Riforme istituzionali

LA BORGHESIA RISTRUTTURA IL PROPRIO STATO IN SENSO ANCOR PIÙ TOTALITARIO


Indice


Da qualche tempo la borghesia italiana va dichiarando che le proprie istituzioni politiche sono in crisi ed abbisognano perciò di una profonda ristrutturazione. Negli ultimi mesi, poi, questo motivo è divenuto addirittura martellante. A fine anno la grande stampa ha dato l'addio alla "prima repubblica", considerata unanimemente al tramonto. Oramai tutti i partiti parlamentari fanno a gara nel presentare progetti di riforma del "sistema politico". Le forze più scalpitanti dello schieramento borghese invocano, a questo scopo, il ricorso a misure e metodi "straordinari". E un'estremissima frazione di esse, se certi "oscuri" segnali con epicentro su Bologna non ci ingannano, si è già messa all'opera in questa direzione.

Quando si tratta della politica di "casa nostra", c'è sempre una buona tara da fare, data l'arlecchinesca teatralità ed il doppiogiochismo dei suoi "protagonisti". Tuttavia la questione sul tappeto è seria: è la questione della riorganizzazione ancor più centralizzata della macchina statale capitalistica. E per i comunisti è indispensabile affrontarla, chiedendosi: a cosa è dovuta tanta frenesia riformatrice della classe dominante? Quali sono, al di là delle molteplici e confliggenti proposte in campo, gli obiettivi comuni delle riforme istituzionali poste all'ordine del giorno? Ed infine: cosa hanno da dire e da fare la classe operaia ed i lavoratori, direttamente chiamati in causa, a difesa dei propri autonomi interessi di classe?


La "prima repubblica" ha svolto efficacemente il suo compito anti-proletario...

Sgombriamo subito il terreno da un possibile equivoco: se la borghesia si prepara a modificare l'ordinamento della sua "prima repubblica", non è perché questa abbia, ai suoi occhi, demeritato. Essa, al contrario, ha pienamente adempiuto il suo compiuto storico, che consisteva nell'assicurare, dopo la caduta del fascismo, la continuità ed il rafforzamento dello sfruttamento capitalistico e dello stato borghese. In realtà, è proprio per effetto di questo successo che il capitalismo "nazionale" (di una nazione che ha consolidato la propria posizione nella gerarchia imperialista, riscattandosi dal rango di "nazione proletaria") può ora proporsi nuovi e più ambiziosi traguardi, nella lotta a coltello per la ri-spartizione del mercato mondiale. Ed è, a sua volta, proprio per disciplinare in modo ferreo al conseguimento di tali traguardi tanto il lavoro salariato quanto tutti gli aspetti della vita sociale, la borghesia ha necessità di forgiarsi "nuovi" e più totalitari strumenti politici.

L'esperienza di quasi mezzo secolo di repubblica "nata dalla resistenza" ha, quindi, confermato in toto la valutazione che il marxismo rivoluzionario diede sulla sua natura di classe all'atto stesso della sua nascita. Non è tempo perso, crediamo, ritornarci sopra un momento, dacché, al fondo, l'ordine dei problemi non è mutato.

Lo stalinismo trionfante celebrò le nuove istituzioni "antifasciste" e la loro carta costituzionale come una "grande conquista della classe operaia e del popolo". Costituivano, a suo dire, il primo passo di quella che all'VIII Congresso del Pci Togliatti, sulla scia di un trentennio di degenerazione del "movimento comunista internazionale", presentò come "una avanzata verso il socialismo nelle forme della legalità democratica e anche parlamentare". I marxisti rivoluzionari, invece, salutarono l'avvento dell' "era repubblicana" con le seguenti parole: "abbasso la repubblica borghese, abbasso la sua costituzione". Questa posizione del nostro partito (usiamo il termine nel suo senso storico, evidentemente, e non riferendoci ad una insussistente continuità formale) non discendeva né da "settario" dottrinarismo, né da presunto "pessimismo" circa le potenzialità rivoluzionarie del proletariato; derivava, bensì dall'apprezzamento materialista e classista delle caratteristiche di classe borghesi della repubblica, della successione storica delle forme politiche dell'ordinamento borghese (a cui si legava la previsione sul corso obbligato della nascente repubblica democratica), nonché dalla certezza che per la classe operaia sarebbe stato disastroso subordinarsi, per il tramite dell'inganno democratico, alla ricostruzione del "proprio" capitalismo come "classe nazionale".

Quanto affermato allora vale perfettamente, ed a maggior ragione, anche oggi a demolire la riproposizione (in sedicesimo) della prospettiva togliattiana da parte, per esempio, dei cosiddetti "comunisti democratici". Questa la tesi marxista: la consegna dello stalinismo, internazionale e italiano, di sostituire ai fascismo una "vera" democrazia borghese, era illusoria, (essa sì) disfattista e controrivoluzionaria. Illusoria perché il mondo capitalistico, da quanto è entrato nella sua fase imperialista, non può più organizzarsi in quelle "forme liberali" che appartengono all'epoca, definitivamente conchiusa, dei suoi giovanili ardori anti-feudali; "per tutto il tempo della sua sopravvivenza", esso sarà, viceversa, "sempre più incardinato su mostruose unità statali, spietata espressione della concentrazione economica del padronato, e sempre più armata di una polizia repressiva di classe". Disfattista perché al postulato della possibilità di rimpiazzare il fascismo con istituzioni "realmente" democratiche sacrifica, "(anche quando per un breve ulteriore periodo in qualche secondario settore del mondo moderno potesse avere una sopravvivenza), le molto più importanti caratteristiche vitali del movimento nella dottrina, nella autonomia organizzativa di classe, nella pratica di preparare e di avviare la lotta rivoluzionaria finale, scopo essenziale del partito". Ed infine controrivoluzionaria in quanto "avvalora agli occhi del proletariato ideologie, gruppi sociali e partiti sostanzialmente scettici ed impotenti ai fini della stessa democrazia che professano in astratto, e di cui la sola funzione ed il solo scopo, concomitanti in pieno con quelli dei movimenti fascisti, è di scongiurare a qualsiasi costo la marcia indipendente ed il diretto assalto delle masse sfruttate ai fondamenti economici e giuridici del sistema borghese" (così nella Piattaforma politica del Partito redatta nel 1945 da Bordiga).

Per queste "semplici" ragioni l'avanguardia comunista doveva escludere sin dall'inizio che l'ordinamento democratico post-fascista potesse rappresentare un (inedito) ponte per transitare pacificamente dal capitalismo al socialismo, e denunciare con vigore sia il presunto carattere pro-operaio dell'abbellimento "sociale" e "lavorista" della costituzione, che il tentativo frontista di gabellare la creazione della repubblica come l'inizio di un "secondo risorgimento" a cui spettasse il compito di portare a termine il progressivo rivolgimento l'anti-feudale".

Nella visione marxista delle conseguenze della guerra mondiale imperialista, l'italica "repubblichetta" era sorta, assai più che dalla "guerra civile partigiana", dal tracollo bellico del nazi-fascismo davanti alla soverchiante forza delle "potenze democratiche" e dell'Urss. Essa era, dunque, non soltanto uno stato borghese (non essendovi stata, di mezzo, alcuna rivoluzione proletaria), ma uno stato borghese "a sovranità doppiamente limitata", ed in quanto tale doppiamente "assicurato", da Washington e da Mosca, contro il "pericolo", destinato immancabilmente a ripresentarsi, della rivoluzione socialista (una polizza di "assicurazione" sulla vita un tantino più solida di quelle fornibili da un De Lorenzo o da un Gelli - lo capiranno mai i campioni della dietrologia di "estrema sinistra"?). Falso, perciò, era contrapporre, quanto a natura di classe, il regime fascista e la repubblica democratica (ciò che non significa che queste due distinte forme politiche della dittatura capitalistica siano banalmente identiche); reale, per contro, l'antagonismo tra la ricostituzione della macchina di oppressione del capitale in forme democratiche rinnovate e rafforzate (anche grazie, da un lato, alla "tesaurizzazione" dell'esperienza del fascismo, e dall'altro all'apporto del nazional-comunismo) e la ripresa della "marcia indipendente" del proletariato verso il rovesciamento del sistema di sfruttamento capitalistico.

Come siano andate effettivamente le cose in questo secondo dopoguerra, a quale classe, cioè, abbia fornito in esclusiva i propri servigi lo stato democratico " anti-fascista", dovrebbe esser chiaro perfino agli orbi. Ed è ben risibile cercare di giustificare la bancarotta della prospettiva stalinista (che è stata tale solo e soltanto per gli sfruttati!) invocando la precoce trasformazione della repubblica democratica in "regime democristiano". Che razza di giustificazione è codesta? Una tale evoluzione della situazione politica in Italia era "naturalmente" e per intero inscritta nella "democratica ed anti-fascista" suddivisione delle "sfere di influenza" compiuta a Jalta e nessuno potrà negare che il mefitico quarantennio di predominio democristiano sia uscito dal "sovrano" responso delle urne. E' stato lo stesso Pci, inoltre, a spianare la strada materialmente ad esso attraverso l'imbrigliamento delle energie della parte più combattiva del proletariato e l'inquadramento nazionale e legalitario delle masse lavoratrici. Ancora più inconsistente è, poi, protestare che la democrazia post-fascista è stata una "democrazia dimezzata" a causa dell'incessante azione "illegale" di un "anti-stato" interno ed internazionale complottante "contro la democrazia". Anzitutto, perché ad organismi quali la Nato (a cui l'Italia ha scelto democraticamente di appartenere: o no?), o quali la Cia ed i servizi segreti indigeni e tutti i "corpi separati" dello stato borghese è completamente fisiologico "ordire" manovre politiche, provocazioni anti-operaie imperialiste, guerrafondaie, controrivoluzionarie. Sono lì, istituzionalmente, per questo, e sarebbe patologico (per il capitale) che se ne astenessero. E in secondo luogo, e su un altro piano, perché certi uomini dell' "anti-stato" su cui si fa ora un gran rumore, se non sono a tutti gli effetti (o sono stati) quadri direttivi dello stato democratico, assomigliano piuttosto a dei panchinari che di quando in quando l'allenatore (opportunamente sollecitato dagli azionisti) fa scaldare a bordo campo per spronare qualcuno tra i titolari ad impegnarsi di più e meglio per la "squadra"…

No, non si può ascrivere alla sola Dc (con il complemento dell' "illegalismo golpista") il lungo periodo di stabilità borghese corrispondente alla "prima repubblica", una stabilità sostanziale che, ad onta dei continui ricambi delle compagini di governo, si è rivelata molto più salda e duratura di quella garantita al padronato dal regime mussoliniano. Determinanti cause strutturali a parte (è evidente, infatti, ch'essa è dovuta prima di tutto all'impetuoso ciclo di sviluppo post-bellico), è all'intero schieramento politico borghese, è al complesso della macchina di oppressione democratica che se ne deve attribuire il "merito", insieme o, se si vuole, in subordine rispetto al principale partito dei capitalisti. Con un ruolo ragguardevole del partito "operaio"-borghese, per il carattere sempre "costruttivo" e "nazionale" della sua azione in campo sociale, sindacale, legislativo, amministrativo, internazionale, etc., svolta dapprincipio "contro" l' "ombrello Nato" e sotto il manto del "socialismo reale", e poi, dopo una lunga marcia nel "proprio" capitalismo e… del "proprio" capitalismo, viceversa…

Fissiamo, dunque, un punto fermo: la repubblica democratica post-fascista ha, nel suo insieme, svolto con efficacia il suo ufficio sovrastrutturale di garanzia e protezione (armata) dei rapporti sociali e degli interessi capitalistici. Nessuna frazione o centro di potere influente della classe dominante pensa di mandarla in soffitta. E però i profondi cambiamenti intervenuti nell'economia e nella situazione politica internazionale rendono improcrastinabili, per la borghesia, alcune modifiche istituzionali.

ma la fine del ciclo di sviluppo post-bellico e la crescente instabilità del capitalismo mondiale esigono un maggiore accentramento del potere politico ed una più rigida disciplina sociale

A livello strutturale il cambiamento fondamentale è stato rappresentato dall'esaurimento, alla metà degli anni '70, della prolungata fase di accumulazione seguita alla guerra e dall'aprirsi di un periodo di incubazione della crisi generale del sistema capitalistico. Questa brusca inversione del corso dell'economia mondiale ha obiettivamente eroso le condizioni materiali di base, gettate dal precedente ciclo di sviluppo, per una "democratica" pace sociale e (le due cose stanno assieme) per una "pacifica" competizione inter-capitalistica, e così facendo ha, alla distanza, messo in discussione le forme e gli equilibri politici, nonché taluni aspetti dell'ordinamento giuridico che si attagliavano alle dinamiche di una "società del benessere" in espansione. Una messa in discussione che è stata soltanto diluita nel tempo, ma non bloccata, dalla ripresa reaganiana, salvo a ripresentarsi, al cadere di essa, con moltiplicata acutezza.

Con l'inasprimento della polarizzazione sociale, che ha portato, nei "quadro politico" interno, alla rottura (nel 1979) degli accordi di "unità nazionale", e con l'inasprimento dello scontro per il controllo del globo tra le massime potenze capitalistiche, si è dischiusa una fase, che non è specificamente "italiana" - s'intende, di riforma in senso (ancor più) autoritario e centralizzante delle istituzioni statali. Una serie di passaggi di questo processo ci stanno già abbondantemente alle spalle, e ci limitiamo soltanto a richiamarli:

- la blindatura della democrazia operata con l'introduzione della "legislazione di emergenza", avviata in modo relativamente "soft" dalla legge Reale del 1975 (che pure attribuiva a polizia e carabinieri licenza di "rispondere al fuoco" nelle manifestazioni) ed enormemente ampliata e indurita dalla normativa e dalla pratica dell'intervento "contro il terrorismo"; blindatura che è rimasta, ben al di là del fenomeno brigatista, nel suo reale contenuto di attrezzaggio preventivo per la repressione della l'emergenza" dell'autonomia di classe del proletariato.

- il rafforzamento dei poteri del governo sia nei confronti del parlamento che nei confronti della stessa maggioranza che lo esprime, attraverso la modifica dei regolamenti parlamentari, la creazione di una "corsia preferenziale" per le proposte del governo, la legge sulla presidenza del consiglio (che ha esteso le attribuzioni del primo ministro rispetto agli altri componenti dell'esecutivo), la semi-abolizione del voto segreto, il sempre più esteso ricorso al voto di fiducia ed ai decreti-legge, ecc.;

- la più stretta integrazione delle centrali direttive dei sindacati e del Pci non soltanto entro le maglie della ideologia della collaborazione tra le classi antagoniste degli sfruttatori degli sfruttati, ma anche "concretamente" entro gli imperativi dettati dal primato degli "interessi nazionali" ed entro la loro sempre più rigida e "coerente" traduzione in atto, a livello aziendale e generale; una integrazione che ha avuto precisi ed omogenei riscontri tanto in una secca restrizione della "democrazia sindaca le", quanto nel varo di una nuova legislazione anti-sciopero;

- la messa in riga con l'esecutivo delle punte più "indipendenti" della magistratura (sia in processi di mafia che di terrorismo di stato o di corruzione), ed il parallelo svuotamento dei (sempre più rari) pronunciamenti della magistratura del lavoro non sfavorevoli ai lavoratori.

La classe capitalistica è, però, tutt'altro che appagata dalla centralizzazione politica e dal disciplinamento sociale sin qui conseguiti e prepara ulteriori passi (se non salti) in avanti. La spinge a tanto anzitutto il rapidissimo e "sconvolgente" evolvere della situazione internazionale, legato per un verso agli effetti catastrofici che la crisi sta già producendo in vastissime aree del Terzo Mondo e per altro verso al crollo dei regimi del "socialismo reale" ed allo sfaldamento dell' "ordine di Jalta". Si sono aperti così "all'improvviso", con la fine della guerra fredda, larghi spazi di penetrazione ad Est e a Sud che il capitalismo "nazionale" può occupare solo a condizione di vincere la feroce concorrenza degli altri partner europei del Giappone e di guadagnare margini di autonomia rispetto all'imperialismo Usa, l'unico, tra i due "padrini" della "sovranità limitata" del 1945, che sia rimasto al proprio posto di comando. Allo stesso tempo, la re pubblica democratica che, a stare alla sua carta costituzionale pacifista, "ripudia la guerra come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali", si trova d'un balzo davanti ai compiti operativi dell'aggressione imperialista agli sfruttati del Medio Oriente ed ai popoli oppressi in generale, ed alla conseguente necessità di assoggettare la classe operaia ed i lavoratori ai costi d'ogni tipo che ne derivano.

In una tale situazione del capitalismo mondiale caratterizzata da accresciuta instabilità ed intensificata competizione, la grande borghesia di casa "nostra", oltre a consolidare le modifiche istituzionali già attuate, ne ha messe in cantiere altre due:

  1. l'ulteriore rafforzamento dell'esecutivo, sia in termini di durata che di svincolamento dai condizionamenti del parlamento e dalle "pressioni particolaristiche" provenienti dalle classi medie;

  2. la riorganizzazione in senso efficientista e "privatistico" della pubblica amministrazione.

Quanto al primo aspetto, c'è tuttora un tangibile scarto tra il fortissimo accentramento del capitale (non è una boutade giornalistica parlare dell'economia nazionale "privata" come del "capitalismo delle cinque grandi famiglie") e la (pur decrescente) forza di inerzia di un metodo di governo "consociativo" in virtù del quale "nessuno può governare fino in fondo e nessuno può opporsi fino alle estreme conseguenze". Questo metodo che è stato utile alla borghesia in un non breve periodo (inizio anni '60-fine anni '70) in cui si è andato realizzando, tra molte contraddizioni, un complesso compromesso sociale ed istituzionale "interclassista", si è rovesciato, per il cambiamento di fase, in un ostacolo alla "governabilità". Dopo che il decisionismo craxiano gli aveva inferto dei colpi durissimi, il rilancio economico degli ultimi anni lo aveva parzialmente riportato in campo su scala sociale e politica più ristretta e precaria. Ora quel che di esso sopravvive è di nuovo sotto tiro incrociato.

E' su di un aspetto in particolare che battono i portavoce del capitale finanziario: il "governo dell'economia". Lo ha spiegato per tutti, senza alcuna perifrasi, G. Carli sul Corriere della sera del 29 settembre. "Abbiamo bisogno - ha detto - di un'autorità forte nella gestione della finanza pubblica", e tale obiettivo è irraggiungibile senza sottrarre al parlamento i suoi "sterminati poteri" di estendere e disperdere a pioggia la spesa statale. Come realizzare la sgradita (ai diretti interessati) sottrazione? Per mezzo di alcune revisioni istituzionali. Maggiori poteri al governo ed al ministro del Tesoro. Preferenza alla regola della approvazione o bocciatura in blocco delle leggi di bilancio. Eliminazione della "anomalia" per cui il sistema delle entrate è accentrato e quello di spesa è decentrato, allo scopo di contenere il disavanzo. Ed infine completo cambiamento del sistema di voto, così motivato: "Il cuore del problema mi sembra questo: in un sistema in cui il parlamentare ha piena libertà di presentare emendamenti alle leggi di bilancio e in cui il deputato è portato dal meccanismo elettorale basato sulle preferenze a cercare di catturare il consenso dell'elettore marginale più che preoccuparsi del complesso dei votanti (che sta per: complesso degli interessi capitalisti - n.), è fisiologico, è inevitabile che ci sia una spinta alla frammentazione ed alla crescita della spesa". Ergo: per accentrare ancora di più i flussi dell'intervento statale , bisogna rendere irrilevante il "consenso dell' "elettore marginale", e cioè del… "complesso dei votanti", sottraendo all'eletto (e al… "complesso dei votanti") la facoltà di disturbare l'esecutivo, ed educando per converso il singolo parlamentare (figura che non è in discussione in quanto tale, ché si tratta solo di "razionalizzare" la democrazia, non di sopprimerla) ad essere portatore presso l' "elettore marginale" ed il "complesso dei votanti" delle esigenze della "economia nazionale" nella sua totalità.

E' evidente che il naturale centro di sintesi dei contraddittori interessi delle diverse frazioni e settori della classe capitalistica non può che essere il governo, "comitato d'affari" di tutta la borghesia, ma deve trattarsi di un governo che - ha chiosato un altro commentatore del Corriere abbia "più potere di governare l'economia e meno potere di occuparla". Un "governo forte", cioè nel ben preciso senso di saper "liberare" dai lacci e dai lacciuoli delle "pressioni corporative" la massima quantità possibile di risorse per convogliarle, attraverso la finanza statale, alle imprese, riservando alla "iniziativa privata" il profitto ed addossando al "complesso dei votanti" il rischio delle perdite. Un governo forte, in definitiva, per rafforzare, all'interno e verso l'esterno, il potere della classe sfruttatrice sul lavoro salariato e sull'intera società. Per intanto, anticipando nei fatti una simile riforma istituzionale, il governo Andreotti, con la complicità delle direzioni sindacali e di una sempre più evanescente "opposizione", è riuscito a far approvare una finanziaria molto pesante per i lavoratori, come quella per il '91, senza che vi fosse alcuna risposta di lotta.

Un'altra "arretratezza" che la classe dominante appare sempre più determinata a rimuovere è l'inefficienza della pubblica amministrazione e dei servizi pubblici. Il ritardo, in questo campo, è tradizionale. In Italia, infatti, mentre le relazioni sociali capitalistiche hanno radici plurisecolari, la formazione di una compagine statale unitaria è intervenuta con particolare ritardo e con particularmente acuti squilibri e contrasti territoriali. Lo stato borghese ne ha risentito in permanenza in fatto di efficace funzionamento della macchina amministrativa (e di capacità militare: è impossibile separare i due aspetti). Anche in questo secondo dopoguerra, se la struttura produttiva si è rivelata a sufficienza dinamica, flessibile e "nera" da stare profittevolmente sui mercati, i guasti della pubblica amministrazione sono andati, rispetto alla concorrenza, piuttosto aggravandosi, di pari passo, per giunta, con il suo pletorico rigonfiamento, con la voracità dei suoi quadri e con l'infittirsi (soprattutto, ma non solo, al Sud) dell'intreccio con mafie e camorre varie. Scontato, oltre il danno economico, anche l'effetto di complessiva delegittimazione delle istituzioni statali (è dall'incancrenirsi di questa situazione che hanno tratto molti consensi le Leghe).

Negli ultimi anni, in particolare, è arrivato ad un punto-limite lo scontento del proletariato industriale, che, già gravato da un incessante incremento dell'intensità e della produttività del lavoro, si è visto scaricare metodicamente addosso i sacrifici imposti dalla salvaguardia della competitività nazionale, laddove a medici e magistrati, alti funzionari ed insegnanti, venivano elargite, senza reali garanzie di maggiore produttività dei servizi, cospicue fette di una "torta" sociale fattasi più ridotta. La grande borghesia ha avvertito il campanello d'allarme e sta tentando di stringere i tempi per la riforma dei pubblici servizi giovandosi proprio del malcontento "popolare", come negli anni '80 si è giovata della "marcia" dei ceti medi per colpire il proletariato e ridimensionare il "potere sindacale". Alla recente normativa anti-sciopero già cominciano a far seguito primi provvedimenti (ancora limitati) di privatizzazione, misure di controllo delle presenze e delle prestazioni, incentivi per elevare la produttività ed infine la riconduzione degli stessi stipendi e salari al principio della "compatibilità" (finora abitualmente violato). Ma una riforma ad ampio raggio della pubblica amministrazione è semplicemente impensabile senza l'attribuzione all'esecutivo di poteri d'intervento speciali e senza ricondurre all'ordine quelle associazioni di categoria (non operaie, evidentemente) portatrici di "egoismi di bottega", alle quali è stato finora possibile comportarsi da variabili indipendenti. Si torna così, anche da questo lato, alla medesima questione: la riorganizzazione ancora più accentrata dell'apparato repressivo ed amministrativo dello stato democratico, efficace verso la "generalità dei cittadini". Conclusa la guerra fredda, infatti, attenuatesi le limitazioni alla "sovranità" nazionale, con i venti di guerre calde (o caldissime) che spirano sempre più forti, i "nuovi" e superiori compiti del capitalismo nostrano non possono essere assolti con il disciplinamento del solo proletariato; anche ai ceti medi (e soprattutto a quelli salariati) che hanno beneficiato dell'euforia drogata degli anni '80, sta per essere dato l'annuncio (nel loro caso certo meno beffardo che per la classe operaia): "la festa è finita".

Come rendere più autoritario lo stato con il consenso dei "cittadini"

Altro è, però, aver messo all'ordine del giorno le riforme istituzionali, altro è riuscire a vararle ed a realizzarle a pieno. Proprio perché è escluso che la cosa possa ridursi al gattopardesco "cambiare tutto perché nulla cambi", ma si tratta invece di un trapasso non indolore tanto sul piano sociale quanto su quello politico-istituzionale, è anzi particolarmente difficile, specie per la maggioranza di governo, arrivare a delle decisioni concrete. Le quotidiane tiritere contro il parlamentarismo "integrale", la democrazia "acefala", il governo parlamentare "puro" o "assembleare", contro l' "impotenza" del governo o l'arte del non governo, contro la partitocrazia e contro l' "eccessiva dispersione" del quadro politico, ecc. ecc., hanno aperto la strada nella direzione consentanea agli interessi totalitari del capitale più centralizzato. Ma giusto a misura che questa pressione aumenta, infuria lo scontro anzitutto tra De e Psi, nella Dc con un gioco allo scavalco ed alla differenziazione nello stesso Psi e nella maggioranza di governo (e col Pci invariabilmente subalterno nei confronti di entrambi), su cosa e come cambiare.

Nell'autentica babele di proposte che si oppongono e si incrociano, due sono quelle che tengono il campo. La prima, avanzata dal Comitato promotore dei referendum elettorali (abrogativi), espresso da uno schieramento "trasversale" che va dai democristiani Segni e De Mita fino ad Occhetto passando per liberali e radicali, e incentrata su un'ampia modifica della normativa elettorale e prevede l'introduzione del premio di maggioranza per il partito o la coalizione che ha il maggior numero di voti, l'estensione del sistema maggioritario a tutti i comuni, la riduzione ad una delle preferenze, con l'obiettivo dichiarato di rendere più solida la governabilità al centro e localmente e di tagliare le clientele elettorali. La seconda, quella di Craxi (che incontra il favore anche delle Leghe, del Msi e la tiepida adesione dei liberali), è imperniata invece sulla elezione diretta del capo dello stato e l'attribuzione ad esso di vasti poteri di governo (sul modello semi-presidenziale francese) e la differenziazione dei compiti dei due rami del parlamento, che avrebbe un semplice potere di controllo sull'attività dell'esecutivo, con lo scopo di dare la massima stabilità e forza di decisione (in accordo a ciò che detta l'interesse complessivo della borghesia nazionale) al vertice dello stato "eletto dal popolo".

Due percorsi differenti per lo stesso fine di maggiore (o massimo) accentramento del potere politico, delle quali quella del Psi costituisce l'ipotesi di più radicale avocazione di poteri "verso l'alto", ed alla quale non a caso è fortemente riottosa la gran parte della Dc, che vede minacciato da un simile balzo in avanti della "razionalizzazione" delle istituzioni il complicato incastro semiconsociativo di cui è tutt'oggi l'asse.

La battaglia tra i due schieramenti è aperta ed è ben possibile che, transitoriamente, conflitti, veli incrociati e resistenze (anche sociali) finiscano per prolungare una situazione di stallo ed alimentare la rissa tra le concorrenti bande di servitori della borghesia imperialista. Non possiamo sapere (ed, in fondo, ha scarso rilievo) se prevarrà l'una o l'altra, o spunterà una via di compromesso. Quello che importa e che teniamo per certo, invece, è che il rafforzamento autoritario dei poteri del governo e, più in generale, degli apparati di stato è, per la classe dominante, un passaggio obbligato anche per la efficace attuazione delle altre riforme istituzionali e che ogni ulteriore accumulo di ritardo predispone dialetticamente le condizioni per una più rapida soluzione del problema. Per il capitale monopolistico può essere un optional (non necessariamente gradito) la riorganizzazione in senso "federalista" dello stato (che significherebbe, comunque, anch'essa non maggiore "decentramento" del potere borghese, bensì il contrario, in quanto da un lato, smantellando il "welfare state" territoriale che in qualche modo attua una redistribuzione del reddito nazionale "a favore" di un Sud penalizzato dallo sviluppo "diseguale e combinato" del capitalismo italiano, risucchierebbe risorse verso la Padania con un effetto di ulteriore accentramento del potere economico e politico, ed in quanto dall'altro consoliderebbe al di sopra e contro le "autonomie locali" quegli enti artificiali ed anti-sociali - almeno questo Togliatti lo disse alla Costituente - che sono le regioni); ma non è un optional il rafforzamento, e cioè la massima centralizzazione a sé, dell'esecutivo.

Alcuni raggruppamenti "di sinistra", inguaribilmente affetti dalla superstizione che la democrazia è incompatibile con il sistema capitalistico, ne deducono che ci avviamo ad una fase di golpismi, di piduismi, di "attentati" alla Costituzione e già sparano i propri tric-trac per chiamare a raccolta il fronte del resistenzialismo democratico contro le "oscure" manovre reazionarie. Noi marxisti, che mai ci sogneremmo di negare che dietro la facciata ufficiale della democrazia borghese si agiti (tanto più in tempi turbolenti come questi - altro che il '64!) un autentico verminaio di intrighi, di cosche e di figuri gli uni più anti-operai e loschi degli altri, vediamo però la maggiore (non è scritto: la sola) insidia attuale per il proletariato nel fatto che la classe capitalistica intende ristrutturare in senso più totalitario le proprie istituzioni con la partecipazione ed il consenso "democratico" dei "cittadini". Non è per caso che gli agit-prop delle riforme istituzionali, tutti indistintamente, abbiano fatto e facciano appello agli elettori "sovrani" perché siano essi a decidere… dietro quali sbarre farsi rinchiudere. La propaganda batte sul tasto (che si sa "popolare" anche tra i proletari) di "togliere potere alla partitocrazia per attribuirlo ai "cittadini", e non mancano, all'occorrenza, anche limitate ma reali contropartite materiali da ventilare: se si farà piazza pulita, con le riforme istituzionali, del sottobosco clientelare e camorristico del mondo politico"; se si renderà meno costosa e più efficiente l'amministrazione pubblica; se si farà una "vera" lotta comune contro la mafia; e così via. Lo stato democratico autoritario della metropoli imperialista è uno stato che ricorre metodicamente alle tecniche "partecipative" (plebiscitarie e capillari) proprio in quanto esercita il massimo dell'oppressione e perché, a differenza dello stato "liberale", deve intervenire di continuo per scomporre la massa (potenzialmente assai più forte che nell'Ottocento) del proletariato. Per questo la "campagna" per le riforme istituzionali sarà segnata, già lo è (si pensi alle chiamate referendarie da destra e da manca o alle stesse "rivelazioni" su Gladio e il "piano Solo"), da una accentuazione della mistificazione e del coinvolgimento "democratico" in nome della "nazione", piuttosto che dai processo inverso.

Chiamati in causa come "cittadini", i proletari hanno da dire la loro come classe

Il terreno delle riforme istituzionali non è, dovrebbe essere chiaro, il terreno nostro, il terreno del proletariato. Più che mai, come abbiamo scritto ripetute volte, il centro di gravità della lotta rivoluzionaria per il socialismo passa al di fuori e contro le istituzioni "parlamentari" del capitalismo, siano esse mondiali (l'Onu), europee o nazionali (specie se di nazioni imperialiste). La classe operaia non ha proprie riforme istituzionali da presentare in alternativa a quelle avanzate dalla classe capitalistica, salvo la soluzione radicale (che non fu una riforma…) della Comune di Parigi: l'instaurazione del potere dittatoriale di classe sul capitale. Questo, però, non comporta l'anarchico tirarsi fuori dalla lotta politica, bensì l'esatto contrario, giusto a misura che lo stato borghese non si limita ad attendere la classe lavoratrice al di là della lotta economica o addirittura solo alla soglia dell'insurrezione, ma è entrato davvero, come macchina amministrativa e non soltanto direttamente repressiva, in tutti i pori e gli stadi della vita sociale.

Dalla gestione della finanza pubblica all'organizzazione dei servizi sociali, dalla blindatura della democrazia alla legislazione anti-sciopero, dall'allargamento del fossato tra Nord e Sud alla espansione dei "poteri malavitosi": tutti i problemi sottesi al processo di "razionalizzazione" dell'ordinamento borghese riguardano il proletariato. Su tutti il proletariato ha la sua da dire, i suoi interessi da far valere come classe, e potrà farli valere solo a condizione di rifiutare il ruolo, subalterno al capitale, di "cittadino" per assumere con la lotta, con l'organizzazione delle proprie forze, con il proprio programma, il ruolo soggettivo antagonista che gli compete.

E' in atto un inasprimento dell'accentramento totalitario del potere borghese e del disciplinamento sociale in senso pro-imperialista (il militarismo capitalistico non obbliga soltanto i proletari in divisa), che è finalizzato ad attrezzare al meglio la "nostra" nazione in vista dell'acuirsi dello scontro inter-imperialistico sul mercato mondiale. La classe operaia può rispondervi efficacemente solo schierando in campo tutta la propria forza a sua volta centralizzata al massimo su di una linea di classe internazionalista (rispetto alla quale niente vi è di più antitetico - e reazionario - di quel regionalismo e di quell'aziendalismo che tanti proseliti stanno facendo nel sindacato e nella "sinistra"). E' questa la sua unica garanzia di poter difendere, com'è interessata a fare, i propri "diritti democratici" e la sua unica possibilità per passare, "domani", all'offensiva contro il sistema capitalistico, ponendosi come punto di riferimento di quei vasti strati di lavoratori che la ristrutturazione autoritaria delle istituzioni borghesi deve toccare o colpire.

L'oggettivo approfondirsi (a scala metropolitana) della polarizzazione sociale crea condizioni più propizie a che il proletariato perda le sue illusioni nella democrazia borghese e, a partire da una momentanea situazione di isolamento, sappia aprirsi la strada alla riconquista della propria autonomia ed alla rivendicazione di quel potere integrale sulla società che storicamente gli compete come sola classe produttiva.

E in questa prospettiva che i comunisti prendono parte anche alla "minima" delle lotte che si sviluppano contro gli effetti della evoluzione sempre più centralizzatrice e repressiva delle istituzioni borghesi, incluse (non, però, quale compito preporiderante) quelle che si sviluppassero contro una possibile ripresa di "strategia della tensione" (pro-democrazia totalitaria). Vi parteciperemo ben sapendo che la massa lavoratrice è tutt'oggi impregnata di illusioni democratiche, ma appunto per sospingerla in avanti, a risalire dalla lotta contro le estreme propaggini "malate" o gli effetti più odiosi dell'oppressione capitalistica alla comprensione della necessità di dare battaglia alla macchina complessiva del potere capitalistico, preparandosi alla lontana, non a riverniciarla, ma a spezzarla.

(La guerra del Golfo, esplosa mentre concludiamo queste note, non farà che accelerare di molto i processi qui analizzati ed "esaltare" i corrispondenti compiti politici).