Le lezioni dei recenti scioperi in Jugoslavia

PUNTI DI FORZA, DEBOLEZZE E CONTRADDIZIONI DEL MOVIMENTO OPERAIO NELL'ATTUALE SITUAZIONE E IN VISTA DEI SUOI INEVITABILI SBOCCHI FUTURI


Indice


Gli inizi dello scorso dicembre hanno visto la proclamazione dello sciopero generale in Croazia prima dei metalmeccanici, poi dei tessili. Che ne è stato? E, soprattutto, quali lezioni se ne possono ricavare per quanto concerne il futuro? Domanda doppiamente "ghiotta", perché - non è una novità! -, la Jugoslavia in larga parte anticipa situazioni e caratteristiche valide nell'essenziale per tutto l'Est europeo.


Forse ci saremo fatti la fama di insistenti e noiosi maniaci per l'accentuata attenzione che abbiamo da sempre portato alle cose di Jugoslavia. Che importanza, infatti, può mai avere un paese così piccolo ed "insignificante"?

Però però… Negli ultimi tempi anche altri (più potenti di noi, non v'ha dubbio) si sono accorti che val la pena prendere maggiormente in considerazione in pubblico quel che si passa in Jugoslavia (in privato l'hanno sempre fatto). S'è fatto così molto parlare delle minacce incombenti di una disgregazione del paese attraverso una guerra civile "inter-etnica" e s'è per la prima volta avanzato esplicitamente l'obbligo (morale?) che ce ne deriverebbe, a noi d'Occidente, di prevenire o, se impossibile, fronteggiare "attivamente" una tale soluzione perché si giocano nostri interessi che vanno "severamente" tutelati. Domandina facile facile: dove finiscono i "nostri" confini? Risposta scontata: al punto oltre il quale non possono arrivare i "nostri" capitali, la "nostra" politica, le "nostre" armate.

Guarda caso!, tutto l'Occidente s'è prodigato in consigli e moniti ai politici jugoslavi sui contenuti ed i modi entro cui essi dovranno andare a risolvere i "loro" problemi, pena una "nostra" diretta entrata in campo. Come già precedentemente rilevato, sulla stampa jugoslava si è data notizia di un piano di pronto intervento Nato, che vedrebbe operativamente coinvolta in prima persona l'Italia ("nel caso in cui...'% con uno sconfinamento all'immediato sino a 50 km all'interno del paese vicino. Si sa che l'Austria ha triplicato le proprie truppe di "sorveglianza" ai confini jugoslavi ed - ultima, preziosa ciliegina - sono annunziate manovre nell'Adriatico da parte della Flotta Usa. A quest'ultimo proposito, il ministro sloveno della difesa, l'ex "perseguitato politico" Janša, ha prontamente dichiarato che si tratta di un'attenzione del tutto legittima da parte dell'Occidente nei confronti di zone considerate a rischio, senz'altro aggiungere (ma si capisce bene come questa genìa si sia di già affittata "liberamente" all'Occidente, consegnandogli tranquillamente i destini della tanto vantata propria "indipendenza nazionale").

Siamo solo alla preparazione del balletto e già alla propaganda interventista si accompagnano le prime dimostrazioni muscolari. Ci fermeremo qui? Lecito dubitarne, perché, in presenza di fattori di crisi permanenti ed in via d'aggravamento nel vicino paese, una "pacifica" soluzione del rebus potrebbe darsi solo grazie ad una, più o meno "spontanea", auto-consegna di tutta la Jugoslavia al "libero Occidente"; ma, anche in questa remota ipotesi, non uno dei nodi strutturali che soffocano il paese verrebbe reciso e, quindi, l'incendio si riprodurrebbe a scala ancor più allargata. Altre possibilità di soluzione? Sì, una ce n'è: l'entrata in campo, in Jugoslavia e dovunque, del proletariato contro la causa generale di tutte le infinite crisi cosiddette "nazionali", "locali" etc. etc.

Questa la soluzione cui noi costantemente miriamo, in teoria, nel programma, nel lavoro organizzativo, né altre conosciamo. Il problema si fa complicato quando si "scenda" a fare i conti con lo stato attuale del movimento proletario e di qui si intenda seriamente ripartire anziché indulgere a lirici (ed inutili) svolazzi idealistici e senza piombare nello sconforto di quanti scambiano, immediatisticamente, i dati negativi contingenti di un processo storico, materiale, con un'immutabile realtà. Tanto quell' "ottimismo della volontà" quanto questo "pessimismo della ragione" sono semplicemente i segni di un inguaribile smarrimento piccolo-borghese, e noi ne facciamo volentieri a meno.

Inventario delle passività 

Gli scioperi dello scorso dicembre in Croazia testimoniano inequivocabilmente delle difficoltà contro le quali si urta il proletariato jugoslavo, provvisoriamente incapace non solo di un'azione politica autonoma, ma della stessa forza necessaria ad una solida lotta "sindacale".

Piaccia o non piaccia, l'inventano della passività parla chiaro.

L'agenzia Taniug riportava il 5, ripresa dai giornali il giorno seguente, che "allo sciopero generale dei metalmeccanici (…) hanno partecipato oltre 62.800 lavoratori". Ma i "dati raccolti indicano - annotava La Voce del Popolo di Fiume - che hanno aderito all'invito a scioperare in genere le fabbriche e gli impianti siti nelle località minori" (ed anche qui in modo assai parziale), mentre "i grandi sistemi produttivi, a parte alcune eccezioni, si sono astenuti dal partecipare all'agitazione, anche se in genere tutti hanno appoggiato (!) le rivendicazioni sindacali tese alla risoluzione della difficile situazione socio-economica degli operai".

Il giorno successivo si doveva registrare che l'annunciato sciopero generale dei tessili era silenziosamente rientrato "pur appoggiando (e ci risiamo!, n.) le rivendicazioni del sindacato autonomo di categoria".

"Quello che avrebbe dovuto essere uno sciopero generale dei metalmeccanici si è trasformato, ci sia permesso di dirlo -rincara La Voce -, in una farsa. Paura di conseguenze? Impreparazione? O qualcos'altro?".

Tante cose assieme. In primo luogo va notato che l'agitazione era stata indetta da un "sindacato autonomo", rappresentativo senz'altro delle esigenze dei lavoratori, ma tutt'altro che predisposto ad una battaglia che lo vedeva osteggiato sia dal cosiddetto "sindacato indipendente" che, e più, dall' "Unione dei sindacati della Croazia" messa in piedi dal governo quale arma di supporto alla sua azione politica ("l'unica con la quale il governo è disposto a trattare": e ti credo!), mentre quello di categoria "non si è espresso esplicitamente". Un passo più lungo della gamba? Sì, in un certo senso, nella misura in cui il "sindacato autonomo" non aveva trovato precedentemente modo di radicarsi e saggiarsi in lotte di preparazione, e, al tempo stesso, un passo, in certo altro senso, troppo corto, data la decisione di "articolare- lo sciopero in orari e con modalità diversi, all'interno delle singole aziende, facendo mancare alla massa l'occasione di manifestarsi in quanto tale, in piazza e con l'aggravante persino del rinvio al giorno successivo dell'agitazione dei tessili (categoria iper-sfruttata, con un salario mensile sulle 250 mila lire). Eccesso di presunzione da un lato e minimalismo dall'altro si sono dati la mano per portare alla rovina lo sciopero.

Dietro questa "impreparazione" sta, in primo luogo, un'ipoteca politica.

"Protestiamo unicamente perché in questo modo non si può andare avanti", avrebbe detto la stragrande maggioranza dei lavoratori, ma "contro il governo non ce l'abbiamo certamente". Il sindacato dell' "Uljanik", in un suo comunicato, esprimeva al "meglio" questa preoccupazione: "Riteniamo che siano maturate da tempo tutte le condizioni per dichiarare lo sciopero… ma "siamo coscienti della difficile situazione che sta attraversando l'economia della Croazia" e del fatto che 1e radici degli odierni problemi stanno nel periodo che abbiamo lasciato alle nostre spalle" e "non ci attendiamo un miracolo da parte del governo", ma solo "comprensione per le nostre buste paga, di giorno in giorno sempre più tartassate". Di conseguenza: "le rivendicazioni sindacali non si possono trattare (da parte del governo, n.) come un attacco e ancora meno come un tentativo di abbattere il nuovo potere democratico" e "il fatto di per se stesso di non scioperare, pur appoggiando tutte le rivendicazioni dimostra che le nostre intenzioni non hanno connotazioni di stampo politico".

Tanto "lealismo" verso il nuovo governo "democratico" di Tudjman (alla cui elezioni avevano concorso recentemente, anche se in misura non plebiscitaria le masse operaie) e verso le "superiori" esigenze dell'economia "nazionale" spiegano l'impasse in cui si è venuta a trovare l'agitazione, mal servita da una direzione incerta e poco sperimentata. Così, tanto per cominciare, non hanno aderito allo sciopero le aziende in difficoltà, come la Torpedo, dov'è installato un "curatore fallimentare", con la motivazione che 1a produzione non può venir interrotta considerato che i danni sarebbero ancor maggiori" o, il giorno successivo, quelle aziende tessili in cui 1a dirigenza delle aziende, in accordo con tutti i lavoratori, ha dichiarato che il processo produttivo è legato a precisi contratti con partner stranieri e ogni ritardo nelle consegne non farebbe che peggiorare la difficile situazione in cui si trovano nonost4nte lavorino a piene capacità".

Il "nostro" governo, le "nostre" aziende. Questo "nostri" ha la sua spiegazione: siamo ancora nella situazione in cui del nuovo governo si ha modo solo, o principalmente, di vedere l'elemento di rottura che esso rappresenta nei confronti di un sistema precedente del quale nulla v'è da rimpiangere o da difendere e non (ancora o appieno) il suo aspetto di comitato d'affari di una borghesia che si appresta a marciare con maggior spietatezza contro gli interessi, immediati e storici, della classe operaia. Parimenti, sopravvivono in Jugoslavia elementi di "compartecipazione" (…in sacrifici) nella vita aziendale, e tutto ciò contribuisce a frantumare ed indebolire la classe nel chiuso delle Il singole" e "proprie" realtà produttive.

Ecco: abbiam fatto i conti (non lievi) del passivo. Ma davvero si è trattato di una semplice "farsa" destinata a chiudersi una volta per tutte?

Segni inequivocabili di ripresa

Noi lo neghiamo recisamente, e non - ci sia concesso ripeterci per l'ennesima volta -, in nome di astratti "desiderata", ma confortati dai fatti. Da questi stessi fatti.

Già di per sé è da considerarsi positivo che gli operai abbiano stabilito che "in questo modo non si può andare avanti" e si siano ritrovati (pur con tutte le debolezze e contraddizioni che s'è visto) attorno ad un sindacato programmaticamente autonomo rispetto al governo ed ostile alle manovre di questo di mettere artificialmente in piedi un' "unione sindacale" nazional-governativa.

Si vedrà in seguito come il signor Tudjman dovrà incaricarsi da sé di render chiaro ai lavoratori che, in nome delle "superiori esigenze dell'economia nazionale" - croata, e "solo" croata, beninteso -, il conflitto tra queste esigenze e quelle del proletariato è destinato ad approfondirsi e ad assumere, necessariamente, connotati politici.

I metalmeccanici croati non potevano, e tanto meno potranno in seguito, accordarsi alla sbornia nazionalistica dei seguaci di Tudjman appartenenti ad altre classi (che da questa "democrazia" han qualcosa da attendersi in solido) ed hanno avuto il merito di segnare l'inizio di una spaccatura che è immediatamente sociale e non potrà non essere, di conseguenza, anche politica. Tra l'altro, essi hanno ben sperimentato, in questa occasione, l'isolamento ostile cui essi sono stati condannati da parte dei settori borghesi, o comunque legati alla borghesia, con cui essi avevano in parte "condiviso" l'euforia della fuoriuscita "democratica" dal precedente "sistema socialista" . Per il futuro ne sapranno certamente tenere buon conto.

"Chi ci difenderà se non lo faremo noi stessi, e per noi stessi?" Questo l'interrogativo che frulla nelle teste (e nelle tasche) dei proletari. Il richiamo a quest'esigenza di indipendenza, unitamente al fatto di trovarsi di fronte un regime già in partenza blindato contro ogni e qualsiasi sforzo in tal senso da parte della classe operaia, è destinato a trovare in un futuro che confidiamo non troppo lontano una congrua risposta.

Nonostante le difficoltà aggiuntive di uno sciopero risoltosi in una sconfitta all'immediato, questi operai non potranno dismettere le proprie rivendicazioni, ed è anzi vero il contrario.

Nell'attuale situazione, è di fondamentale importanza che essi si facciano una ragione precisa di tutto ciò e comincino, intanto, col capitalizzare l'esperienza fatta per tendere, se non altro, al superamento del quadro "aziendalista" entro cui sono stati (e in parte si sono) costretti, in vista di agitazioni a venire che li vedano effettivamente uniti come classe (e non quali "produttori" delle "singole" aziende) e trovino nella piazza il proprio naturale punto di incontro ed il necessario moltiplicatore di forza.

E troppo presumere che così sarà, quali che siano le difficoltà del parto?

Lotta tra nazioni e stati o tra classi?

Gli operai croati non hanno ancora saputo dichiarare la guerra di classe ma hanno intanto testimoniato l'esistenza di un conflitto di tal genere che, obiettivamente, spacca l' "unità nazionale" messa in piedi e gelosamente difesa dal neonato potere borghese di Tudjman.

Siamo ancora lontani (in termini "volumetrici": non facciamo questione di tempi) dall'esplodere di tale conflitto. Tanto meno si poteva pretendere, nel quadro attuale, che questa prima attestazione di tendenziale autonomia di classe si saldasse a quella che sta emergendo in ogni altro cantone "nazionale" della Jugoslavia. E, tuttavia, la strada è aperta precisamente a questo sbocco vitale.

A renderla più chiara è proprio, dialetticamente, l'unità sovrannazionale che va affasciando le diverse componenti "nazionali", ancorché concorrenziali e sul piede di guerra l'una contro l'altra, della borghesia jugoslava.

Si sta facendo un gran parlare, là e qui, dei contrasti tra serbi, croati e sloveni (confondendo tutte le classi nel calderone dello stato/nazione). Guarda caso, però, tutte le diverse repubbliche (conflittuali tra loro) si ritrovano poi unite nel propugnare una politica economica - impersonata "sovrannazionalmente" da Ante Markovič -, che ubbidisce ad un'unica legge: quella del mercato, ed ha un unico obiettivo di fronte da colpire: la classe operaia.

Non da poco abbiamo, per quel che ci compete, lavorato a smentire il fasullo cliché di un Milosević (e, dietro di lui, di "tutta la Serbia") quale esempio di "paleo-comunismo" in salsa staliniana. Il (relativo) maggior centralismo cui si richiama Belgrado non va, infatti, disgiunto da un modello mercantil-competitivo, assolutamente ligio ai dettami del FMI e consorterie del genere, non dissimile da quello che si proclama a Ljubliana e Zagabria, con la sola differenza che si vorrebbe mandar avanti un simile modello disciplinando maggiormente le economie delle singole repubbliche ad un centro-raccolta e distribuzione delle risorse (Belgrado, la Serbia… non a caso). Contenzioso non da poco -ammettiamolo-, ma contenzioso interno alla (smembrata e divaricata) borghesia "pan-jugoslava", tra compari-rivali insomma.

Leggere per credere la noticina de l'Unità del 31 dicembre, "Jugoslavia - Repubbliche d'accordo sull'economia": "Il parlamento jugoslavo, ha approvato la nuova legge sui salari e le misure concernenti la politica monetaria da attuare nel corso del '91". Quali le misure portanti? "Il parlamento ha dato il suo consenso per limitare gli aumenti degli stipendi dei lavoratori. In pratica le imprese in "rosso" dovranno congelare i livelli retributivi a quelli del novembre scorso (prima dell'ultima svalutazione del dinaro; quindi: "congelamento" nominale, deprezzamento reale, n.").

Con l'aria "rossa" che tira per la gran parte delle aziende, questa misura economica - federale sul serio!-, si traduce in un ulteriore attacco combinato all'insieme della classe operaia jugoslava. Non stupirà allora sapere che gli stessi operai serbi stanno smaltendo la sbornia nazionalista (che, tra l'altro, un Milosević ha in parte suscitato, in parte cavalcato poi per trattenerla al di qua degli eccessi sciovinisti pan-serbi di altri suoi concorrenti interni) ed oggi si preoccupano un po' meno dei destini della "grande Serbia" ed un po' più dei destini delle loro "piccole tasche". Quasi a ridosso dello sciopero in Croazia si moltiplicavano gli scioperi in Serbia ed in una miniera, addirittura, i lavoratori in lotta si asserragliavano nei pozzi minacciando di farli saltare, immolandovisi, ove le loro richieste non fossero soddisfatte (quando impareranno a minacciare di far saltare in aria i propri affamatori?).

Una situazione del genere predispone alla possibilità di un salto nella coscienza e nell'organizzazione del l'insieme della classe operaia jugoslava: di qui il proletariato (serbo, croato, sloveno…), di là le classi borghesi "nazionali" e, dietro di esse, ben visi bili, le multinazionali d'Occidente col loro codazzo di Fondi Monetari, Seste Flotte o… gladî.

Diciamo "possibilità" e non esito scontato, perché la soluzione nel senso nostro dipende da una molteplicità di fattori, tra i quali, primo, la riattivazione del proletariato d'Occidente e la pressione esercitata dalla rivolta anti-imperialista del cosiddetto "terzo mondo". Possibilità non da poco, però, cui anche la mezza pochade dello "sciopero generale" croato ha contribuito ad aprire un tantino la strada.

Si rifletta su quanto sopra, e si vedrà una volta di più come la Jugoslavia costituisca lo specchio di quel che si sta fucinando ad Est, dalla Polonia alla sterminata Urss (quest'ultima, soprattutto, presenta molti dei tratti caratteristici della Jugoslavia, in particolare per quanto attiene all'intreccio tra scontri "nazionali" e dinamica dello scontro di classe).

Noi, al solito, non azzardiamo pronostici, ma puntiamo decisamente le nostre fiches sul rosso. Maledetto croupier, attento a non tradirci!