Mentre a Mogadiscio infuriava la guerra civile contro il regime (interamente dipendente da Roma) di Siad Barre e sulla città si allungavano le sinistre ombre delle epidemie e di una tremenda fame, De Michelis dichiarava che per il governo italiano "non esiste un caso Somalia". Infatti, per le cancellerie imperialiste non è mai stato un problema l'immane carico di orrori che la loro opera di "civilizzazione" ha addossato alle masse di colore. Né lo è mai stato per la "diversa" Italia, sotto qualunque bandiera essa abbia marciato nel suo brigantesco assalto all'Africa, si trattasse del colonialismo crispino o di quello "nazionale e proletario" di inizio '900, della mussoliniana prospettiva dell'impero o della democratica "cooperazione allo sviluppo" dei paesi dominati, la più infame tra tutte le insegne perché la più mistificante.
In realtà, il "caso" dello sfruttamento e dell'oppressione delle popolazioni somale da parte del "nostro" (e di altri) capitalismi esiste (a prescindere dalle incursioni portoghesi) da oltre un secolo. Da quando, cioè, a seguito dell'apertura del canale di Suez, è cominciata la penetrazione delle potenze europee su entrambi i versanti, africano ed arabo, del Mar Rosso e la guerra senza esclusione di colpi tra di esse per il suo controllo Da allora, gli sfruttati ed ì popoli del Corno d'Africa hanno saggiato sulla propria viva carne il vero significato della "amicizia", della "sollecitudine" e dell' "aiuto" dell'imperialismo della "brava gente". Ed è allora che si sono a più riprese sollevati contro di esso per liberarsi dal suo giogo.
Dispotici vincoli di spazio e di tempo ci impediscono di gettare uno sguardo, come meriterebbe fare per comprendere le lontane radici dei recenti avvenimenti, sull'intera storia di questa spietata dominazione e delle lotte condotte dalle popolazioni autoctone contro di essa (e contro il colonialismo britannico e francese). Per inquadrare un minimo lo scontro degli ultimi mesi, è però indispensabile considerare se non altro cosa ha rappresentato per la Somalia la "rivoluzione" del '69 e perché è naufragata nell'arco di pochi anni.
Con il colpo di stato militare dell'ottobre '69 la Somalia è entrata a far parte del moto rivoluzionario anticoloniale afro-asiatico nell'unico modo che le era possibile: "dall'alto" e per mezzo dell'intervento dell'esercito. Esso rispondeva ad un'esigenza storica reale, quella di unificare le genti somale, etnicamente omogenee ma frammentate da strutture claniche ancora forti, in grande maggioranza nomadi e dedite alla pastorizia, in una sola entità che fosse, quanto a circuito economico ed organizzazione statale, effettivamente nazionale. Gli autori del pronunciamento "rivoluzionario" mostrarono una crescente consapevolezza del fatto che "l'arretratezza della Somalia era il risultato di una annosa politica dell'imperialismo" (così scriveva Barre sulla Pravda del 3 marzo 1976), e per questo trovarono naturale appellarsi, come a condizione determinante per il proprio "sviluppo indipendente", ai paesi "socialisti" ed alla "collaborazione di classe del proletariato internazionale e di tutte le forze progressiste".
I marxisti non possono, naturalmente, prendere per buone le proclamazioni di "socialismo" del Consiglio rivoluzionario somalo, ma neppure possono tacere sul suo carattere rivoluzionario, in senso borghese s'intende, rispetto al predominante tribalismo da un lato ed all'oppressione imperialista dall'altro. Nazionalizzare le banche, le fabbriche e le aziende straniere, promuovere la sedentarizzazione dei nomadi, avviare la "intensificazione " (da livelli infimi) dell'agricoltura ed i primi passi per la costituzione di una base industriale, darsi l'obiettivo di estirpare 1 analfabetismo, costituivano altrettanti passi nella direzione di un embrione di capitalismo somalo e dell'accentramento (ad esso finalizzato) delle poche risorse disponibili in una sorta di fondo nazionale di accumulazione capitalistica primitiva, sottratto alla dispersione tribale ed al saccheggio imperialista, e posto nelle mani dello stato somalo. Nel contempo, le "masse del popolo" venivano mobilitate in sostegno della "rivoluzione" e facevano così la loro prima vera esperienza politica moderna (gli 81 "partiti" formatisi nel periodo dell'amministrazione fiduciaria italiana, infatti, non erano altro, eccettuata in parte la Lega dei giovani somali, che aggregati cabilici travestiti).
Non staremo a dire quanto fragile fosse, non secondariamente per il retaggio del colonialismo italiano (fatto di divisioni accortamente attizzate a scopo di vassallaggio pro-imperialista, da un lato, e di assai poco remunerativa monocultura bananiera dall'altro), questo piano di costruzione "popolare" dei rapporti sociali borghesi che in Somalia. E tuttavia, nonostante l'ingenuità e la demagogia che contraddistinguevano la sua direzione, le cause principali della sua bancarotta non sono da addebitare tanto alla evidente inconsistenza della sotto-borghesia "socialista" di quel paese, quanto all'azione di sabotaggio dell' "indipendenza" somala svolta da tutte le grandi potenze capitalistiche interessate al Corno d'Africa.
E' stata in particolare la detronizzazione in Etiopia del regime di Haile Selassie per mano dell'insurrezione popolare del 1974 a suonare per l'Occidente un segnale d'allarme per il futuro della regione, che è diventato massimo allorquando, nel marzo 1977, l'Urss lanciò il progetto di una "federazione anti-imperialista" tra Etiopia, Somalia, Yemen del Sud e Gibuti (alla vigilia dell'indipendenza). Per l'Europa e l'Occidente il rischio più grave era, oltre alla perdita dei mercati ed al temuto consolidamento della nuove nazioni "rivoluzionarie", quello di veder cadere sotto controllo "sovietico" entrambe le sponde di quel passaggio strategico di importanza mondiale che è il Golfo di Aden. Da qui lo scatenamento di una crociata volta ad un tempo a sbarrare il passo all'Urss ed a minare la possibilità di un affratellamento "anti-imperialista" di tutti i popoli del Corno d'Africa. Il "divide et impera" dei progenitori romani è rimasta una regola chiave anche della politica e della diplomazia del capitale finanziario. La questione dell'Ogaden, una regione abitata da genti somale che proditoriamente l'Italia assegnò nel 1908 all'Etiopia, è stata la miccia che ha fatto saltare in aria non soltanto il progetto di federazione accarezzato dall'Urss ma anche la "rivoluzione" somala. Davanti al sostegno russo-cubano all'Etiopia, preferita da questi due paesi "socialisti" per borghesissime ragioni di calcolo economico, la Somalia, venuto meno lo sperato appoggio "socialista", rimaneva completamente esposta, tanto più in un contesto di complessivo sfaldamento del moto pan-africanista, ad essere risucchiata e stritolata nelle spire dell'imperialismo, come in effetti è accaduto.
Roma, che mai aveva interrotto le relazioni con la Somalia "filo-russa", si precipitò ad occupare il vuoto venutosi a creare. Per Roma bisogna intendere, essendo negli anni dell' "unità nazionale", tanto il governo ufficiale, quanto quello "ombra" del Pci quasi perfettamente convergenti, per ammissione dello stesso Pajetta, nel "lavorare" per ricostituire nell'area, riprendendo in termini "democratici" il programma fascista dell'Africa Orientale italiana, una "nostra" esclusiva sfera di influenza.
Si deve a questo revanscismo imperialista il massiccio incremento di "aiuti" alla Somalia che, come diciamo qui accanto, altro non è stato se non di sostegno alla "nostra" rapina in quel paese (cui il capitalismo italiano ha sottratto per quattro lire banane e pelli, aromi e pesce, carne e corallo) ed all'impiantamento in esso di una "nostra" stabile presenza economica e soprattutto militare.
Ma l'instabilità del Golfo Persico dopo la "rivoluzione iraniana" e la completa (o quasi) ritirata dell'Urss dal Corno d'Africa ha alimentato gli appetiti verso quest'arca dei tradizionali concorrenti, Gran Bretagna, Francia e Germania, contro le cui "interferenze" in Somalia si è scagliato (senza nominarle) il Psi.
Le conseguenze di questo ritorno in forze in Somalia della vecchia potenza coloniale sono sotto gli occhi di tutti: il blocco totale di ogni aspetto dell'originario programma "rivoluzionario", il continuo declino dell'economia, l'estendersi del cerchio della fame, la decomposizione di ogni struttura potenzialmente nazionale, la riaccensione e l'esasperazione dei conflitti a sfondo tribale, una politica di massacri e di spietata repressione di ogni forma di protesta da parte del "governo" somalo asservito all'Italia e sempre più ridotto (magia della corruzione imperialista) al solo clan dei Barre. Con sordido cinismo, De Michelis, per conto del grande capitale beneficiario esclusivo di essa, ha definito la politica italiana verso la Somalia "necessaria, obbligata, giusta", scaricando le responsabilità della drammatica regressione su non meglio definiti "paesi stranieri".
Ma noi preferiamo questo cinismo che non si preoccupa di celare l'assoluto disprezzo dei gangster imperialisti nei confronti dei più elementari bisogni degli sfruttati della "periferia", alle "critiche" di "cecità" e di "miopia" che il Pci ed una certa altra "sinistra" ha rivolto al governo per non essersi accorto (figurarsi!) che foraggiava un dittatore e un assassino, per avere effettuato "una scriteriata (!) vendita di armi", per avere "sprecato" (?!) gli "aiuti", con il risultato - è questo il punto! - di logorare "il nostro capitale di fiducia" in Somalia e fuori. Questa critica "democratica" dell'imperialismo, che non ha avuto una sola parola da dire contro il soffocamento del pur embrionalissimo processo di "indipendenza nazionale" della Somalia, delle finalità di fondo della penetrazione del capitalismo di casa "nostra" nel Corno d'Africa (e ovunque) condivide tutto l'essenziale: è di non 1ogorare il nostro capitale" (il "di fiducia" è pleonastico) che si preoccupa, e pertanto raccomanda vendite di armi fatte con criterio, investimenti produttivi a massimo ritorno ("per noi") "scelta" nel mondo di "amici" degni di quella democrazia dalle "mani nette" che è l'Italia post-fascista… Imperialismo sì anzi (chiede una redattrice de l'Unità) "maggiore ingerenza" nei paesi "a noi" sottoposti, ma pulito… come puliti sono i due maggiori partiti di governo della "nostra" democrazia, quello di Andreotti-Gava e quello di Craxi-Teardo.
La solidarietà incondizionata dei comunisti con le masse sfruttate di Somalia e del Corno d'Africa passa, invece, anzitutto per la denunzia inequivoca dell'imperialismo italiano e del sistema imperialista tutto intero come la causa prima e fondamentale, che va tagliata alla radice, dell'oppressione del popolo somalo, come di quelli di Etiopia e di Eritrea. L'insorgenza armata e la lotta per il rovesciamento del degenerato regime del clan di Barre, braccio armato del "nostro" capitale, è e sarà un passo nel senso della liberazione nazionale e sociale degli sfruttati proprio a misura che saprà risalire, nel suo odio e con i suoi colpi, dal mandato al mandante, dal servo (in parte già scaricato) al padrone (determinato più che mai a restare al posto di comando) e saprà rilanciare il grido dell'insurrezione anti-imperialista a tutta l'area. E per questo che, pur solidarizzando in pieno con le masse in rivolta, l'Oci non cauziona in alcun modo i rappresentanti ufficiali della "opposizione somala", che paiono già ora inclini a farsi irretire nelle maglie dei ricatti e delle "aperture" del governo italiano e complici (se non altro) del regresso verso la frammentazione clanica delle masse oppresse di Somalia. Altre è la guida che queste attendono: è la direzione di un proletariato metropolitano tornato finalmente in campo per i propri storici interessi e perciò capace di chiamare a raccolta per la guerra rivoluzionaria contro il capitalismo mondiale le sterminate masse di diseredati dei continenti di colore che aspettano questo "giorno" con il sangue agli occhi.