lastrico migliaia di individui, non avrebbe promesso - socialmente e politicamente - nulla di buono per il futuro…

L'iniezione dei capitali indispensabili non può venire che da Occidente, ma a che prezzo (ammesso che l'Occidente possa oggi realmente gettarli sul piatto)? Al prezzo di una progressiva svendita ad esso delle stesse basi portanti dell' "economia nazionale" e della riduzione di quest'ultima a pura parvenza. Cori quest'altra contraddizione: che i capitali d'Occidente, quand'anche fossero in grado di farsi questa gran pappata, non sarebbero in condizione di parare i colpi degli sconvolgimenti sociali che ne conseguirebbero. Da questo intrico nascono tanto le difficoltà per il potere borghese "sovietico" quanto quelle per gli investitori di Occidente. L'uno e gli altri sono costretti ad esitare, ad inciampare, a prender fiato ed a "contraddirsi" lungo la strada intrapresa, dando luogo a combinate situazione di "blocco" nel loro implacabile andare avanti per la via segnata.

L'esempio jugoslavo, più volte richiamato sulle pagine di questo giornale per il suo valore - per molti versi - di specchio in piccolo dell'Urss, ci offre un anticipo prezioso sul quadro che si va disegnando per l'ex "patria del socialismo" dal momento che, qui, tutte le "perestrojke" sono cominciate prima che in ogni altro paese dell'Est.

Nel giro di qualche anno di applicazione in profondità delle ricette mercantilistiche, il paese è pervenuto a questi risultati: la grande industria statale è rimasta per lo più appannaggio dello Stato, qua e là soltanto riuscendo a trasformarsi in società per azioni; essa ha potuto soltanto abbozzare un programma di ristrutturazione, "faute de capitaux", finendo per ridurre il più dei "risparmi" non all'acquisizione di nuova tecnologia, ma ai tagli occupazionali; su questa strada, però, non è potuta andare "sino in fondo", dato lo scatenarsi di imponderabili sconvolgimenti sociale cui sarebbe andata incontro; la piccola e media industria, anche giuridicamente private, anziché porsi come elemento "sostitutivo" del settore a titolarità statale e del "centralismo amministrativo" hanno rafforzato il ruolo (economico e politico) del centro in quanto necessario strumento di accumulazione "collettiva" e garante in solido degli interessi borghesi "a nome di tutta la società"; l'interscambio tra Stato (borghesia collettiva) e base (singoli borghesi proprietari) che ne è derivato è rimasto a minimi livelli quanto ad investimenti e tassi di profitto; alla "base" è proliferato disordinatamente un mercato di "libera iniziativa privata" non dissimile dal "souk" orientale, come icasticamente scrive Le Monde Diplomatique riguardo ad analogo fenomeno in Urss (commercio estemporaneo, mercato nero, speculazione "al volo"…), e se esso in una prima fase ha funzionato in qualche misura da serbatoio di compensazione sociale, si è subito sgonfiato, complicando i problemi "a monte"; nel frattempo, il capitale occidentale si è pappato interi settori dell'economia nazionale, vuoi grazie ad operazioni finanziarie vuoi alla diretta partecipazione alla gestione produttiva (qui più garantita rispetto all'Urss), senza significative ricadute in termini di sviluppo generale (foss'anche dipendente)…

Punto per punto questo quadro si applica al futuro della perestrojka "sovietica", se ed in quanto essa potrà andare avanti "indisturbata". Con due aggravanti: a) la maggior indisponibilità in Urss di un tessuto endogeno di sperimentazione mercantile e di personale fisico abilitato ad hoc; b) l'esigenza, da parte dell'Occidente, di investimenti colossali a lungo termine per di più in presenza di rischi crescenti di instabilità e sommovimenti.

L'Urss di Gorbačev deve bussare alle porte dell'Occidente e dimostrarsi concretamente disposta a pagare alti prezzi, offrendo precise garanzie in termini giuridici e di ordine pubblico. Non può farlo alla maniera dell'ultimo paese periferico, pronto a ridursi a colonia di fatto. Di qui l'uso rafforzato delle leve centrali (riadattate alla fase nuova) proprio per guidare la marcia ad Ovest (o, se volete, la marcia dell'Ovest verso Est) senza farsi travolgere dalle onde. Altro che controcorrente"!

Noi vediamo, quindi, un'accelerazione della perestrojka (nonostante o con tutti gli ostacoli che vi si frappongono via via) laddove altri vede, o spera che ci possa essere, una "resistenza anticapita1ista" memore, se non proprio dell'Ottobre, almeno di… Stalin. Una fresca dimostrazione di quest'accelerazione ci è data dalla recente legge sulla proprietà agraria. Al solito, c'è chi vede in essa qualcosa di molto "relativo" e, magari, in controsenso con le aspettative dei puri "liberal". In realtà, essa si fa forzando sotto vari aspetti la "base", se è vero (come appare da una recente inchiesta sociologica) che solo il 20% dei contadini si è dichiarato favorevole ad essa. Come mai?

L'arcano è presto svelato. I contadini sovchoziani e kolchoziani dispongono già di una loro fetta privata in senso stretto (lo stramaledetto pezzetto di terra "in proprio", da cui deriva sino ad un 1/3 della produzione agraria complessiva dell'Urss!) e, insieme, godono (si fa per dire) di un salario assicurato. Attraverso l'organizzazione "collettiva" essi esercitano ogni tipo di pressione sullo Stato per mantenere artificiosamente bassi gli "obblighi" di produzione del "piano", con ciò facendo sì che la (sotto) produzione sia sovraremunerata, incamerando degli utili senza contropartita ed approfittando della penuria per riversare sul libero mercato i prodotti della propria parcella a prezzi speculativi. A decenni di distanza dall'avvio della collettivizzazione forzata, il marxisticamente privato mondo contadino sovietico di dimostra talmente forte da poter imporre le proprie ipoteche tanto sul proletariato urbano (chiamato a finanziare sulla propria pelle questa "rendita di posizione" a scarsissima produttività) quanto sullo Stato (cioè sulla classe dei borghesi, che molto dei piani industriali ha dovuto sacrificare sin qui a causa delle sovvenzioni stornate da essi per colmare i bisogni dell' "arretratezza" agraria).

Il passaggio alla produzione "privata" nel senso di una moderna imprenditorialità costretta a misurarsi "liberamente" sul mercato ridurrebbe drasticamente la possibilità di perseguire per questa via. Vi interverrebbe una compensazione pecuniaria adeguata grazie al maggior volume di merci che si andrebbero a produrre? La risposta è: sì, ma solo per quella ristretta fetta di produttori in grado di investire in macchinari ed altri prodotti industriali, e qui sta il busillis, perché gran parte dei sovragguadagni sin qui realizzati dai contadini più "dinamici" sono probabilmente andati in relativi sovracconsumi e non tanto in risparmio di capitali da reinvestire (sin qui non se ne dava affatto il caso, essendo tale compito scaricato sullo Stato). Le nuove leggi agrarie minacciano, attraverso le misure di privatizzazioni, di rendere più gravoso e insicuro l'insieme del contadiname. Ovvio aspettarsi che un 80% sia riluttante (ed è un'altra dimostrazione della necessità in Urss di un impulso capitalista dall'alto in luogo di una semplice "rappresentazione" delle spinte dal basso - sempre e comunque poste sul terreno di rapporti di produzione capitalistici, ed, anzi: che vi è di più reazionariamente privato dell'attuale struttura produttiva agraria a titolarità "collettiva"?). Altrettanto logico aspettarsi che il rimanente 20% (la quota già non sarebbe male!) andrà a sollecitare dallo Stato i ben noti "contributi all'investimento", che verranno senz'altro, ma in misura assai selettiva, con effetti di disgregazione dello stagnante tessuto precedente di grande portata. Se tutto andrà per il suo verso, fra qualche anno interverranno nuove leggi, a superare le "limitazioni" che, attualmente, stanno nell'ordine delle cose.

Lo spettro del "golpe"

Veniamo qui alla seconda domande postaci: è o no possibile un "golpe" (e da parte di chi?) contro la perestrojka? A suggerire questa eventualità è tanto una certa parte borghese, preoccupata che la marcia ad Est possa non essere una semplice passeggiata arraffatutto per colpa quanto della "destra conservatrice" quanto certa sinistra "rivoluzionaria" che alla fin fine, auspica un ritorno alla chiusura delle "frontiere socialiste" di fronte all'Occidente e di fatto si appresta a sostenere il moto di "resistenza" tardo-ottobrino di eventuali "golpisti".

Che rispondiamo noi? Cominciamo, innanzitutto, col prendere atto che, dopo la sbornia di "democrazia", si impone in Urss, così come in tutti i paesi dell'Est, una stretta dall'alto che valga a disciplinare ad un Il piano" di ristrutturazione (espressione degli interessi generali del capitale nazionale) le infinite spinte e sottospinte "spontanee" che, in modo del tutto caotico e spesso autodistruttivo, promanano dal sottosuolo economico-sociale. Questa "contrapposizione- tra generale e "particulare" è una costante nella storia dello sviluppo capitalistico dell'Urss e, prima, della Russia, oggi avvertibile in maniera parossistica. Si potrebbe poi dire che stiamo già assistendo a "golpismi" di questo tipo in Polonia, Jugoslavia, Ungheria, Cecoslovacchia, Romania… In nessuno di questi paesi il potere borghese può affidarsi al ruolo di semplice "voce" o "rappresentanza" immediata della frastagliatissima ed incoerente massa dei singoli interessi borghesi "di base". Essi vanno, pertanto, disciplinati, così come (e più) va disciplinato… il proletariato, oggetto numero uno delle attenzioni dei Walesa come dei Gorbačev e, aggiungiamo, di eventuali anti-Gorbačev.

Da Bucarest a Varsavia, da Praga a Mosca corre una comune lamentazione: "La democrazia è un lusso che non possiamo permetterci", perlomeno nelle forme "anarchiche" cui sin qui abbiamo dato libero corso. Altra versione: "La democrazia non riempi gli scaffali vuoti dei negozi". Troppo giusto.

L'Est sta vivendo una situazione in cui la generale sollevazione di "tutto il popolo" (ciascun strato per proprie finalità) contro il "sistema socialista" (in realtà autodimissionatosi, magari - come in Romania - per autogolpe) ha esaurito la sua funzione "demolitrice" senza riuscirsi a decantare in una "normale" e "costruttiva" dialettica politica. Sembra che ci si trovi a danzare sopra un mare in tempesta senza che nessuno riesca a governare la nave. Manca una bussola politica? Sì, perché manca ad essa un sicuro Nord verso cui orientarsi.

Come notava Trotzkij in un suo antichissimo scritto, nell'epoca dell'imperialismo la "piena democrazia" -qual è quella che qui stiamo gustandoci-, è appannaggio di un pugno di super-potenze metropolitane e la sua esistenza presuppone la sistematica privazione della democrazia alla periferia in quanto essa è legata alla generalizzata rapina imperialista ai danni non più solo delle colonie, ma di una massa di "liberi" (e capitalistissimi) stati "progrediti": da questa rapina deriva la colata di grasso metropolitano le cui briciole valgono ad assicurare la pace sociale interna (premessa materiale della "normale dialettica democratica"). Non si tratta di un'autonoma "anomalia politica", ma della necessaria rappresentazione politica di un dato strutturale di base. La periferia dell'impero non può godere di uno sviluppo equilibrato ed affluente, con un centro di potere forte attorno al quale "spontaneamente" si ramifichino concordemente (pur nella loro specificità) i vari interessi sociali epperciò politici (sino a comprendervi, transitoriamente s'intende, settori decisivi di proletariato). No. Alla periferia, anche solo per tentare di non farsi schiacciare dalla pressione imperialista, occorre in un certo senso puntare "autocraticamente" alla disciplina dall'alto di tutte le energie disponibili, non potendo affidarsi ad una loro "spontanea" convergenza. Tutto ciò è, per forza di cose, assai poco "democratico"…

Orbene, anche senza fare dell'Urss un'omologa dei paesi della periferia, va rilevato che anche qui vale la stessa regola (e non da oggi: ci torneremo sopra). Per sottrarre il paese alla condizione di paese dipendente, semicoloniale, c'è voluta, addirittura, nel '17, una rivoluzione politicamente proletaria che si assumesse la realizzazione dei compiti economici borghesi di cui la borghesia interna s'era mostrata incapace; rientrata politicamente quella rivoluzione in quanto proletaria, ne è rimasto solidamente in piedi l'aspetto borghese (rivoluzionario in quanto tale). Nel trapasso attuale della perestrojka certamente si "liberano" molte forze sociali precedentemente astrette ai vincoli di ferro del centralismo staliniano anche oltre il "giusto", ma, a parte che il loro sviluppo coincide con una compressione ulteriore del proletariato (il primo e l'unico soggetto ad esser programmaticamente escluso dalla mensa "democratica"), non vi appaiono in alcun modo le condizioni di alcun "laissez faire" politico, foss'anche solo extraproletario.

Tant'è: gli esperti l'ultrademocratici" di Occidente (prendiamo ad esempio sindacalisti ed esponenti politici della sinistra) mettono in guardia contro il caos che vi si produrrebbe per un eccesso incontrollato di… democrazia ed avvertono: se davvero volete che la nostra democrazia, cioè i nostri capitali, vengano a voi, dovrete darvi una regolatina.

In questo quadro va considerata la tendenza "autoritaria" dei vari presidenzialismi ad Est e la funzione di supporto ad essi che si apprestano ad offrire gli strumenti dell' "ordine" (a cominciare dall'Esercito). Valga l'esempio jugoslavo del binomio Markovic-Armata Popolare: il primo stabilisce le condizioni tassative della "riforma" al di sopra di partiti e partitini lasciati poi ad azzannarsi attorno all'osso; il secondo assicura (fin quando può…) che questi ultimi, e i differenti strati sociali e nazionalità da essi rappresentati, non portino alla disgregazione del sistema. In Romania si stan vedendo le stesse cose. In Polonia non si preannunzia nulla di diverso. Il massimo di democrazia borghese compatibile con la situazione reale sta entro questi termini.

Un "golpe" militare potrebbe anche darsi ove il presidenzialismo civile si dimostrasse incapace. Il problema, però, non è se un "golpe" di questo genere può esserci, ma a quali funzioni esso assolverebbe. Noi diciamo: esso starebbe al servizio di un' "ordinata perestrojka", al servizio di un "ordinato corso borghese". Il generale Jaruzelski questo ha fatto, ben lungi dal rappresentare un "ritorno allo stalinismo" . Può darsi che anche il regime inaugurato da "Solidarnosc" abbia bisogno di qualche generale. Può darsi che ne spunti fuori il bisogno anche in Urss.

Non siamo in grado di sciogliere quest'ultimo enigma. Tutto dipende da una somma molteplice di fattori, in primis quelli internazionali "fuori dall'Urss" (sempre bene tenerlo a mente!). Possiamo, allo stato attuale, solo dire che chi ha iniziato la perestrojka non sarà quegli che la porterà a-termine. Il congegno della perestrojka ha messo in moto forze spinte a superare il quadro di partenza. Ammesso che non debba farsi luogo una "transizione" militare ' resta il fatto che la scena politica dovrà esser gestita con "rigore" e senza troppo indulgere ai "formalismi democratici". Quale il soggetto di tale potere? Un "pool" di "responsabili" di grandi imprese, una media borghesia vitalmente legato allo Stato, i settori trainanti della nuova imprenditoria agraria, la ramificata rete dei "tagliatori di cedole", quadri dell'amministrazione civile e dell'esercito ben inseriti in una nuova, dinamica funzione di "servitori dello Stato"... il tutto con epicentro regionale l'area grande-russa. Per i nomi dei "capi" si vedrà: al momento va bene al timone Gorbačev, ma chi non vede che la sua posizione di comando segue le oscillazioni, in positivo e in negativo, del blocco sociale da cui dipende, cioè - essenzialmente - dalla sua capacità o meno di crescere, definirsi, imporsi sul terreno economico-sociale?

Ubi sunt leones? Dove sta il proletariato!

Ritorniamo, in chiusa, al quesito per noi centrale: in queste vicende quale ruolo sta giocando o potrà giocare il proletariato sovietico? Avvertiamo chiaramente un dubbio: non è che l'Oci sia stata troppo ottimista nel prevederne una risoluta scesa in o, meglio ancora: è proprio campo. sicuro che il proletariato, senz'altre aggiunte, sia in grado di sciogliere da protagonista i nodi sul tappeto?

Teniamoci al dubbio più vicino, rimandando per il secondo semplicemente all'insieme intangibile della dottrina marxista (prendere o lasciare!), e pazienza se i suoi teoremi non saranno perspicui per chi si fa affascinare dalle "controprove" dell' "attualità" presente.

Noi non abbiamo mai inclinato ai facili trionfalismi "di classe" (tipici di coloro che hanno steso l'equazione: cade la menzogna del falso socialismo - si apre quindi immediatamente il ristabilimento del socialismo vero con tanto di rivoluzione proletaria all'orizzonte immediato). Anzi, abbiamo sempre sostenuto che, dato l'insieme della situazione interna ed internazionale presente (e quella "passata" che tuttora grava su di essa), il proletariato sovietico è in qualche modo destinato a "transitare" attraverso la perestrojka prima - e per potersi fare le ossa "in proprio", tanto che un lettore ci ha manifestato il sospetto che noi lo "inviteremmo" ad appoggiare Gorbačev (!!!).

Togliamo di mezzo l'equivoco: nel nostro programma sono incise le parole d'ordine del socialismo e della dittatura del proletariato, non già dell'appoggio o dell' "alleanza tattica" con questa o quella corrente borghese e certamente non poniamo limiti alla Provvidenza, che ringrazieremmo vivamente ove ci offrisse come attuale la possibilità di una "scelta" rivoluzionaria immediata da parte del proletariato. Ma, dato che siamo provvisti di buon senso materialistico, constatiamo che non di questo si tratta per l'oggi, bensì della precostituzione delle basi soggettive della rivoluzione a venire a partire da "modeste" lotte parziali, di "resistenza".

Questo trapasso si dà nelle condizioni peggiori: il proletariato sovietico è rimasto per decenni isolato da quello occidentale (ed entrambi sono stati isolati... rispetto al comunismo); cresciuto all'ombra di un "socialismo reale- che lo ha promosso socialmente nei confronti della precedente situazione semi-feudale, contemporaneamente sottomettendolo ad una feroce dittatura di classe anti-operaia; è stato il motore della rivoluzione borghese in Urss (sotto Stalin non solo in forza dello knut, ma, in qualche modo, anche da compartecipe attivo), a prezzo della perdita della Il capacità politica" rivoluzionaria in proprio, che aveva manifestato con l'Ottobre; nel frattempo, chi ha potuto "crescere" politicamente (oltre che economicamente e socialmente, va da sé) è stata una giovane arrembante borghesia (coi corollario di un immenso strame di sottoborghesia); quest'ultima è stata in grado di "dimostrare" ad esso che l'unica via d'uscita dall'oppressione "su tutta la società" del "socialismo reale" è il capitalismo tout azimouth. (Quello che mai potrà fare è riversare su di esso le delizie della società borghese di cui godono le classi sfruttatrici, e da qui riparte la necessità della lotta di classe, della separazione politica del proletariato dall'indistinto del "popolo").

Il conflitto di classe s'innalza ad un gradino più alto e decisivo da qui. E' molto (l'essenziale) per i destini futuri; non sufficiente a determinare l'immediata attualità del "costituirsi del proletariato in partito rivoluzionario" dall'oggi al domani. I tempi potrebbero essere tagliati di netto ove il proletariato occidentale spezzasse con decisione le catene che lo legano al "proprio" imperialismo e si rivolgesse ad esso come al fratello di una comune battaglia anti-capitalista. Od anche (l'altra faccia di una stessa medaglia): ove fossero agenti, ad Est e ad Ovest, avanguardie comuniste in grado di tradurre in pratica il programma rivoluzionario anziché proporre insensate "difese delle acquisizioni dell'Ottobre" (leggi: dello stalinismo) o, come fanno i Kagarlitzkij in Urss, vuoti gusci "autogestionari" tardo-titoisti. E precisamente quel che oggi ci manca. Ed è altrettanto evidente che solo una grande crisi* generalizzata dell'intiero sistema capitalista mondiale potrà riagitare e vivificare le acque melmose del presente. Una crisi già attualmente in incubazione e forse non troppo lontana dall'esplodere. Quel che oggi a noi s'impone è precisamente di cogliere i passaggi reali che potenzialmente vanno nel senso del risultato rivoluzionario e fare di essi la nostra scuola di guerra.

L'ultimo numero di Bandiera Rossa (8/9, novembre-dicembre '90) offre un quadro realistico dell'attuale situazione di crescita infrauterina del proletariato sovietico, con tutti i suoi aspetti "prepolitici", come altra volta li abbiamo definiti (il che equivale non a "senza politica", ma ideologicamente sottomessi ad una "politica altra").

"Nell'officina Togliatti si è tenuta una riunione di circa 40 collettivi di lavoratori di grandi aziende: la risoluzione che ne è uscita protesta contro la legge del giugno '90 che restringe i poteri dei collettivi a vantaggio di quelli dei direttori. L'aspirazione a un controllo del processo di "destatalizzazione" si manifesterà con reazioni operaie di questo genere per semplici ragioni di autodifesa". (Giustissimo se si dice: gli operai hanno in testa il mercato e le sue virtù "come i borghesi", ma non possono viverlo come essi; dai suoi effetti devono autodefinirsi e pensano, magari di poterlo fare "controllandolo" come se essi potessero esserne i "padroni", mettendosi "paritariamente" a fianco dei borghesi o al posto di essi: un aborto ideologico, ma anche la divaricazione di classe che dovrà spazzarlo via).

Ancora. "Manca un progetto coerente alternativo", annota Bandiera Rossa, ed annota amaramente che "i sindacati americani non hanno esitato a mandare in Urss rappresentanti permanenti e a invitare delegazioni di minatori negli Usa", i quali ultimi "al ritorno, hanno vantato i meriti del capitalismo". Conclusione: "La mostruosità dell'apparato burocratico e dei suoi disastri porta i lavoratori a pretendere una decentralizzazione del mercato -pronti a reagire in seguito pragmaticamente contro i suoi effetti". In questo quadro "emergono processi molecolari di ricostituzione di alcune solidarietà e di resistenza antiburocratica ed anticapitalista" che costituiscono "un punto d'appoggio per ricostituire dal basso la coerenza di un socialismo degno di questo nome".

Potremmo sottoscrivere la pittata se non fosse per due "insignificanti" particolari: a) la ricostruzione "dal basso" postula un piano dall'alto, dal "di fuori" (Lenin, Che Fare?), non avendo il "socialismo degno di questo nome" nulla a che fare con una semplice "autogestione democratica" dell'esistente da parte del proletariato, bensì con una vera e propria rivoluzione (politica in quanto sociale) che non si dà come risultato ultimo del processo spontaneo di "difesa"; b) ancor meno un tale risultato è isolabile nel quadro dei "rapporti interni" dell'Urss, ma implica la rimessa in moto dell'insieme del proletariato internazionale; l' "autarchia" proletaria sovietica predicata dai "trotzkisti" altro non è che una riedizione del "socialismo in un solo paese" di staliniana memoria.

Detto questo, prendiamo pur atto che il proletariato costituisce in Urss una contraddizione oggettiva della società (non da oggi né dal '53 o dal '36), che questa contraddizione si sta traducendo in iniziali dati soggettivi, che - quindi - un "punto d'appoggio" già c'è (manca, semmai, la… leva).

Una "variante" alla perestrojka

Serrando le fila del discorso, riassumiamo: il corso capitalista dell'Urss è inarrestabile, sino almeno a quando non giunga a spezzarlo la rivoluzione internazionale (a Mosca, ma assai più in Occidente). Il problema è: coincide esso obbligatoriamente coi modi attuali della perestrojka? La nostra risposta è: no.

Abbiamo insistito sul fatto che lo sviluppo della perestrojka gorbacioviana (o post-gorbacioviana) dipende innanzitutto da uno stato di "pacifica" espansività del capitalismo metropolitano. Qui sta il punto: a "bloccare" la perestrojka sono, ancor prima che le difficoltà interne all'Urss, quelle del capitalismo occidentale e del sistema capitalistico mondiale nel suo insieme. L'invasione occidentale ad Est presenta conti sempre più alti e promette sempre minori vantaggi al "fratello sovietico". Non appare all'orizzonte una dilatazione "progressiva" di spazi propri del ciclo di diffusione rivoluzionaria del capitalismo, ma lo spettro di una "colonizzazione" selvaggia, di uno "sviluppo" estremamente squilibrato e ad isole accanto alla rovina di interi strati della società sovietica ed a fenomeni, accanto ad esso, di putrefazione.

Contro questo fenomeno l'Urss è portata a reagire (s'intenda subito e per bene: a reagire in quanto stato capitalista). E proprio il direttorio borghese dell'Urss ad intendere, in accordo coi suoi interessi di classe, che si sta pagando troppo per un pugno di mosche: dissolvimento della cintura di sicurezza dei paesi dell'Est, fine del Comecon e del Patto di Varsavia, emarginazione e subordinazione in politica estera a servizio degli appetiti Usa (vedi Medio Oriente) ecc. ecc. Ed à quoi bon? Dove sono gli apporti occidentali in tecnologia sofisticata? Dov'è andato a finire il "piano Marshall" per l'Urss? Gli stessi "aiuti alimentari" (ad ipoteca) che ruolo finiranno per giocare su questa strada? Che ne sarà ad una prossima tornata? E intanto quel che resta dell' "impero" si sta disfacendo al suo interno, essendo fatte mancare le redini con cui imbrigliare le spinte centrifughe. Ecc. ecc.

Da ciò potrebbe derivare, ad un certo punto, una "riconversione" dell'Urss, cui sono state fatte balenare le delizie del "libero mercato" (imperialista) senza fargliene in alcun modo assaporare alcuna. Attenzione, però! Non si tratterebbe, in questo caso, di una controevoluzione "sovietica" (men che mai dai connotati "proletari" come sognano certi tali disposti ad affidare la politica "proletaria" ai capoccioni, civili e militari, borghesi), bensì di un generale "incasinamento" dell'insieme degli equilibri imperialisti mondiali. Potrebbe bene la borghesia sovietica, stretta alla gola, prendere di nuovo in mano le insegne di una riedizione di motivi "anti-imperialistici" a tutela del proprio spazio borghese ed, a tal fine, concludere nuovi patti statuali con i paesi "dominati e controllati" dall'imperialismo che oggi sembra aver buttato a mare. Si tratterebbe non di un ritorno alle posizioni di classe (bruciate da quel dì), ma della riedizione, riveduta e corretta, della vecchia consegna mussoliniana invocante la lotta degli "stati proletari" contro il blocco delle "potenze plutocratiche". Le giustificazioni certo non mancherebbero (non mancavano neppure a Mussolini): l'Occidente è il reale schiavizzatore del mondo, l'idra imperialista che tutto stritola nel suo abbraccio mortale.

Che potrebbe succedere a questo ipotetico - ed in ogni caso ancor lontano - svolto? Ai "riconvertiti" di Mosca sarebbe necessario colorare di rosso la propria causa per trascinarvi dietro il proletariato ed è facile pensare che un appello "internazionalista" sarebbe lanciato al proletariato degli altri paesi, dell'Occidente nemico in particolare. Restando programmaticamente esclusa per noi ogni indulgenza verso difese, più o meno in/condizionate, dell'Urss (nulla essendovi più là da difendere), avanziamo forti dubbi sulla possibilità che a quest'amo possano tranquillamente abboccare tanto i proletari sovietici che quelli degli altri paesi. Perché? Perché all'epoca dello stalinismo restava ancor vivo il legame tra lotta antiborghese in tutta Europa, "Internazionale" dei partiti "comunisti", "patria del socialismo". Lo stesso stalinismo si trascinava materialmente dietro, nonostante tutto, il "ricordo", e qualcosa di più del ricordo, dell'Ottobre e, proprio per promuovere la costruzione di un moderno capitalismo in Urss, doveva muovere - in Urss e dovunque - le armate del proletariato contro le pressioni dell'imperialismo nonché la rivolta dei popoli oppressi.

Questa mostruosa congiunzione contronatura è venuta via via meno, man mano che l'Urss veniva a definirsi come potenza borghese e si ingigantivano in esso i motivi di insofferenza,da parte dei vari strati della classe dominante nei confronti della "massa plebea" che le aveva rivoluzionarmente aperto la strada nella "fase eroica" di costruzione del capitalismo in questione. Al tempo stesso, si è liquefatto il cemento che teneva unito al Partito-Stato "sovietico" i partiti comunisti degli altri paesi, man mano che questi, rispettando la consegna delle "vie nazionali al socialismo", hanno finito per legarsi ai destini delle "proprie" patrie, delle "proprie" borghesie, sino -oggi a sciogliersi definitivamente nella socialdemocrazia classica o, addirittura, nel puro liberalismo "di sinistra" ultra-nazionalista.

Non sono fratture ricomponibili. Non lo sono per la semplice ragione (a parte la soluzione di continuità che sì è determinata), che ogni e qualsiasi "sinistrismo anti-imperialista" ed ogni verniciatura "proletaria" da parte delle classi e degli stati borghesi non può andar disgiunta (l'esperienza mussoliniana lo insegna) dalla più spietata compressione, economica sociale e politica, del proprio proletariato e la sua riduzione a pura "carne da macello" tanto sui luoghi di pace della produzione quanto su quelli delle armi: e questa è precisamente la realtà "sovietica".

Quanto all'Occidente, il profilarsi di una crisi catastrofica del sistema, recidendo le basi materiali della "solidarietà relativa tra proletariato e "propria" borghesia, ridarebbe attualità alla prospettiva rivoluzionaria, internazionalista, con minori possibilità di veder questa deviata da forze quali furono e poterono essere in passato i classici partiti stalinisti e, dietro di essi, la "patria del socialismo" russa.

Le ragioni (autentiche) del risentimento anti-imperialista da parte del proletariato sovietico non metterebbero automaticamente capo ad una ritrovata "union sacrée" dietro le bandiere della patria borghese ("socialista"?, non più di tanto ormai neppure nel lessico); al contrario potrebbero confondersi con la scatenamento di un'acutissima guerra di classe interna. Sono lontani i tempi e le condizioni che, nel corso della seconda guerra mondiale, permisero l'intruppamento, in massima parte volontario, dei proletari dell'Urss nella "grande guerra patriottica". Quel ciclo storico si è definitivamente consumato.

Dopo di aver goduto dei progressi della perestrojka, in quanto fattore di tendenziale ricomposizione del fronte proletario internazionale (al contrario di chi, come Lutte Ouvrière preferirebbe che i conflitti di classe in Urss si svolgessero in quel "paese solo"…), potremmo godere anche di più di un "blocco" della perestrojka che significasse blocco da ed in Occidente, in primo luogo, del sistema capitalista mondiale perché, a questo punto, il nostro fronte avrebbe delle chanches decisive per passare di nuovo all'offensiva.

Si tratta, naturalmente, di possibilità e non di "garanzie" a priori, restando la loro realizzazione in positivo vincolata ad una somma di fattori (e, purtroppo, considerando il punto cruciale di questo, dobbiamo prender atto che il corso delle contraddizioni oggettive sta per ora infinitamente più avanti della soggettività, oggi). Non siamo poi così ingenui dal non mettere in conto che, frantumatosi uno specchio per le allodole, dei nuovi possono essere messi al suo posto a servizio della borghesia (si pensi soltanto all'iper-patriottismo spinto sino allo sciovinismo polacco e persino a certi toni demagogici di "nazionalismo anti-imperialista" che di tanto in tanto vi affiorano sotto l'ala protettrice non più del" comunismo", ma del walesismo o a quanto di analogo appare in Serbia, combinato con la rissosità interna tra "nazionalità" in nome dell' "unità federale" e per il predominio su di essa; in Urss non è da escludere l'esplosione di un grande-russismo "imperiale" di ritorno di tipo ultra-miloseviciano, ovviamente con ben altre conseguenze pratiche a grande scala…; e ciò per limitarci ad un solo aspetto della questione).

Noi possiamo unicamente stabilire che, in presenza di una reazione all' "aggressione dell'Occidente" da parte del proletariato sovietico spetta ancora una volta la parola decisiva al proletariato delle nostre metropoli: il posizionarsi di questi sul terreno di classe contro la borghesia dei propri stati ("il nemico numero uno") incoraggerebbe la lotta simultanea del proletariato sovietico contro il duplice cappio della propria borghesia e di quella imperialista internazionale. Senza di ciò si potrebbero aprire sinistre contro-eventualità.

Abbiamo voluto disegnare anche questa "variante" non perché la pensiamo prossimissima, ma ad evitare una visione "linearista" degli svolgimenti attuali (il che equivarrebbe ad ammettere una capacità di tranquilla tenuta del capitalismo internazionale al riparo da contraddizioni e crisi per un indefinito pezzo di strada ancora).

Questa "variante" rientra, però, nell'ambito delle costanti del corso capitalista e delle leggi che presiedono ad esso: il non saper cogliere l'una con le altre può esporre a brutti scherzi di deformazione ottica…

Detto questo, restiamo dell'avviso che, al presente, valga come ipotesi più verosimile quella di un accentuato sforzo congiunto dell'Occidente e dell'Est di tendersi la mano, di venire in soccorso l'uno all'altro, ben sapendo che "mors tua, mors mea". Questo sforzo comporta uno scarico ulteriore dei pesi della "pax" Est-Ovest sul cosiddetto "terzo mondo", di cui s'impone per entrambi (nella diversità di ruoli e di ricavi) il disciplinamento assoluto, ma è altrettanto certo che dal "Sud del mondo" verrà una risposta tale da ipotecare programmi del genere. Ancora: questo sforzo comporta non una crescente solidarietà all'interno del blocco imperialista, ma l'attizzarsi in esso delle più feroci contese. E, infine, comporta non una ritrovata pace sociale entro i confini di ogni singolo stato, ma l'accentuarsi delle divaricazioni e dello scontro di classe, dal momento che un'ulteriore spremitura ed un ulteriore disciplinamento del proletariato è necessaria al capitalismo in crisi.

Lo stato di "pax" è, dunque, stato di guerra incipiente. Se credessimo nella provvidenza, la pregheremmo di darci ancora un po' di tempo di "pax" per permetterci di riarrotare le armi.